Steve Wynn pandemic hobo
“Hobo menestrello, hobo vestito di stracci, quante torte di frutta per una delle sue poesie?
L’hobo vive in una Disneyland, nessuna strega ha mai messo un hobo nel calderone”
(L’ultimo vagabondo americano – Jack Kerouac)
Sei un fresco Woody Guthrie, viaggi leggero Steve, il coast to coast, la scoperta della provincia sonnolenta, con te solo una chitarra acustica, un amplificatore, i tuoi pedali e un capotasto, l’oggetto più essenziale, senza il quale, stasera, non si suona. Sei solo, ma avere un posto dove andare significa intraprendere una specie di percorso. Quando sei in tour, hai una casa nuova ogni notte e ogni mattina il caffè ha un sapore diverso. Arrivi al locale, metti giù la tua roba e ti guardi intorno. Da dentro arriva la voce di Joey Ramone. Apri la porta e la musica diventa più forte: ora lo senti bene quel fottuto di Forest Hills. Soffitto basso di mattonelle scure, irregolari, gente in piedi al bar o seduta ai tavoli che parla, fuma. Gente dai capelli lunghi, taluni rasati di lato, un tipo più vecchio con la faccia segnata, un paio di donne fasciate in stretti jeans e una testa alla Elvis con ogni capello al posto giusto. Togli la spina dall’accordatore e la rinfili nel delay. Accendi l’amplificatore e parti con un accordo in mi. Perché la chitarra è uno strumento crudele. Lo ami davvero solo se ti fa del male. Le corde metalliche ti creano solchi rossastri; devi continuare a premere e premere, stringendo i denti, finché al bruciore iniziale non subentra un senso di indolenzimento che dalla punta delle dita s’irradia lentamente a tutta la mano e al polso. Prova a far scivolare le dita sulla tastiera di un pianoforte: scorreranno via lisce perfino sulle note stonate. Invece la chitarra è fatica, sudore, applicazione. Una corda sottile e lunghissima, che partendo da certe strade di Manhattan, sembra di colpo legare l’incessante New York con il vecchio cuore della mia città. Attorno a quel cavo di metallo sottomarino, resistentissimo, che attraversa tutto l’Oceano, si attorcigliano, adesso, le mie confuse aspettative.
“La chitarra è pronta!”.
Nel puzzo di birra e di fumo che ristagna, all the winners and the losers si fermano per farti capannello. A volte sei stanco, intimidito, preoccupato, Steve, sarebbe facile nascondersi dietro le quinte dopo uno show, ma tu no. Sessanta canzoni scritte su un pezzo di carta. Ecco la tua scaletta. La cambi ogni volta, qualsiasi cosa sembri più adatta alla serata. Noi siamo i tuoi voyeur. L’interazione, la conversazione, l’intimità. Comprendi cosa facciamo, cosa diciamo tra una canzone e l’altra, l’aspetto della stanza, ogni oggetto per quanto insignificante, qualunque cosa ti indichi la personalità, il carattere. Non c’è niente come vivere la musica in tempo reale e rispondere a tutto e a tutti quelli che ti circondano proprio in quell’istante. Tutto si gioca momento per momento. E, allora, una canzone che normalmente è veloce, la suonerai più lenta. Quella lenta si scioglierà. Noi ripetiamo tutto come un mantra, mimiamo le rullate, fingiamo nell’aria un riff-raff di chitarra, distorcendoci come i Kinks facevano con le note. Qualcuno di lontano scuote la testa e ci prende per matti. Perché il grande sonno non è altro che la fine, la suprema mosca tsé-tsé, forse un mimetismo a scopo di salvezza come quelli di certe farfalle con occhi giganteschi sulle ali. Svegliarsi, dopotutto, può essere pericoloso: questo è il messaggio che ci cade addosso fra le chiacchiere insensate ed effimere. Quell’anestesia dello spirito che neppure la musica, a volte, riesce a scacciarmi di dosso pare sciogliersi in una realtà più vera. La Los Angeles disperata e corrotta di Raymond Chandler e dei Dream Syndicate si rivela infinitamente più viva della città dove talvolta mi illudo di esistere.
Ricordi, nel 1991? Il tuo viaggio da Los Angeles a New York. Ti sei presentato al bus terminal di Port Authority alle quattro del mattino su un Greyhound. Hai passato tre settimane vivendo in un ostello nei miracoli della 34esima strada, vedendo concerti ogni sera, camminando per miglia e miglia, e pensando: “Voglio vivere qui un giorno”. Ci vollero tredici anni.
