Making A Door Less Open (Matador 2020): Car Seat Headrest
Ho fatto ascoltare un pezzo dei Car Seat Headrest – “Fill in the blank” per la cronaca- a mia figlia tredicenne in pieno trip per il suo Finn Wolfhard (per gli adulti che non bazzicano Netflix un protagonista di “Strange Things”) e per la di lui band indie pop “Calpurnia”.
Si è “sorprendentemente” sorpresa manifestandomi il suo pollice recto, una gran vittoria per me.
Il suo entusiasmo è tuttavia scemato di una tacca quando le ho mostrato il retro del cd che ritrae Will Toledo in una foto impietosa presa dal basso. “Che nerdone….si vede pure il doppio mento” sono state le sue parole. Eh lo so, le ho risposto: “Finn è un’altra cosa”.
A Will Toledo deus ex machina assoluto dei CSH effettivamente non daresti quattro soldi, per usare un espressione di mia madre, a vederne le foto. Un ragazzo che pare appena uscito dall’età dell’acne, con occhiali a montatura scura e ciuffo nero la cui sola particolarità parrebbe risiedere in un cognome che pare fatto apposta per essere quello di una popstar.
Eppure è riuscito dopo una, data l’età, paradossalmente lunga “carriera” nell’underground fatta di autoproduzioni lo fi che hanno preceduto l’ottimo “Teens of Denial” del 2016 e “Twin Fantasy” del 2018 (riedizione hi fi di un precedente disco), a comporre quello che ritengo resterà uno dei dischi di quest’anno.
Tralasciato parzialmente il riuscito indie di matrice Pixies-Pavement che era stato il carattere precipuo dei due precedenti dischi, Will ha fatto fare un salto di qualità alla propria creatura operando una sintesi estremamente riuscita di due universi che non sempre si riesce a coniugare con efficacia in ambito pop: quello “sintetico” e quello “organico”. Per intenderci suono elettronico e suono chitarristico.
“Making a door less open” è un disco caleidoscopico, un mosaico di incastri ben congegnati che restituiscono un immagine sonora vivida e brillante al servizio di canzoni efficaci e ben servite dagli arrangiamenti.
A quanto sembra il disco è stato registrato separatamente in una versione elettroacustica e in una sintetica mettendo poi Toledo e compagni nelle condizioni di assemblare il tutto in un formato ben costruito ma non per questo troppo freddo evitando il rischio che la visceralità che è stata caratteristica centrale delle opere precedenti di CSH si andasse a smorzare.
E’ la voce di Toledo a mantenere al centro di tutto quell’emozione che è baricentro essenziale in ogni disco rock. Il suo passare con naturalezza dal cantato “slacker” di matrice Malkmus-Beckiana, all’urlo stile Black Francis, agli ostinati refrain quasi emo, ne fanno certamente un buon catalizzatore di attenzione ed un credibile frontman anche in ambito live.
Gli undici pezzi che si presentano quando “socchiudiamo la porta” di cui al titolo non lasciano mai spazio alla noia, viaggiando in territori molto variegati pur non innescando mai il dubbio di essere di fronte ad un gruppo che non abbia chiara la direzione. Dopo l’esplorativa apertura di “Weightlifters”, la triade che segue “Can’t cool me down” “Deadlines” e “Hollywood” è quanto di meglio si possa ascoltare in questo ambito da parecchio tempo in qua. Altre highlights in un album che non vede realmente cali significativi sono “Life worth missing” dal paradossale titolo, e la lunga ballad sintetico acustica “There must be more than blood” davvero in grado di dare un bel massaggio al cuore.
Per chi scrive il terzo disco di ambito indie-rock in senso lato, dopo quello degli Algiers e quello degli Strokes, da tenersi stretti in questo anno di (dis)grazia 2020.
Non solo roba per nostalgici degli anni passati, sia chiaro, roba per chiunque ami sentire accendersi quel calore nel petto che si innesca quando basso, batteria e chitarra forniscono lo scheletro dove ogni altra scelta sonora e timbrica può prendere vita.