Beck is Back!
Anfiteatro del Vittoriale Gardone Riviera – 26 Giugno 2022
Un biglietto per la corsa, “A ticket to ride” per dirla con i Beatles, è quello di cui in buona parte la nostra vita si nutre.
Siamo spesso, sempre più spesso, alla ricerca di una via di fuga dalla alienante consuetudine quotidiana, una via di fuga che si materializza nella gran parte dei casi in un biglietto: per prendere un aereo o un treno, per accedere ad un museo o ad una galleria, oppure per immergersi nel mondo parallelo di un concerto.
Nell’esatto momento in cui il biglietto è staccato il viaggio comincia ed il nostro pensiero si inizia a proiettare con frequenza maggiore o minore a seconda dei temperamenti a ciò che ci attende.
E’ già solo questo è buona parte della fuga di cui abbiamo bisogno.
A febbraio 2020 l’annuncio della prevendita per il primo tour italiano di Beck da eoni (2003 Urbino Frequenze disturbate l’unica apparizione precedente se la memoria non mi tradisce) fa entrare in fibrillazione le mie antenne. E’ tra i primi della lista dei “must-see” che mi porto nel portafoglio e a quanto sembra il momento è finalmente giunto.
La data prescelta è la più vicina e probabilmente la più suggestiva: il teatro del Vittoriale a Gardone Riviera, magione-mausoleo di Gabriele D’Annunzio sulle rive del Garda che gli eventi storici e la personalità del suddetto hanno intriso di innegabile fascino decadente.
Non passano pochi giorni che la slavina del Covid 19 si impadronisce di tutto il mondo pezzo a pezzo, i tour nazionali ed internazionali cadono uno dopo l’altro come birilli, alcuni annullati per sempre altri rinviati con un enorme punto interrogativo ad un futuro remoto.
E cosi nel dramma che si srotola giorno dopo giorno davanti a noi il filo di quell’attesa per un incontro desiderato da tempo si spezza. Beck viene nascosto in qualche cassetto segreto della mente, quasi sepolto come qualcosa che non potrà avverarsi.
Due rinvii, un anno dopo l’altro, si susseguono man mano che le ondate di contagio non accennano a placarsi, ma nemmeno più ci si pensa, al punto che giunto all’inizio di giugno, quando un promemoria elettronico mi ricorda l’appuntamento fatico persino a ricordarmi in quale anfratto della casa possa trovarsi il “Ticket to “farewell” ride”.
E cosi ci siamo, due anni e mezzo dopo, arrivati al faccia a faccia dopo due anni di anticlimax.
Siamo in nove, una carovana smaniosa di riprendersi quel pezzo di vita fatta di spettacoli all’aperto la cui mancanza si è fatta sentire per troppo tempo.
La scenografia naturale è ammaliante: il placido lago e l’isola del Garda che vi è assisa in quel tratto sono alle spalle del palco che essendo privo di backdrop permette una totale immersione nell’atmosfera bucolica mentre la luce digradante della sera offre tutte le nuances del caso.
I 1500 posti del raccolto anfiteatro sono gremiti da un pubblico che ormai abbiamo imparato a ben riconoscere in situazioni simili. Over quaranta che negli anni a cavallo tra gli ‘80 ed i ’90 hanno riempito la propria vita delle vibrazioni musicali di un’epoca da molti considerata irripetibile.
In realtà sono i vent’anni che sono irripetibili.
Beck sale sul palco in bianco, una chitarra acustica al collo, un’armonica. La sua voce riempie il catino distendendosi come un velo nel parco tutt’intorno, la chitarra accarezza i sensi ed è la malinconia di “The Golden Age” a rompere il ghiaccio, forte del calore di un amore spezzato, quello con Winona Ryder musa involontaria di “Sea Change” l’album del 2003.
I primi cinque brani riscaldano i cuori. Beck, solo sul palco, mette subito a nudo il suo lato più personale, parla parecchio con il pubblico introducendo “Blue Moon”, “Guess i’m doin’ fine” e le due cover “Everybody’s gotta learn sometimes” dei Korgis e la commovente “True love will find you in the end” che per i non molti fan del “loser” per eccellenza, l’autore, Daniel Johnston vale da sola il prezzo del biglietto.
Un minuto di pausa e si entra nel juke box globale di cui Beck, in quegli anni ’90 che vedevano per la prima volta l’abbattimento dei confini tra i generi musicali in nome di una contaminazione a tutto campo, è stato uno dei principali protagonisti.
