Fioriscono ancora i CCCP, nella seconda data del Flowers di Collegno
Una serata memorabile.
Ho cercato varie definizioni per descrivere il concerto dei CCCP di ieri sera, al Flowers Festival di Collegno; una concatenazione di poche parole che riassumesse in un attimo quella tavolozza di emozioni, immagini, pensieri e stati d’animo che la musica dei quattro artisti reggiani hanno sobillato in me e in tutti i presenti, con parole, e performances, e note e voci d’altri tempi.
E “memorabile” è ciò che più abbraccia quei sentimenti, abbracciando in sé tutti le altre che mano a mano ho scartato.
Questo perché la memoria si aggancia sì al ricordo – cioè, quella parte essenziale e nostalgica che lega il presente continuo delle nostre vite a ciò che è stato e che si è poi cristallizzato nelle nostre cortecce cerebrali ed epidermiche – ma anche alla costruzione di un ‘Io’ in divenire, che colleziona e accatasta nuove esperienze all’interno di quel magazzino chiamato ‘memoria’.
Questo emporio personale di sostanze dell’essere, che Marcel Proust sosteneva essere “una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso”, non è materia resistente, nè un monolite su cui sono scolpite verità ineluttabili e sempre vere, ma piuttosto è ‘corpo in divenire’, un tutt’uno di esperienze, accidenti, decisioni e patimenti che, nel corso del tempo, variano di sfumatura a seconda di come la luce da noi accesa li illumini.
Ecco così che certa musica è proprio quella luce, un fascio multicolore di corpuscoli e onde che rende la nostra vita – presente e passata – un racconto in divenire, a bivi, dove ogni cosa può variare anche solo di poco, non rimanendo però mai identica a se stessa.
Quella musica stessa è memoria in divenire, sicché non è contemplabile la nostalgia senza perlomeno trattenere la felicità della ricostruzione del momento di quel momento attraverso il nuovo filtro del presente.
E di nostalgia – palpabile sull’epidermide dei presenti ieri sera, allo stesso modo con il quale il calore serale cingeva tutti tra le fessure di un’estate torinese umida e fredda come mai – se n’è fiutata parecchia, tra le teste canute e le rughe di un pubblico che, però, vantava anche un intero ventaglio di generazioni tra le sue pieghe squadernate. Generazioni anche giovanissime, a partire da Giorgia Pietribiasi (in arte Lamante), lanciata sul palco ad aprire il concerto di quei ‘mostri sacri’ antichi, e che – a dispetto della sua verde età che De Gregori definiva “pochi anni” in Bufalo Bill (avendo peraltro la medesima età della Pietribiasi) – si è caricata egregiamente sulle proprie spalle un compito non certo facile davanti ad una platea variegata e di certo esigente.Una voce scura e tagliente, quella di Giorgia\Lamante, che ripercorre le proprie radici contadine facendole scorrere attraverso il filtro della propria memoria, in narrazioni per immagini che in molti definirebbero “tribale matriarcale”.
Ancora la memoria, come strumento in movimento, come creazione matrilineare. Il concerto che ne è seguito è stato così una lunga, epica dimostrazione di quella ‘overture’ così ispirata.
Nella formazione musical\performatica dei CCCP si è subita ricreata quella sensazione di storia d’arte, non in quanto riedizione, ma piuttosto in quanto riproduzione hic et nunc, un’iperbole di vita che ha concretizzato il nostro Io di allora, affiancandolo a quello coevo dell’adesso, rendendolo divenire.
E se in mezzo ai tanti giovani di una volta c’erano tantissimi ragazzi di oggi, mai come ieri sera quella musica ha dimostrato di essere ‘viva’, un seme di qualcosa che continua a crescere, e propagarsi.
Così che tra le parole cantate, sussurrate, a volte gridate da Giovanni Lindo Ferretti, si facevano strada le note di Massimo Zamboni e dei bravissimi musicisti al loro seguito; e negli slogan sornioni e ironici così come nei gesti eleganti di Annarella Giudici – il cui volto attoriale mantiene quella bellezza proverbiale di un tempo che scorre ma che, invero, non passa praticamente mai – si rispecchiavano le performances danzanti, industriali, volutamente calcate di Danilo Fatur.
In trenta canzoni (la maggior parte delle quali estratte da ‘Socialismo e Barbarie’), partite dall’incipit di Depressione Caspica e da quel “non ora non qui” – che aveva ieri più il sapore di una visione di germoglio più che quello di un presagio di fine – fino ad una acustica, lirica e intima versione di Annarella, si è attraversata la parabola di un gruppo che ha portato sul palco sé stesso com’era allora e com’è invece oggi: non un monolite di memoria nostalgica, ma l’essenza di un pensiero gravido che può rifarsi germoglio.
Di sorrisi – ieri tantissimi – di abbracci fra vecchi e nuovi amici – forse anche più dei sorrisi – della ripresa di idee buone e non di ideologie sterili, di una riesumazione di tutta quella ironia reggiana che è sempre appartenuta ai CCCP.
Magari sì, in questo, davvero Fedeli alla Linea: una linea del tempo che proseguirà di certo, se non nelle gesta eroiche dei quattro sodali, nelle menti e nei cuori di quel ventaglio di generazioni che, ieri sera, andando via dalla splendida venue del Flowers, ha ripercorso la propria strada verso casa ancora mormorando le liriche e le note di Amandoti.
Dolcemente, perdutamente.