“New York was like being born again
Which means a rough adolescence can’t be far behind
A lesson learned is a lesson forgotten
Tremors and aftershocks pay me no mind”
(Steve Wynn – Manhattan Fault Line)
Il box “Decade”, tutta tua l’intenzione di parafrasare Neil Young, parte proprio da qui, dal 1994. Un compendio di undici cd che raccontano quello che hai registrato tra il 1995 e il 2005: 166 canzoni, 57 totalmente inedite, 31 rare, provenienti da “Melting In The Dark”, “Sweetness and Light”, “My Midnight”, “Here Come The Miracles”, “Static Transmission” e “Tick’Tick’Tick”. E, lungo la strada, ci sono apparizioni di Chris Cacavas, Howe Gelb, Barbara Manning, Chris Brokaw e Thalia Zedek, Tony Maimone, John Convertino e Rich Gilbert. Ti sei aggrappato alla chitarra come fosse un paracadute, un’invisibile altalena che vola in alto, in una parabola ad arco, con le ginocchia raccolte contro il petto, a vele spiegate.
Questa sera ci siamo tutti, vecchi pirati, sordi per tempeste di decibel; eterni eretici condannati all’inferno da pedagoghi, insegnanti e psicologi dabbene. Il nostro spirito formato microsolco aleggia, mescolandosi al sentore di vendetta che, al far dell’alba, si va cagliando in fondo a un bicchiere di birra lasciato intatto sul bancone del bar. Come se, dentro quell’apparenza, insieme svagata ed esatta, dell’andare a tempo per qualche minuto, ci fosse tutto il rigore bastante della vita.
Il tuo viso è come un libro aperto, cerca la via un passo alla volta con il coraggio di tornare indietro ogni volta che sbaglia e di rialzarsi dopo ogni caduta.
“If my life was an open book
I guess I’d let you have a look
And you could try to change the end
But I’d just change it back again
Then maybe we could collaborate
On all the sections that you hate
Would it be worth a second look
If my life was an open book?”
(Steve Wynn – If My Life Was an Open Book)
Mi abbagli ancora con la bellezza della granulosa “Sustain” che mi manifesta quanto il dolore rimarrà sempre dolore e il male sempre male perché, come diceva Sant’Agostino, son di fatto vissuti e sentiti nell’ambito della storia.
“Like a debt that I never tried to pay before
And no one’s ever gonna take
The fee away from me
I try to clear the books with time
Instead of tangible artifacts
And elements and bits of me that I can’t see
And only the pain remains (sustain, sustain)
Nothing that time can explain away”
(Steve Wynn – Sustain)
Mi ricordi che “The Lost Weekend” non era soltanto che il testamento di una coppia di amabili ubriaconi, vale davvero la pena di gettar via la propria vita solo per potersi chiamare con orgoglio il re dei perdenti? Quanta consapevolezza quando canti ”Baby, We All Gotta Go Down”, perché alcuni di quelli che fanno il salto non torneranno mai indietro.
“Samson met Delilah in a bar
Cause they wanted to bury the hatchet real far
Well after seven shots
Even old Samson was seing spots
He said baby we all gotta go down”
(Danny & Dusty – Baby, We All Gotta Go Down)
Alla fine basta sentirti dire: “Qualcuno definiva il Paisley Underground, garage rock, americana, no, noi eravamo una punk band e questa l’abbiamo scritta pensando ai Black Flag”, perché era un matrimonio tra rock e punk, che ha anticipato la SubPop e tutto l’alternative country, perché quel suono amalgamava la psichedelia, la mistica dei Velvet Underground proprio con la rabbia dei Black Flag. Uno zeitgeist del momento. E attacchi “The Days of Wine and Roses”.
“The word from outside
And she is on the ledge again
Drawing a crowd
And threatening everything
I’m here wandering
Just where I fit in”
(Dream Syndicate – The Days of Wine and Roses)
Dopo lo spettacolo ti fermi al merchandising, parli con le persone. Una foto, un autografo in cambio del posto migliore in città dove mangiare un cheeseburger. Persone, vecchi amici, accogliere nuovi individui, nuovi ruoli, nuovi sogni, nuovi progetti, prendere nuove decisioni.
Mi hanno detto che c’è un dipinto di Hieronymus Bosch, intitolato “Il regno millenario”, nel quale il diavolo suona una cornamusa rosa che simboleggerebbe la musica vana. Forse proprio per il suo legame infernale questo strumento atrocemente pastorale mi fa presagire la fine. O me la ricorda. Ma, ogni volta che il braccio consumato del giradischi gira e rigira imprigionando il mio cuore spezzato nei tuoi solchi, non so resistere al richiamo delle cornamuse e le seguo per le vie della città come una fanfara gioiosa.
Per questo, infine, mio caro Steve, mio caro pandemic hobo ti scrivo quest’assideratissima lettera d’amore.
Tuo Sgt. Pepper