Da quando attacca il groove di “Mixed Bizness” fino all’inevitabile chiusura corale a squarciagola di “Loser” sarà come essere avvolti in un caleidoscopio in grado di restituire rifratti come da una Mirrorball da discoteca luci, colori, sapori e suoni degli ultimi trent’anni.
Restare seduti mentre si susseguono “Devil’s Haircut” “Dreams” “Colors” “The New Pollution” e la “The Valley of the Pagans“ uscita dalla collaborazione con i Gorillaz, è oggettivamente impossibile, le gambe vanno per conto loro, i fianchi si agitano, il culo si muove.
L’assetto del palco è da concerto pop più che rock, del tutto incentrato su Beck che ha a disposizione l’intera parte inferiore dello stesso utilizzata quasi come un dancefloor in cui non resta fermo un attimo pur mantenendo stoicamente addosso la giacca bianca dall’inizio alla fine nonostante la temperatura.
La band è sistemata in alto, i quattro musicisti uno di fianco all’altro sempre in penombra mai davvero illuminati in pieno, sono parte della scenografia con le loro silhouette ma evidentemente, nonostante le indubbie capacità tecniche, sono soltanto uno strumento nelle mani del deus ex machina, nè più nè meno della grande messe di campioni e basi sonore che sono inevitabili in un repertorio siffatto, a meno di non portarsi in tour una big band.
“Wow”, “Hollywood Freaks”, “Que Onda guero” “Nicotine & Gravy” “Hotwax” rallentano il passo dello show. Il groove si fa fangoso e sensuale, toccando sapori hip hop, r&b, funk, soul, latini. Spesso i brani sono uniti in medley accentuando l’impressione di un jukebox che ti spara addosso uno dietro l’altro pezzi di una carriera sempre brillante e degna di attenzione nonostante inevitabili alti e bassi. In più di un’occasione si presenta sul palco il fantasma della buonanima di Prince, il solo artista che per varie ragioni è possibile accostare alla figura di Beck Hansen.
Il contatto anche verbale con il pubblico non viene mai perduto, tra un brano e l’altro Beck mostra tutta la sua gratitudine per il fatto di trovarsi in un luogo strepitoso in mezzo a persone che ne amano la musica, un approccio agli antipodi di quello freddo e distante dei Pixies, per fare un nome coevo.
“Black Tambourine”, omaggio nemmeno troppo velato alla “Tambourine” del principe di Minneapolis, e l’uno-due da k.o di “Up All Night” e “Loser” chiudono in gloria la prima parte del concerto.
Nessuno è più seduto. I corpi si lasciano andare, le voci verso il cielo.
Quando torna sul palco Beck è in nero, una sbavatura iniziale di chitarra non turba troppo la pura magia di “Morning”, il brano che apre “Morning Phase” come un vero e proprio massaggio al cuore.
Si continua a viaggiare su atmosfere rarefatte, sognanti, a tratti lisergiche, già i titoli del resto ne forniscono traccia: “Stratosphere” “Chemtrails” “Chemical” “Paper Tiger”. E’ la California psichedelica che fa capolino in quest’ulteriore incarnazione dello Zelig Beckiano, fino al momento di “Lost Cause” la ballad perfetta, quella dedicata alla lotta vana per non perdere Wynona: “I’m tired of fighting for a lost cause”, piu’ chiaro di cosi’.
E’ tempo di chiudere e si accendono gli ultimi fuochi pirotecnici. Il memorabile riff di “E-Pro” che apre “Guero” fa cantare a pieni polmoni l’intero teatro che si lascia infine andare alla deboscia slacker di “Where it’at” vero e proprio simbolo di una precisa epoca, quei primi anni ’90, che profumavano di novità e di liberta’: “I got two turntables and a microphone…”
L’ultimo atto è per il Beck più roots quello lo-fi di “One foot in the grave”. Ancora una volta solo sul palco, voce ed armonica in una selvaggia galoppata solitaria prima degli ultimi devoti ringraziamenti.
Tuffarsi mani e piedi nella centrifuga sonoro visuale di uno dei più inarrestabili talenti degli ultimi trent’anni. Forse miglior modo per riprendersi quei brani di vita negati per due anni dalla pandemia non poteva esserci.
Beck is Back and with a bang