John Prine – Soundtrack of America
Stati Uniti, 1971. La rabbia e il furore per il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam cresceva. John Prine, giovane bastardo pura razza Kentucky (come avrebbe detto di sé), in quel conflitto si era trovato per davvero. Arruolato in Germania “non aveva visto morire i suoi compagni con la faccia nel fango”, ma aveva osservato la teoria dei veterani che facevano ritorno a casa. Così immaginò la storia di “Sam Stone” in un momento nel quale scrivere di soldati non era esattamente di moda. In un’intervista del 2010, Prine parlò della nascita di quella canzone.
“Ero appena uscito dall’esercito. Avevo sempre pensato a quella storia della guerra come a una pena detentiva. Tutti mi dicono quanto sia difficile essere di nuovo in strada e quanto sia difficile ritornare in libertà dopo essere stati assuefatti alla prigione. Tutti i miei amici che erano laggiù sono stati colpiti. Non stavo scrivendo di nessuno in particolare. Ho inventato il personaggio di Sam Stone solo perché faceva rima con casa”. “Sam Stone” appare sul suo album omonimo di debutto e narra dello scontro fisico, mentale e emotivo di un soldato. Un dolore al ginocchio alleviato solo con la morfina, il distacco dalla guerra che diventa “a purple heart and a monkey on his back”. I tentativi di trovare lavoro annientati dalla dipendenza dalla droga “And the gold rolled through his veins, like a thousand railroad trains”. Fino al tragico epilogo “Sam Stone was alone when he popped his last balloon”…“But life had lost its fun/And there was nothing to be done/But trade his house that he bought on the G.I. Bill/For a flag-draped casket on a local heroes’ hill.”…“There’s a hole in Daddy’s arm where all the money goes/Jesus Christ died for nothin’”. Era difficile valutare l’impatto del brano, ma Prine ci arrivò per primo. Per la cronaca Johnny Cash (il “cowboy” come lo chiamava Prine) amava quel pezzo, almeno tanto quanto Prine amava lo stesso Cash: “Johnny Cash was like Abraham Lincoln to me”.
Stati Uniti, 2018. “The Tree Of Forgiveness” ci ha regalato un Prine ancora straordinario. Ho osservato per molti minuti la copertina del disco, quel viso ancora sofferente, quel capo leggermente reclinato per il male oscuro che lo aveva colpito. Ho pensato semplicemente quanto fosse bello che lui ce l’avesse fatta.
“And then I’m gonna get a cocktail: vodka and ginger ale
Yeah, I’m gonna smoke a cigarette that’s nine miles long
I’m gonna kiss that pretty girl on the tilt-a-whirl
‘Cause this old man is goin’ to town”
(John Prine – When I Get to Heaven)
John Prine non era destinato a diventare un altro Elvis Presley. Aveva un volto che non avrebbe mai vinto un concorso di bellezza e la voce ricordava un po’ quella del principe ranocchio, una voce che sembrava venire da un luogo sconosciuto come l’inconscio, appunto. Prine è una stranezza a prescindere. È dell’Illinois eppure canta con accento sudista. Non è un altro Dylan che cerca di sembrare Woody Guthrie, o un altro Ramblin’ Jack Elliott che cerca di sembrare dell’Oklahoma piuttosto che di Brooklyn. Non assomiglia a nessun altro che a John Prine. Le sue canzoni non sono folk, non sono blues. Ci sono elementi country, ma niente che lo avvicinerebbe a Nashville. Se dovessi classificare il suo suono opterei per “country-folk”. Oppure no.
E i testi. Divertenti, tristi, paradossali, enfatici, a volte, eppure costantemente in sintonia con il resto.
