Until the Crack of Dawn Noam Bleen (2019)
La prima cosa di una band che ti deve colpire è il nome. E di nomi belli in giro ce ne sono sempre meno, pare che siano quasi tutti terminati. Ma Noam Bleen è un gran bel nome e ci ha incuriosito subito senza null’altro sapere del progetto sottostante. E’ a questo che serve un nome del resto.
Cosa significa ? Non è cosi importante in realtà, del resto Tame Impala, Pink Floyd, Wilco significano qualcosa ? Comunque per i più curiosi: Bleen è un numero compreso tra sei e sette in base undici (qualsiasi cosa voglia dire) ma anche un colore precisamente quello che si vede in una pozza di olio dopo la pioggia mentre Noam beh….nessuno lo sa cosa voglia dire Noam.
Noam Bleen e’ un progetto tutto italiano ma apolide nel suo essere completamente svincolato da legami musicali con il belpaese e assolutamente internazionale nel modo in cui approccia la materia sonora.
Abbiamo passato giorni a cercare di ingabbiare “Until the crack of Dawn” in una formula, in un’etichetta, di trovare dei riferimenti inequivocabili in altri gruppi o scene e ci siamo dovuti arrendere, abbiamo dovuto alzare le mani. L’album di esordio dei Noam Bleen è totalmente inafferrabile e personale. Probabilmente il miglior viatico possibile per qualsiasi gruppo esordiente.
Questo ovviamente non significa che il duo formato da Antonio Baragone e Nick Bussi entrambi polistrumentisti con base a Ravenna affiancati nell’album dal batterista Silvio Centamore, sia nato e cresciuto nel vuoto. I loro ascolti e le loro influenze appaiono e scompaiono come fantasmi lungo le dieci tracce del disco ma appunto con la consistenza di inafferrabili spettri. A quella sequenza di chitarra acustica che può evocare certi Pink Floyd segue un refrain che ti riporta echi di shoegaze, su quel drive di basso figlio dei Cure si innestano inserti distorti che richiamano certi passaggi dei Pumpkins, ad un intro che ti riporta ai tempi del Britpop si affianca un passaggio di tastiere puramente New Order. Ma è tutto lì per qualche secondo per poi scomparire e ti chiedi se non sia stata meramente un impressione.
Il risultato finale è un album che man mano che gli ascolti procedono convince sempre più per la compattezza, per la capacità dei brani di agganciarsi alla testa, per un lavoro sugli arrangiamenti certosino durato due anni, per suoni perfettamente calibrati (curati in fase di mix e mastering da Giampiero Ulacco all’opera anche con Don Was, Pat Mc Carthy e Brendan o Brien) che rendono la paletta sonora ricca e variegata. Davvero un passo da gigante rispetto all’EP uscito tre anni prima.
Il disco parte quasi in modo sornione con “Feeling Bleen” e “Blue Mist Road” due ballate in 3/4 che aprono le porte invitando l’ascoltatore quasi con cortesia a porre l’orecchio al mondo dei Noam Bleen evidenziando tra i caratteri precipui della band il buon lavoro sulle voci. Il passo cambia decisamente con il secondo singolo “Opera House” (di cui è appena uscito il video) innestata su nervature wave che corre dritta come un fuso tra chitarre che richiamano atmosfere anni 90. “As of Yore” spinge il pedale della potenza virando su riff post grunge che si stemperano in strofe appoggiate su groove ritmici quasi liquidi.
“Memory Lane” mantiene fede al proprio titolo appoggiando su un atmosfera strumentale nostalgica un ottimo lavoro vocale a due che rende la ballata miele per le orecchie grazie anche ad un gancio melodico che non ti molla.
Si prosegue sulla nota riflessiva di “New Years Eve” che fa emergere il meticoloso lavoro sui dettagli di ogni singolo passaggio per sciogliersi nella title track efficacissimo brano che si regge su un mirabile equilibrio di solide chitarre e voci sognanti.
“Screenshot” è il primo singolo il cui testo tocca il tema della dipendenza da smartphone. Un brano che si regge su un tempo medio appoggiato su una acustica vagamente reminiscente di certi Radiohead con un refrain che si imprime in testa con grande facilità.
Il viaggio nello spazio tra dreampop e postgrunge di “Departure” porta alla chiusura melanconica di “White Shirt” suggestiva conclusione di un album che conquista progressivamente ascolto dopo ascolto il cui magma sonoro cangiante e’ peraltro perfettamente reso dalla foto di copertina: un uomo la cui intera esistenza e’ vissuta come una notte insonne in attesa di un alba che non arriva mai.