Don’t push an elephant up the stairs!
“Io so con assoluta certezza di non possedere un talento speciale; la curiosità, l’ossessione e l’ostinata resistenza, unita all’autocritica, mi hanno portato alle mie idee“.
(Albert Einstein)
“La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi”.
(Don Chisciotte de la Mancha indicando i mulini a vento)
“Mi presentarono i miei cinquant’anni
e un contratto col circo “Pacebbeene” a girare l’Europa.
E firmai, col mio nome e firmai,
e il mio nome era Bufalo Bill.”
(Francesco De Gregori, “Bufalo Bill”)
Forse ci ero già passato una volta, mesi fa, su un discorso simile: ma, come dicevano gli antichi romani, repetita iuvant. Ho acquisito, negli anni, una certa epidermica allergia cognitiva nei confronti delle frasi fatte, della banalità di certe citazioni di derivazione letteraria e ormai di uso comune (soprattutto nell’uso sbagliato che se ne fa), e dell’abusato utilizzo di termini che – soprattutto in determinati periodi storici – si ritrovano sulla bocca di chiunque. Uno di questi è “resilienza”.
Citando pedestremente dal dizionario di psicologia “la resilienza è un concetto che indica la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità”. Fino a qui, nulla da eccepire: reagire senza snaturare sé stessi di fronte ai traumi è prerogativa delle persone che hanno raggiunto un certo grado di maturità, consapevolezza e pienezza emozionale.
L’errore sta nell’affrontare qualsiasi cosa, però, come se fosse un trauma: e così, a mio avviso, non è.
Perché la normalità del vivere quotidiano è fatta molto spesso di attività che portiamo avanti e che non ci piacciono assolutamente, di cui vorremmo liberarci, ma che accettiamo di portare avanti per inedia, per abitudine o per paura di metterci in gioco in qualcos’altro a noi più congeniale ma anche molto meno ‘comodo’, o remunerativo.
Quella, a mio modo di vedere, non è resilienza: è convenienza. La convenienza di rimanere in una certa situazione (o, per converso, di non volersi emendare da un modo di vivere personale assolutamente comodo) per paura che quel cambiamento ti ponga su un percorso che potrebbe essere più congeniale, anche se ancora da esplorare e quindi “ignoto”. Continuare a lottare coscientemente contro i mulini a vento non è resilienza: spesso è solo utilità.
Non c’è nulla di eroico in questo. Ma se non mi credete, chiedete pure alla vostra Dulcinea.
Certo, sempre che vi riesca di trovarla.