La carriera musicale di Prine iniziò con la Atlantic Records e l’album omonimo del 1971. Prodotto da Arif Mardin, che era l’uomo di Aretha Franklin, Laura Nyro e Dusty Springfield, è uno di quei debutti che ti saltano addosso. “Ventiquattro anni e scrive come se avesse duecentoventi”, scrisse Kris Kristofferson nelle note di copertina. “Come fa un ventiquattrenne a inventarsi dei testi come questi: Ya know, that old trees just grow stronger/And old rivers grow wilder every day/Old people just grow lonesome/Waiting for someone to say/Hello in there/Hello.” Tra instant classic come “Your Flag Decal Won’t Get You into Heaven Anymore”, “Hello In There”, “Sam Stone”, “Angel From Montgomery” e “Paradise”, Prine saltò in prima linea e raccolse duecento dollari.
“But your flag decal won’t get you into Heaven anymore
They’re already overcrowded from your dirty little war
Now Jesus don’t like killin’, no matter what the reason’s for
And your flag decal won’t get you into Heaven anymore”
(John Prine – Your Flag Decal Won’t Get You into Heaven Anymore)
Questo primo disco è ricco di canzoni di protesta, se per “protest songs” accettiamo la definizione di ballate empatiche di anime perse e idealisti abbandonati dal sogno americano. “Sam Stone” inizialmente si sarebbe dovuta intitolare “Great Society Conflict Veteran’s Blues”, ed è, come detto, quell’elegia di un soldato ferito che lascia il Vietnam con dipendenza da morfina, tornando a casa “with a purple heart and a monkey on his back.” “Angel from Montgomery” è una ballata che si esprime con la voce di una donna, uno spirito libero, da sempre intrappolato dalla sua stessa esistenza: “I am an old woman named after my mother/My old man is another child that’s grown old/If dreams were lightning, thunder were desire/This old house would have burnt down a long time ago/Make me an angel that flies from Montgomery/Make me a poster of an old rodeo/Just give me one thing that I can hold on to/To believe in this living is just a hard way to go”. “Hello in There” racconta la storia di due anziani soli che hanno perso un figlio in Corea: “I still don’t know what for, don’t matter anymore.” Ma la più inquietante di tutte è “Paradise”, che prende il nome dalla città del Kentucky occidentale dove sono nati i suoi genitori. È il racconto di un idillio rurale che si conclude con la fine dell’infanzia:
“The coal company came with the world’s largest shovel
And they tortured the timber and stripped all the land
Well, they dug for their coal till the land was forsaken
Then they wrote it all down as the progress of man”
La storia di “Paradise”, oggi, proprio come nel 1971, rimanda a ciò che accade quando una gentile esistenza che sorge dalla terra viene distrutta per il profitto. E non suona come un’ingenua rivendicazione ecologica se consideriamo l’assenza di una politica ambientalista negli Stati Uniti. Come ha detto Donald Trump nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2018: “dobbiamo riportare in vita il nostro carbone, il nostro carbone bello e pulito”.
“John Prine” è il ritorno dell’ultimo spettacolo, il suono di un’arpa sacra. Siediti in una stanza buia, da solo, e pensa a tutte le cose sbagliate che sono capitate nella tua vita. Ascoltane alcune di John. Forse piangerai. O sorriderai. O tutte e due le cose. Poi riascoltalo di nuovo, per la prima volta.
L’album successivo, “Diamonds in the Rough” (1972), aggiunse alla lista di Prine canzoni come “Yes I Guess They Ought to Name a Drink After You”, “The Great Compromise”, “The Late John Garfield Blues” e “Souvenirs”.
Come nel precedente, Prine è supportato da Steve Goodman, con il quale condivide quell’esilarante senso dell’umorismo, stravagante e disperatamente agrodolce. Il suono è, in gran parte, acustico, con le occasionali sferzate elettriche di David Bromberg e Buddy Emmons. “Diamonds in the Rough” è uno di quei dischi di cui ti accorgi solo dopo. Sin dall’apertura di “Everybody”, ti porta in un viaggio emotivo attraverso il Kentucky più rurale. “The Torch Singer”, sembra lievemente sfasata, ma risulta seducente senza cercare di esserlo, “She sang of the love that left her and the woman that she’ll never be.” L’allegorica “The Great Compromise” racconta la storia di John e di una ragazza (l’America) che lo tradisce (Vietnam). “I knew a girl who was almost a lady/She had a way with all the men in her life/Every inch of her blossomed in beauty/And she was born on the fourth of July.” E poi “Souvenirs”, la mia preferita di Prine. Il caloroso elogio funebre a tutto ciò che abbiamo perduto.
