“Together In The Darkness” con Ryan Adams, il cortisone e un pacco di Camel Blu.
L’avevo vista brutta. Il biglietto per Ryan Adams ero andato a prenderlo un paio di giorni prima, dalla tasca dei jeans era passato nella tasca interna della giacca che in quel momento era appesa all’attaccapanni dell’ufficio: quando prendo dei ticket in prevendita anticipata, vivo nel terrore di dimenticarli a casa e finisce sempre che passano da un capo all’altro fino alla sera dello spettacolo. In questo caso erano finiti nella grisaglia che indossavo quel giorno (era un paio di lavori fa, abito e cravatta erano d’ordinanza: poco rock and roll, ne convengo. O forse molto punk, chissà). Ero intento a guardare non so quale grafico, quando improvvisamente l’occhio destro si offuscò e cominciò a pulsare: era come se fossi abbagliato da una luminescenza circondata da fitta nebbia. Avvertivo un innalzamento della pressione e decisi che forse era meglio fare un salto in ospedale. Dissi al collega che mi accompagnò di lasciarmi pure davanti al Pronto Soccorso e tornarsene in ufficio: eventualmente sarei tornato a piedi subito dopo la visita. Feci i conti senza l’oste: l’addetta al triage capì subito che qualcosa non andava, mi diede un codice “giallo” e passai in sala visita abbastanza celermente. Il responso fu “trombosi oculare”: soffrivo di glaucoma, sapevo che la pressione dell’occhio andava tenuta sotto controllo, ma quando mi dissero che il controllo pressorio andava esteso e che dovevo essere ricoverato, non la presi benissimo
– “Lei fuma?”
– “Sì, circa un pacchetto al giorno. Ma light.”
– “Light o meno, sarebbe il caso di smettere: non fa mica bene ai suoi occhi e al suo sistema circolatorio”.
Eccomi lì, ricoverato nel reparto di oculistica di un ospedale della provincia torinese, distante dalla casa in cui mi ero trasferito da meno di un anno con la mia nuova compagna, precipitatasi con pigiama, ciabatte e biancheria appena appresa la questione. Quel 2002 era all’inizio, si era in febbraio, ma non prometteva benissimo.
Il ricovero durò cinque giorni, durante i quali mi avevano imbottito di cortisone e sottoposto a un’infinità di esami. La cosa positiva era che mi avevano dimesso la sera precedente quella del concerto, quindi avrei potuto sfruttare il famoso biglietto e gli amici sarebbero comunque passati a prendermi, in modo da essere di fronte all’Alcatraz alle 20.
Quella che oggi è mia moglie, nonché la madre di nostra figlia, mi chiese se fossi matto, se non fosse meglio starsene tranquilli a casa, a riposo come raccomandato dai medici: le risposi che tanto mica ero io a dover suonare, sarei stato solo uno spettatore.
Giungemmo a Milano all’orario previsto, in modo da poter mangiare qualcosa: la scelta cadde su una succulenta piadina con prosciutto e formaggio, accompagnata dalla birrozza di rito, quindi entrammo tra i primi in modo da occupare posti decenti nelle prime file. Con discreto ritardo rispetto al programma, allo spegnimento delle luci corrispose l’accensione di uno spot ad illuminare le figure di un duo maschile: uno seduto davanti a un pianoforte, a lato un harmonium, mentre l’altro in piedi, accanto al microfono.
Fu così che entrai in contatto con Hederos & Hellberg, rispettivamente Martin e Mattias. Ignoravo che quello che stavano presentando fosse già il loro secondo album, ma d’altronde ignoravo anche totalmente chi fossero. Quello che avevo notato subito, però, fu che ottennero immediatamente quell’attenzione che solitamente non accompagna gli sconosciuti che aprono concerti di quegli artisti che stanno godendo dell’hype del momento, come accadeva in quel periodo ad Adams.
