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Al Flowers la gioiosa rivoluzione degli Idles abbatte anche gli dèi

Una rivoluzione ci vuole, sempre.
Quantomeno per quella sua funzione di sveglia, un ‘promemoria’ dirompente utile a darci modo di ricordare che questa società, nella quale siamo quotidianamente immersi, non ci lascia in mano nessun’altro potere che non sia quello di decidere che, no, certe cose non ci stanno bene.
Ribellarsi, anche a se stessi, soprattutto quando si crede che nulla più riuscirà a smuoverci da quella gabbia nemmeno dorata, nella quale hai accettato di entrare e vivere.
Il filosofo Michail Aleksandrovič Bakunin, dai più ritenuto padre dell’Anarchismo, sosteneva che “le rivoluzioni cruente sono spesso necessarie, a causa della stupidità umana”, che in sè sembrerebbe una soluzione più deprecabile del male che dovrebbe combattere, ma che lo stesso Bakunin chiosava affermando come esse stesse siano “sempre un male, un male mostruoso e un grande disastro, non solo per quanto riguarda le vittime, ma anche per ciò che concerne la purezza e perfezione dell’idea nel cui nome avvengono.”
Gli Idles ieri ci hanno dimostrato invece che una seconda via ci può essere, che la forza dirompente di certe rivoluzioni può passare anche attraverso la lotta, e le idee: ma quelle idee gridate contro il cielo, nero e oscuro, foriere di una visione che accomuna e avvicina, che ti fa incontrare fratelli, che crea forza ed energia nella comunità.
Quella medesima visione si è incarnata ieri sera lì sul palco del Flowers, fin dal primissimo secondo del sovversivissimo e non cruento (se non per alcune trascurabili contusioni da pogo punkettaro, ndr) concerto di quei sette ragazzi (i cinque sul palco, e gli altri due ad aiutarli in prossimità) giunti a Collegno direttamente da Bristol – centro marittimo inglese, e fulcro delle rivoluzioni operaie del ‘900 – palese e corroborante in quel senso di fratellanza anarchica, talmente forte da risultare sostanzialmente palpabile e trasferibile dai loro abbracci, che si sono scambiati prima di iniziare, a suonare direttamente a noi presenti, stretti a contatto d’epidermide.
Da lì in poi, e da quella Idea 01 – primo brano del set, che nella sua visione deteriore ma realistica di un mondo che non fa sconti nemmeno nella ‘calda’ atmosfera familiare ha creato da subito il leitmotiv della serata – pubblico e gruppo sono diventati un tutt’uno di energia, di passione politica, pensiero e rivoluzione.
E quell’abbraccio ha continuato a propagarsi, ineluttabilmente come solo un’onda o un virus sanno fare: un passaggio virtuale che è diventato reale subito, quando lo splendido Lee Kiernan, chitarrista del gruppo, si è fatto trasportare in stage diving sulle mani della marea umana di fratelli in piena estasi, uno sturm und drang di sensazioni che si infrangeva su di un Fuck the king, he ain’t the king, she’s the king gridato al cielo, alla città, al mondo intero.
Un “fuck the King” che ad un certo punto della serata è diventato il “nuovo inno dell’Inghilterra” così come
Joe Talbot lo battezzava, invitandoci tutti ad abbassarci ululandolo ad una luna coperta da nubi nere, dense di pioggia, fulmini e vento.
Giacchè, se stai accovacciato non puoi inchinarti, ma solo guardare le cose dallo stesso piano sul quale ti hanno cacciato per nascita. Una dopo l’altra, quelle quindici canzoni sono man mano diventate inni di gioia e comunità, tra ragazzi e ragazze che sbattevano l’uno contro l’altra mescolando sudore, consonanza, e gioviale rabbia.
Una identità alla quale pure Zeus e le sue saette hanno voluto unirsi sulle note di Dancer, se pure a debita distanza di sicurezza: perché pure gli dei ad un certo punto si fanno da parte, se capiscono che il vento lo stanno guidando gli esseri umani.
Una tempesta che ha girato al largo, inquietante per chiunque ma non per quei ragazzi lì sopra, a sorriderne indicandone e dedicandole gli ultimi due pezzi: quella stupenda Danny Nedelko, inno degli immigranti di tutto il mondo che “hanno costruito quei Paesi che non li hanno mai accolti davvero”, e “Rottweiler”, chiusura del concerto, e canzone con la quale il commiato ad un pubblico da ringraziare “perché ci date forza, energia, e vi amiamo tutti quanti siete!” è stato una festa in sè.
Ci si saluta da fratelli, perché il germe di certe parole, di certi gesti, diventa frutto solo se sei disposto a farlo diventare completamente tuo.
Questo sono gli Idles: fratelli che fanno della musica la loro rivoluzione aspra ma non violenta, dura ma non mortifera. Ragazzi che ci credono, e che amiamo per quello che sono e dimostrano di essere.
Veri.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".