“Memories they can’t be boughten
They can’t be won at carnivals for free
Well it took me years
To get those souvenirs
And I don’t know how they slipped away from me”.
L’album fu un insuccesso, ignorato dal pubblico e da gran parte della critica.
“Sweet Revenge” (1973) è un altro lato di Prine, un cambiamento rispetto all’implacabile severità del lavoro precedente. È un’opera più umana, più matura, e un passo artisticamente in avanti. Il suo umorismo “Please Don’t Bury Me” è troppo caratteristico per essere stato scritto da qualcuno che non sia lui. “If they don’t mind the size/Give my stomach to Milwaukee/If they run out of beer/Put my socks in a cedar box/Just get ‘em out of here/Venus de Milo can have my arms/Look out! I’ve got your nose/Sell my heart to the junkman/And give my love to Rose”. Prine non si spinge fino al punto di staccarsi completamente dalle sue radici. È quasi inconscio quanto “Christmas In Prison” ricordi una qualsiasi ballata precedente sulle vittime del sistema. Il tocco è più leggero. “She reminds me of a chess game/with someone I admire/or a picnic in the rain/after a prairie fire/her heart is as big/as this whole goddamn jail/and she’s sweeter than saccharine/at a drug store sale.” Situazioni che avrebbero potuto farci affogare nel doloroso, “Grandpa Was a Carpenter”, perdono la loro malinconia in un uptempo che schiaccia il sentimentalismo. “Now my grandma was a teacher/Went to school in Bowling Green/Traded in a milking cow/For a Singer sewing machine/She called her husband Mister/And walked real tall and pride/And used to buy me comic books/After grandpa died.” Si mantiene in bilico su entrambi i lati: rimprovera senza offendere nessuno, denuncia senza cadere nell’autocommiserazione. Sta mettendo a tacere la voce che lui stesso era.
“Common Sense” (1975) è registrato tra Memphis e Los Angeles. Forse un po’ troppo Los Angeles e non abbastanza vicino a Memphis. Prodotto da Steve Cropper con l’impiego di luminari come J.D. Souther, Glenn Frey e Jackson Browne, l’album paga il troppo lavoro in studio e non è abbastanza “Prine”. Ci sono corni, archi, congas, e persino un’apparizione dell’allora sconosciuta Bonnie Raitt. Destinate ad essere ironicamente assurde, le liriche di Prine stringono insieme aforismi criptici con un sarcasmo decisamente sofisticato. In “Saddle in the Rain” Prine immagina: “They locked God up/Down in my basement/And he waited there for me/To have this accident/So he could drink my wine/And eat me like a sacrament.” Tra le canzoni da ricordare “Way Down”, “He Was in Heaven Before He Died”, un inno che ricorda i precedenti lavori di Prine e una versione di “You Never Can Tell” di Chuck Berry, che si erge sopra ogni altra cosa.
Dopo questo album, Prine si prese un anno sabbatico. Il 1976 vide l’uscita di “Prime Prine – The Best of John Prine”, una raccolta in gran parte inutile. Molte delle migliori canzoni di Prine erano lì, ma, per qualche ragione, l’album non era unito. Forse perché mal mixato. La Atlantic Records era nota per aver pubblicato dei best of con una qualità sonora terribile. Forse è solo che la musica di Prine vive di un equilibrio così delicato che non può essere tolta dal contesto.
Così l’Atlantic lo licenziò e alla fine Prine firmò con la nascente Asylum e si mise al lavoro scrivendo canzoni per il suo album successivo: “Bruised Orange”.
