Da un quarto di secolo, ‘scollegati’ dai Nirvana: Unplugged in New York
E alla fine ci siamo arrivati.
Intendiamoci, non che fosse difficile, in realtà: bastava sopravvivere abbastanza a lungo, quel tanto che serviva per veder passare questi 25 anni – un quarto di secolo, detto in maniera più eclatante – che, come per tutte le cose ben costruite da esseri umani a questo mondo, tendono a impreziosire e a far acquistare più corpo, spessore e (in una sola parola) una certa adeguata dose di ‘anima’ alle cose.
La polvere del tempo spesso non risparmia le cose mal fatte, ma tende ad avere rispetto di tutto ciò su cui lo spirito umano ha investito capacità, passione, estro e personalità. Così è per il vino eccellente, i prodotti artigianali, i gioielli, o per l’arte; così è pertanto anche stato per l’Unplugged in New York, indimenticabile album suonato e registrato live durante una felice serata di circa 26 anni fa (giorno più, giorno meno) in quel degli studi musicali della Sony – sede di New York – e pubblicato esattamente 25 anni fa (secondo più, secondo meno), il primo di Novembre del 1994.
Il giorno di Ognissanti; dove coloro i quali credono nell’aldilà non poterono fare a meno di pensare che in mezzo a quei rugosi solchi neri di puro vinile si celasse anche un pezzettino dell’anima di Kurt Cobain: Kurt, che alcuni di noi (me compreso) ritenevano intimamente connesso alla propria, di anima, quasi fosse quel giovane fratello di poco maggiore a cui guardare con fierezza e con occhi da spontanei e volenterosi seguaci. Voi dov’eravate il primo di novembre di 25 anni or sono? Ve lo ricordate?
Io si. Ero ormai arrivato alla conclusione della seconda settimana di C.A.R., che – per quelli di voi troppo giovani per averlo vissuto direttamente o indirettamente – era il terrorizzante acronimo che stava per la ben meno anglofona definizione di “Centro Addestramento Reclute”. Insomma, ero un giovane marmittone partito alla volta della amena e ben poco accogliente (per come venivano trattati tutti quelli con i capelli a spazzola dagli indigeni liguri) città marina di Albenga, impegnato in marce, servizi non armati e risvegli mattutini a colpi di calci sulle brande, urla, e “sissignoresignorsìsignore!”.
Ma nonostante la mia prima avventurosa permanenza forzosa fuori dalle mura genitoriali, ero informatissimo sull’uscita dell’album: mio fratello maggiore (quello reale e un po’ scorbutico, che ben sapeva dell’amore per i miei adorati Nirvana) si era già premurato di farsi promettere una copia in cassetta dal CD appena uscito, assicurandomi di portarmela al giuramento di pochi giorni dopo, che il mio scaglione (il fiero 10° del ’94) avrebbe tenuto a Genova in forma solenne.
Ebbene, quella copia campeggiò come prima cosa nelle mie emozionate mani, subito dopo che il “LoGiuro!!” aveva rimbombato fiero tra i carrugi genovesi, e mi tenne compagnia per tutti i tristissimi giorni successivi, che io passai ancora ad Albenga tra i “trattenuti” dello stesso scaglione: quei pochi sfortunati fanti, cioè, che a fine addestramento rimanevano in forza attiva alla caserma per portare avanti i lavori di manovalanza, in attesa che arrivassero le burbette del nuovo scaglione. Ogni sera la trovavo lì ad aspettarmi, inserita nel mio fedele walkman di metallo rosso amaranto metallizzato, subito dopo il “rompete le righe”, e circa un paio di orette prima che con i miei compagni di camerata si decidesse di uscire a mangiare qualcosa per le vie della praticamente deserta cittadina di mare.
Dopo una sola settimana avevo ormai imparato a memoria tutte le particolarità di quell’album: quelle urla entusiaste condite da applausi scroscianti sapientemente piazzate all’inizio – la cui presenza invidiavo parecchio – subito seguite da quel suo “Good evening… this is off our first record, most people don’t own it” (ma col cavolo, io certo che ce l’avevo quel primo disco tutto nero!), che anticipava “Come as you are” e due bellissime cover, la prima di “Jesus doesn’t want me for a sunbeam” dei Vaselines (uno dei gruppi culto di Cobain, la cui ignoranza colmai subito alla fine della mia naja) e la seconda della ben più famosa “The man who sold the world” (il cui autore non credo di dover specificare).
Avevo imparato a memoria la scaletta, con tutte le digressioni colloquiali che Kurt, Dave e Krist si scambiavano allegramente fra pezzo e pezzo; me le mormoravo e cantavo tra me e me durante le lunghe giornate passate a spazzare le camerate, sbucciare verdure, e camminare negli immensi piazzali presenti tra i casermoni. Mi facevano compagnia quelle canzoni e quelle frasi, che ripetevo anche a mezza voce, cercando di imitare finanche il tono della voce. Era un modo di sentirmelo vicino: pronunciare frasi come “I think I’ll try in a different key, I’ll try in the normal key…if it sounds bad, these people are just going to have to wait!”; oppure quel “What are they tuning a harp? I thought we were a big rich rock band, we should have a whole bunch of extra guitars!” detto con quel suo sorrisetto ironico, poco prima dell’attacco di “Plateau”, e giù a riderne come se fosse presente lì con me.
Ma lui ERA lì, presente, con me: e io lo sapevo, lo sentivo. C’era mentre marciavo, mentre pelavo le patate, tutte le volte che spazzavo i bagni al ritmo di “Lake of fire”, e sicuramente c’era mentre mi immalinconivo poco prima che nell’aria frizzante della notte autunnale risuonasse il silenzio, e io intonavo insieme a loro “Polly wants a cracker”, ripensando a cosa avrei fatto della mia vita al ritorno a casa, dopo quel mio abbandono del Politecnico così a lungo ritardato, e quella iscrizione a Lettere che mi circolava ormai fissa nella mente.
Nella riedizione del disco, uscita proprio oggi per festeggiare il quarto di secolo del (stando a parecchi critici) miglior album rock degli ultimi 30 anni – nonostante non sia uno studio album propriamente detto – ci sono anche 5 brani registrati durante le prove dello show, prima disponibili solo in DVD. Il formato doppio, con apribile-gatefold e dettagli in lamina d’argento nella copertina anteriore e posteriore, non potrà però per me mai essere prezioso quanto quella cassettina magnetica, al ferro-cromo, che tengo riposta tra i miei ricordi più cari.
Ovviamente ne comprerò una copia in vinile, la metterò di fianco a quell’altra copia che già possiedo, e che non ho mai ancora piazzato sul piatto: un po’ per non rovinarla (visto che è una copia ‘bianca’, mai utilizzata), e un po’ per la paura che da quei solchi così nuovi non riesca ad uscire lo stesso corpo, lo stesso spessore, quella stessa anima che 25 anni fa trovai depositata – come fosse polvere del tempo – sullo specchio opaco di un nastro magnetico del costo di 3000 Lire, ma dal valore, per me, inestimabile.