Fu Concrete Jungle di Bob Marley a catalizzare fin da subito l’interesse: una versione che esaltava la canzone, una di quelle cose che il grande pubblico solitamente sottovaluta quando si fa pigramente cullare dal ritmo in levare della musica giamaicana. Qualche ottimo brano originale, alcune eccellenti cover quali Pale Blue Eyes, She, Shine A Light fino a una No Fun da brividi con la quale si congedarono.
L’ingresso di Ryan Adams e la sua band sembrò devastante, paragonato alla precedente proposta minimale. Partenza col riff dylaniano di To Be Young (Is To Be Sad, Is To Be High) a dare una sferzata, subito seguita dalla drammaticità di Answering Bell.
Non mi sembrava vero di poter assistere alla performance di un astro nascente, una di quelle occasioni in cui potrai dire: “io c’ero”, ai nipotini. E infatti non sarà così: giunto alla quinta o sesta canzone tutto cominciò a girare, mi voltai e, fendendo la non numerosissima folla, cercai di guadagnare le toilettes, franando miseramente a metà della sala e dimostrando agli astanti di cosa mi fossi nutrito poco prima… L’imbarazzo mi attanagliava, gli inservienti cercavano di pulire mentre un cameriere mi trascinava verso il bagno più vicino, mettendomi la testa sotto l’acqua mormorando qualcosa tipo:
– “Certe cose bisogna sopportarle, devi conoscere il tuo fisico se vuoi calarti qualcosa: le sostanze vanno dosate”.
Neanche fosse Keith Richards. Abbozzai:
– “Guarda che ti sbagli: io non mi faccio neanche le canne, pensa te il resto. Si tratta di una cura a base di cortisone che forse mi ha fatto male…”.
– “Sì, certo: come no. Mi hai convinto, guarda. Me ne torno di là, cerca di non collassare”.
Mentre ero lì che cercavo di capire se stavo tornando al mondo, una sonora risata sembrava percuotermi le tempie. Alzai lo sguardo e mi trovai davanti Mattias Hellberg che stava uscendo da uno dei bagni e si stava richiudendo la patta. Dalla sala sembrava giungere la colonna sonora di Star Wars e io pensavo di essere diventato definitivamente cretino…
Mattias mi guardò. Rise di nuovo, sbirciandomi nel taschino e prorompendo in un:
– “Come on, boy! I’ll help you standing, if you give me a cig!”.
Me lo dovette ripetere tre volte, sempre più lentamente, poi compresi. Mi rialzai da solo, dandogli in mano il pacchetto: lui sgranò gli occhi e mi abbracciò. Mi spiegò di essere svedese, di essere il cantante che si era esibito prima di Adams e che aveva dimenticato il suo pacchetto in hotel, io risposi che mi avevano appena dimesso dall’ospedale sconsigliandomi di fumare. Mi guardò con sincera commiserazione e si sentì in dovere di offrirmi una delle mie sigarette, prima di mettersi il pacchetto nel taschino. Tornammo in sala, stavo decisamente meglio dopo essermi “liberato” e riuscii a godermi il finale del concerto, a partire da Nobody Girl, affiancato dal mio nuovo amico. Al termine gli altri mi racconteranno di un concerto memorabile nella parte centrale, che naturalmente era quella che mi ero perso. Salutai Hellberg e mi avviai all’uscita. Mi sentii tirare per un braccio: era ancora Mattias. Sorrideva, voleva che stringessi la mano del suo socio Martin. E non era finita:
– “Ehi, Max. this is for our one-night friendship!”
Lo disse mettendomi in mano l’edizione in vinile del loro nuovo album, sulla copertina del quale aveva scritto a penna qualcosa che nella penombra non riuscivo a leggere.
Tornammo all’auto e riprendemmo il viaggio verso Torino. Gli altri erano euforici per ciò che avevano visto, raccontavano di quando la band aveva accennato al tema di Darth Vader (non ero rincretinito, dunque: che sollievo), ma io avevo un disco autografato da qualcuno che mi aveva scritto “Thanx for the cig!”.
E non credo ce ne siano molti, in giro.