Prodotto da Steve Goodman, Bruised Orange (1978) è forse l’album iconico di Prine. La produzione è pulita, le voci sono personali, intime. La scrittura quasi impeccabile. Non c’è una sola canzone debole. “Bruised Orange” è perdersi, essere innamorati, e rimanere un cane randagio in un mondo di sorti fisse. La canzone d’apertura, “Fish and Whistle”, la preferita dai fan di lunga data. È composta da tre versi non correlati. Nessuno è correlato all’altro. Solo un coro li lega insieme. E in qualche modo ha funzionato. “That’s the Way That the World Goes ‘Round” passa per una frazione di secondo dalla commedia al dramma, quando il protagonista rimane intrappolato in una vasca da bagno, l’acqua si congela improvvisamente e viene liberato solo con l’arrivo del sole. La canzone racchiude la filosofia di Prine, che considera le assurdità quotidiane della vita come la chiave per coglierne il significato. Una sorta di stoicismo targato Midwest. “Sabu Visits the Twin Cities Alone” sembra creata apposta per l’umorismo di Prine – “Sabu was sad the whole tour stunk/The airlines lost the elephant’s trunk” – riprende la visione compassionevole di un interprete fuori posto “in the land of the wind chill factor”. Sabu non è solo un outsider, come molti dei personaggi di Prine, vive in una cultura che non conosce. E Prine saggiamente ci rende complici della sua continua umiliazione. “Bruised Orange (Chain of Sorrow)” inizia con la fine di una storia d’amore: “My heart’s in the icehouse”. Prine trasla poi a un ricordo della sua infanzia, mentre, un’estate, per lavoro, si recava a pulire i banchi impolverati di una chiesa, assistette alla morte di un giovane sacerdote, investito per strada. Ora, in età adulta, il protagonista è addolorato da sentimenti che non riesce a controllare, capace solo di prepararsi al suo impatto finale:
“I been brought down to zero, pulled out and put back there.
I sat on a park bench, kissed the girl with the black hair
And my head shouted down to my heart
‘You better look out below!”
Ma rispondere con rabbia non fa che peggiorare le cose:
“For a heart stained in anger grows weak and grows bitter.
You become your own prisoner as you watch yourself sit there
Wrapped up in a trap of your very own
Chain of sorrow”
Goodman fonde l’organo nelle trame delle chitarre. La canzone si chiude con un assolo di sax che entra in scena in modo sorprendente, poi diventa il centro della canzone. Chiamatela zen, la musica di Prine qui, anche se concentrata su personaggi disperati, esprime la grazia di un valzer popolare. Mantiene il coraggio delle sue convinzioni; la rabbia porterà alla tristezza, quando ti rendi conto che quello che provi per il mondo non significa che il mondo cambierà.
L’ultimo brano del secondo lato, “The Hobo Song”, è il racconto caloroso e disperato di un vagabondo. Il ricordo non è in prima persona però, e le immagini svaniscono: “There was a time/When lonely men would wander/Thru this land/Rolling aimlessly along/So many times/I’ve beard of their sad story/Written in the words/Of dead mens’ songs”. “Fish and Whistle”, ha una melodia incredibilmente contagiosa, contiene la migliore interpretazione della religione di Prine: “Father forgive us for what we must do/You forgive us/We’ll forgive You/We’ll forgive each other till we both turn blue/Then we’ll whistle and go fishing in heaven”.
“Bruised Orange” è un disco essenziale.
Prine non tornò a ruggire con “Pink Cadillac” del 1979 e “Storm Windows” del 1980.
“Pink Cadillac” spinge troppo in senso rock. Il ritmo pesante del beat fa soffrire il songwriting. E mettere Prine nei Sun Studios con Sam Phillips e i figli Knox e Jerry non aveva alcun senso. Come ho detto, Prine non avrebbe mai potuto essere Elvis Presley. Solo cinque canzoni sono sue e quando sono sue come in “Saigon”, “Automobile” e “How Lucky” la produzione lo distrugge. Phillips seppellisce la voce di Prine, e la sezione ritmica è quasi AOR. Questo album ha il peggior suono di batteria che abbia mai sentito.
