Cronaca di un sogno – I Pearl Jam a Imola
“Niente accade se non è preceduto da un sogno.”
Lo so: sembra una di quelle frasi adatte a mille situazioni, di quelle che puoi trovare magari scritta su uno di quei bigliettini in cui trovi arrotolati i Baci della Perugina, o che spesso capita di usare come commento a una foto pubblicata sui social, o ancora – come spesso capitava quando quelli della mia età erano adolescenti – che si scriveva in una delle pagine del diario scolastico, nelle ore di religione o durante le lunghissime giornate di interrogazioni programmate, quando proprio non sapevi cosa fare per farti passare al meglio la mattinata e il tedio delle giornate autunnali, sempre tutte troppo uguali.
Bisogna però ammettere che, in sé, il concetto che esprime non è di fatto assolutamente errato: forse andrebbe solamente un po’ aggiustata la frase, resa un po’ più esplicita, chiara, completa. Non è di certo compito dei poeti fare in modo che ciò che tramandano al mondo, scrivendolo, abbia anche il dono dell’essere esplicito, quindi in questo caso nemmeno Carl Sandburg – poeta, giornalista e padre della frase che campeggia facendo bella mostra di sé, lì, in testa a questo articolo – fa eccezione.
Pertanto mi arrogo questo compito, e provvedo io ad aggiungere una piccola ma significativa modifica alla frase di cui sopra: “Niente di voluto accade, se prima non è preceduto da un sogno”.
Credo che Mike, Stone, Jeff, Matt – e i loro compagni di viaggio Boom e Josh – apprezzerebbero l’accorgimento e il significato della frase così modificata: di certo lo farebbe Eddie Vedder, raccogliendo a sé (come spesso gli tocca fare durante i concerti, quale front man, cantante, e portavoce dei suoi Pearl Jam) tutte le deleghe dei suoi sodali, in ordine di approvazione del messaggio.
Perché ha avuto ragione lui, con quella capacità di sintesi che spesso ha chi è abituato a condensare un discorso che, da solo, prenderebbe lo spazio di un saggio, mettendolo nel testo di una canzone di circa quattro minuti, ritornello compreso: e quella sua frase “Durante il Covid, sognavo l’Italia, mi sembrava tutto vero e reale”, ancor prima di essere una ‘captatio benevolentiae’ un po’ sorniona e scontata, è la giusta sintesi di due anni e mezzo circa di paure, insofferenze, fastidi, desideri sopiti e voglia di ricominciare, di un sogno ad occhi aperti che ad un certo punto si è quasi fatto incubo, e buio.
Certamente, sognare può essere pericoloso: ci si può facilmente bruciare, sbattendo le ali il più forte possibile nel tentativo di arrivare a quello che per noi, in quel momento, è il luminoso e caldo sole, terminando il nostro più o meno breve viaggio tra le ossa di tutti gli Icaro che, prima di noi, hanno fatto altrettanto. Cionondimeno, ci si deve provare con tutte le forze: perché il sogno da solo non basta, serve quella triviale ma essenziale dose di volontà: ferrea, indistruttibile, concreta, faticosa “wille zur macht” che, nella sua declinazione più umana è volontà di continuare a vivere nel migliore dei modi. Aveva ragione Proust, come spesso succede per le sue affermazioni: di fronte al pericolo di bruciarsi le ali, la risposta non è smettere di sognare, ma continuare e sognare ancora più forte.
E’ così che si vivono i sogni: e quelli musicali non fanno eccezione.
Si sale sul palco, si imbracciano chitarre e microfoni, si tengono strette strette in mano le bacchette di legno, e si inizia il proprio magari con l’inanellare un veemente tris di canzoni, retaggio di un epoca giovane e forte in cui il sentire e il sognare erano per noi un tutt’uno indissolubile: canzoni che vanno da Corduroy a Why Go passando per Even Flow, un viaggio volante tra i primi due album, il cui approdo acustico è chiaramente (e non può che essere così) quella Elderly woman behind a corner in a small town, che di per sé rappresenta la fine di alcuni sogni andati male e, contemporaneamente, l’inizio di uno che invece è ancora possibile, se lo si desidera abbastanza.
E per chi si trova in mezzo al pubblico, tra quei sessantamila cuori che battono al tempo di Dance of the Clairvoyants e Quick Escape (pezzi che dal vivo rendono ancora meglio che non su vinile) è praticamente impossibile non chiedersi se si sta ancora sognando, e allo stesso momento altrettanto impossibile non capire subito che il sogno è anche questo: un approdo concreto al termine di una tempesta ancora troppo vicina per ritenersi completamente in salvo. Ma è proprio a quel punto, lì, tra i brani che hanno fatto così tante volte da colonna sonora a vite (come la mia, ad esempio, ndr) che possono certamente dirsi a metà cammino – se non anche un bel po’ oltre – è lì che si apre una mano, e che la si stende piena delle sue rughe e dei suoi sogni a volte andati a male, a volte ancora non conquistati, a cercare il cielo, nella conta di una Wishlist ‘spuntata’ nemmeno per metà delle voci che contiene; ed è sempre lì che quella stessa mano che un tempo è stata figlia in cerca di un appiglio solido, paterno, torna poi giù tra per terra, a cercare la mano di chi invece, attraverso occhi che sono anche un po’ i tuoi, sta cercando e abbracciando un sogno nuovo, vivo, eterno, che gli consenta di capire anche un po’ chi è, che cosa fa qui su questa Terra.
E capisci che i sogni, forse, si possono anche un po’ tramandare, e si possono accendere come fuochi, attizzare: “The shades go down”, le ombre finalmente scendono, tra le note di una Daughter che ti apparterrà un po’ sempre, e quelle che sostengono una “Sirens” che cerchi di regalare a quel piccolo te che ti tiene la mano lì di fianco. E così le parole, come sogni, acquistano un nuovo significato, perché “I always loved you, held you high above too \ I studied your face, the fear goes away”: la paura va un po’ via, sulle facce illuminate di sessantamila cuori più due che adesso sperano, cantano, e sorridono all’unisono, e che vorrebbero che il sogno che si è reso concreto davanti ai loro occhi si propagasse dalle orecchie giù giù dentro le vene e attraverso il sangue ancora e ancora, fino a non averne più voglia.
E forse è anche un po’ così che succede sulle note di Yellow Ledbetter, mentre un ispiratissimo e quasi musicalmente posseduto Mike McCready inanella i suoi giri di accordi, e quegli arpeggi un po’ presi a prestito da Jimi Hendrix – quel suo concittadino, chitarrista e sogno, come ora lo è lui lì davanti – che ha suonato con tutto sé stesso (bocca compresa) per due ore e mezza: il sogno non ci abbandona nemmeno sull’ultima delle note, ma rimane nell’aria, con quel suo profumo e quel sapore che hanno le cose buone.
Qualcosa che ti rimane tra le dita, e sulle mani, e nei ‘sessanta milioni più due’ sorrisi che tornano a casa quasi senza che rimanga alcuna sensazione di stanchezza addosso. Cose buone come i sogni, quelli voluti con ogni cellula di sé stessi. Quelli che ti porti addosso e dentro da ormai una vita, e che continuerai a volere e sognare per la vita che ti rimane. Quelli che cerchi di trasmettere attorno a te, se puoi. Perché se rimangono attaccati a quelli che ami, ti sopravvivranno per sempre. Come fossero musica. Ma di quella bella, da sognare.
[Grazie a Emanuela Paoletti per le splendide foto]