“Storm Windows”, prodotto da Barry Beckett ai Muscle Shoals, cerca di fare di Prine un crooner. Il difetto principale della produzione è che la voce di Prine, sebbene amplificata, è sempre più bassa del mix. Suona come se fossero in un’altra stanza. Il songwriting di Prine rimane così in sordina. L’unica canzone all’altezza di “Bruised Orange” è “Sleepy Eyed Boy”: “Where are the boot straps/To lift myself up/Where is the well/Where is the well/Where I once filled my cup/Where does this sorrow/All turn into joy/And where oh where is the sleepy eyed boy”. Prine sapeva di non essere al massimo della forma.
Parte del problema di Prine su Asylum dopo “Bruised Orange” è che quel suono che ebbe un enorme successo radiofonico per artisti come Jackson Browne, Linda Ronstadt e gli Eagles, per un individualista come Prine, fu pressoché letale.
Prine prese una decisione coraggiosa. Decise, probabilmente contro ogni consiglio, di fondare la sua casa discografica. La logica era solida: lasciare che Prine fosse Prine. Se avesse fallito, almeno sarebbe stato alle sue condizioni.
La prima uscita, nel 1982, per la sua Oh-Boy Records, fu un’impresa eccentrica: un 45 giri di “I Was Mommy Mommy Kissing Santa Claus”. Dal 1981 al 1984, Prine scrisse canzoni, registrò quando ne aveva voglia e si preparò per la fase successiva della sua carriera. Nel settembre del 1984, Steve Goodman morì. Non molto tempo dopo, Prine pubblicò la prima uscita per la sua Oh Boy Records, “Aimless Love”, dedicato alla famiglia di Goodman e a “tutti i grandi momenti che con Steve e Al Bunetta (il manager di Prine) avevano trascorso insieme. Co-prodotto con Jim Rooney, “Aimless Love” rivela un Prine più maturo. Il suo lato umoristico è ancora evidente in “The Bottomless Lake”, un brano spesso suonato live: “They rented a car at the Erie Canal/But the car didn’t have no brake/Said ma to pa my God this car/Is gonna fall into the bottomless lake”. Il lato struggente emerge su “Only Love” e “Somewhere Someone’s Falling In Love”. “Aimless Love” contiene anche “Unwed Fathers”: “From a teenage lover/To an unwed mother/Kept undercover/Like some bad dream/But unwed fathers/They can’t be bothered/They can’t be bothered/They run like water/Through a mountain stream”. Il suono è per lo più acustico. Funziona. John Prine era tornato. L’album successivo, “German Afternoons” del 1986, è sempre prodotto da Jim Rooney. La scrittura è forte. A volte, come in “I Just Want to Dance With You”, l’atmosfera prende una piega strana e si avvicina pericolosamente a Jimmy Buffett. Con tutti i suoi difetti, “German Afternoons” è un disco discreto, ma era chiaro che Prine e Rooney fossero arrivati alla fine della loro collaborazione.
Prine era diventato un artista molto richiesto nel “circuito baby boomer” – club di medie dimensioni, auditorium civici e simili. Per una casa discografica alle prime armi, questi concerti furono essenziali. Nel 1988, Prine li raccolse in due album pubblicati come “Prine Live”.
“Prine Live” non aprì nuove possibilità. Ancora una volta, Prine aveva bisogno di reinventarsi. Alzare la posta in gioco. Per caso, qualcuno gli riferì che i membri degli Heartbreakers erano suoi grandi estimatori e Howie Epstein si dimostrò il veicolo perfetto per portare Prine nell’era del cd.
“The Missing Years” del 1991 forse non ha reinventato la carriera di Prine, ma di sicuro ne ha alimentato il culto. Il suono è bello pieno, il basso di Epstein è in prima fila e la voce di Prine chiara, risonante; profonda quasi. Considerando che la tendenza vocale di Prine è sempre stata quella di appiattirsi sulle alte intonazioni. Benmont Tench aggiunge il suo organo stile Highway 61, e anche la fisarmonica di Phil Parlapiano e il bouzouki e l’harplex di David Lindley contribuiscono all’unicità di questo disco. “It’s a Big Old Goofy World” è Prine al suo meglio: “There’s a big old goofy man/Dancing with a big old goofy girl/Ooh baby/It’s a big old goofy world” dice già tutto. La sua arguzia va ben oltre, in canzoni come “The Sins of Memphisto”: “Sally used to play with her hula hoops/Now she tells her problems to therapy groups”. E in “Great Rain”: “I was praying for picy/And all He ever sent me was you”, Prine non ride, semplicemente, la sua natura è spargere le sue battute sul dolore. “Everything Is Cool” è una ballata d’amor perduto e di ritrovata pace interiore, riassume tutta l’esperienza in una semplicità discreta: “Everything is cool/Everything’s Ok/Why just before last Christmas/My baby went away”. Quando Prine emerse negli anni Settanta, fu fregato dal marchio del “nuovo Dylan”, eppure le sue canzoni rimasero di fatto molto più sobrie. I testi di Prine privilegiano un semplice formato narrativo. Quello di “Daddy’s Little Pumpkin” dove una donna impertinente lega a un profumo il ricordo di un uomo vanitoso, un profumo del sesso, o come quello di “Picture Show” che svela quanto i grandi sogni possono infiammare l’immaginazione di una piccola città. Eppure c’è un’innegabile dolcezza nelle canaglie di Prine, mentre la malinconia di “Way Back Then”, (“If you loved me/Tell you what I would do/Wrap the world in silver foil/Bring it home to you”) si trasforma nella scioccante felicità di “Unlonely” (“I feel like the only/Person in the world/That ever had a girl like you”). I rimpianti del passato e i dolori del presente trovano un vivido sollievo nella canzone più commovente del disco, “All the Best”, nella quale si riconcilia con la donna che gli ha spezzato il cuore: “But kids don’t know/They can only guess/How hard it is/To wish you happiness”. I bambini non lo sanno, ma gli adulti lo capiscono.
Prine era tornato. Prine era ancora Prine.
Dopo “The Missing Years”, fece un tour molto intenso, a volte da solo, a volte con la band, a volte come opening act per Mary Chapin-Carpenter.
Nel 1993, la Rhino Records, pubblicò “Great Days”, un’antologia. Due cd con 41 canzoni – molti dei brani sono dal vivo – un libretto di 52 pagine, foto rare e annotazioni dello stesso Prine.
Nel 1994, Prine ed Epstein tornarono in studio, ampliando la magia che avevano scoperto con “The Missing Years”. Il risultato fu “Lost Dogs & Mixed Blessings” (1995). Quel solco che Prine ed Epstein avevano trovato su “The Missing Years” viene ampliato. Forse la chiave era il fatto che Epstein si appoggiasse su un combo di solidi musicisti. C’era Epstein al basso, Benmont Tench e Phil Parlapiano alle tastiere, Joe Romersa alla batteria e John Jorgenson, Gary Nicholson, Waddy Wachtel alla chitarra. Non c’è un pezzo brutto su “Lost Dogs & Mixed Blessings”. Si apre con la versione di Prine del Paradiso in “New Train”: “No melted ice cube in a paper cup/Hell you’ll be so happy you’ll be all shook up/The friends that greet you will be simple and plain/When you step down from that new train”. Il brano successivo, “Ain’t Hurtin’ Nobody”, ha un bel groove con il basso di Epstein che cammina e l’organo di Tench che riempie di suoni. Le parole iniziali sono il suo marchio: “I’m walkin’ down the street/Like Lucky LaRue/Got my hand in my pocket/I’m thinkin’ ‘bout you/I ain’t hurtin’ nobody/I ain’t hurtin’ no one”. “We Are the Lonely”, con la chitarra quasi fuzztone di Gary Nicholson. Le descrizioni dei personaggi alla fine della canzone sono esilaranti: “SWF with a PhD/Seeks TLC at the A&P”, “Straight but curious 33/Seeks survivor of Wounded Knee”, “Toothy gal with breasts so large/Takes Visa Amex Master Charge”, “Ugly man treats girls like dirt/Wants buttons sewn upon his shirt”, “Lake Marie” è un racconto tortuoso, faticoso ambientato sul più piccolo dei due laghi al confine tra Illinois e Wisconsin e coinvolge tutto, l’amore e l’omicidio. Ricorda molto la “Brownsville Girl” di Bob Dylan, con i suoi versi, così delicatamente pronunciati e quei cori così lunghi.
“The dogs were barking as the cars were parking
The loan sharks were sharking the narcs were narcing
Practically everyone was there
In the parking lot by the forest preserve
The police had found two bodies
Nay, naked bodies!
Their faces had been horribly disfigured by some sharp object
Saw it on the news
On the TV news
In a black and white video
You know what blood looks like in a black and white video?
Shadows, shadows that’s exactly what it looks like
All the love we shared between her and me was slammed
Slammed up against the banks of Old Lake Marie, Marie”
Qualunque cosa sia, ci riesce, così come in ogni minuto di “Lost Dogs & Mixed Blessings”.
Sebbene “In Spite of Ourselves” (1999) includa un solo originale di Prine, la canzone che dà il titolo all’album, il tema che lega questi standard è la fedeltà, o la sua mancanza. Tutto servito con la lama tagliente di una doppia ironia in un disco interamente caratterizzato da duetti nella piena tradizione del country d’antan. E, allora, in ogni brano Prine e le sue partner – tra le quali Connie Smith, Emmylou Harris, Trisha Yearwood e la deliziosa Iris DeMent – si sistemano comodamente sui fondali di una Nashville che conosce personalmente le storie delle persone che canta. Così in “In Spite of Ourselves” con Iris DeMent canta della canaglia che annusa le mutandine, ma che non può fare a meno di amare, “He ain’t got laid in a month of Sundays/Caught him once and he was sniffin’ my undies/He ain’t too sharp but he gets things done/Drinks his beer like it’s oxygen/He’s my baby, I’m his honey/I’m never gonna let him go”, mentre, tra scintille di malizia, festeggia lo scambio di mogli su “Let’s Invite Them Over” di Onie Wheeler e una storia d’amore su “(We’re Not) The Jet Set” di Bobby Braddock.
Con “Fair & Square” (2005), il suo primo disco in studio da solista in dieci anni, torna a sonorità più organiche alla sua storia. Un’atmosfera folk underground impreziosita dalle presenze di Alison Krauss e Mindy Smith. Sono lontani i suoni “grassi” di “Lost Dogs & Mixed Blessings”. Le meditazioni di Prine sull’uscire dall’America e andare a pescare in Canada di “Crazy as a Loon”, e sul suo nascondiglio in Irlanda in “My Darlin Hometown” o ancora sui presidenti cowboy e guerrafondai di “Some Humans Ain’t Human” trovano il cantautore spiritoso e tagliente come sempre. La voce si è notevolmente indebolita per la sua recente una battaglia contro il cancro, “Fair & Square” ha ben poco dell’energia lacera di “Sweet Revenge”, ma Prine è ancora il maestro nel comporre canzoni di una sola battuta (“I Hate it When That Happens to Me”, “Morning Train” e “Safety Joe”). Passeranno altri dieci anni prima che torni in studio. “For Better, Or Worse” (2016) è il primo album di Prine da quando è uscito dalla sua seconda lotta contro il cancro. Sono altri duetti, il sostentamento spirituale nel cantare in coppia vecchie country songs, e, allora, tornano Iris DeMent e Fiona Prine tornano da “In Spite Of Ourselves”, ma per il resto sono Miranda Lambert e Kacey Musgraves, la nuova scena di Nashville o veterane come Amanda Shires, Alison Krauss e Susan Tedeschi. Sebbene sia difficile immaginare due voci dal suono più diverso, eppure, quando la voce di Alison Krauss scivola con grazia sui toni ruvidi di Prine nel delicato valzer di “Falling In Love Again”, questi opposti si combinano perfettamente. Mentre nella seconda delle tre canzoni di Hank Williams, “Cold, Cold Heart”, Prine e Miranda Lambert trasformano uno degli standard country più onnipresenti, il messaggio di malinconia di un cantante a un’amante lontana, in un freddo racconto di due persone che non riescono a stare l’una distante dall’altra.
John Prine non ha più fretta di registrare album. Anche se “The Tree of Forgiveness” (2018) rappresenta la sua prima uscita di materiale originale dal 2005, il cantante non lo affronta come un ritorno o un’occasione solenne. Tra i suoi complici ci sono Jason Isbell, Brandi Carlile, Dan Auerbach e Amanda Shires, ma non si tratta tanto di glitter da star quanto di un cameratismo fuori dal comune. Gli arrangiamenti amplificano l’atmosfera formale – lo strimpellare vivace delle chitarre acustiche e dei mandolini, la voce colloquiale, il suono dello hand-clapping. C’è addirittura un Theremin. Eppure, l’umorismo e i giochi di parole ricchi di immagini spesso appaiono futuristici, nel modo in cui fondono il tempo e lo spazio, a volte meravigliosi, a volte cupi. “I live down deep inside my head”, canta Prine, con una voce che è diventata ghiaia ma che rimane ancora conviviale, anche quando “Well, you wished you’d left/Your well enough alone/When you got hell to pay”, attinge al cinema “Egg & Daughter Nite, Lincoln Nebraska, 1967 (Crazy Bone)”, “Caravan of Fools” suona politica, ed è ancora più oscura. Canzoni servono a ricordare il mondo che si annida ai margini della vita di questi narratori, i loro errori li perseguitano, ma non li spezzano, e si intravede un barlume di redenzione in “Summer’s End”, “I Have Met my Love Today” e “Boundless Love”. Sono canzoni dove i mascalzoni inciampano nella grazia, e si sentono in qualche modo indegni di essa. Nella scrittura c’è una generosità d’animo che trascende il quotidiano. Egli trova persino l’empatia con il pianeta diseredato nella toccante “Lonesome Friends of Science”, stranamente commovente. Mentre l’album si chiude, il cantante settantunenne si interroga su “When I Get to Heaven”. Prine, non ha paura di morire. Per lui il paradiso è come un bar di quartiere, un posto “deep inside my head” dove è permesso fumare, vodka e ginger ale scorrono e fiumi, e fuori che li aspetta c’è una ragazza tutto fuoco.
Dal 1971 ad oggi, John Prine è stato un narratore, dentro le canzoni stesse. Il suo principale strumento di persuasione è il racconto, così come il principale strumento di persuasione per il Gesù del Vangelo era la parabola. La parabola ha molti vantaggi rispetto a un sermone urlato da un pulpito. Si affida della narrazione per condurre alla conversione, e si fida dell’interpretazione di chi ascolta. Resiste alle polarità. La chiesa madre della musica country, dove i sedili sono banchi graffiati e impolverati e le finestre sono vetrate colorate, è il luogo dove John Prine – più vecchio, segnato da interventi chirurgici, una voce più profonda e piena – è ancora il vecchio John Prine. È il tipo in fondo al bar, con la sigaretta che brucia nel posacenere e davanti a lui un bicchiere di birra già mezzo vuoto, che cerca di dare un senso al mondo con un ghigno ironico e un pizzico di sapienza casalinga. In concerto canta di gente comune in tempi straordinari. Rifugge le tragedie in risate, sfrecciando sui talloni d’Achille del prepotente. I vecchi, i sopravvissuti e gli amanti sfortunati sono i suoi eroi, e il richiamo alla canapa macchiata di nicotina di Prine è la loro voce.