Per favore uccidimi
Richard Hell camminava dinoccolandosi lungo la Quinta Avenue, con in tasca un libro di Henry Miller. Aveva il cuore che gli tempestava nel petto mentre si chiedeva cosa fare e come farlo, quando una pattuglia lo fermò per un controllo. Il poliziotto lo perquisì trovandogli un ago. “E questo da dove arriva?” Richard guardò l’agente con occhi strabici e replicò che faceva collezione di spille antiche. Aggiunse che era anche un sadico e che si era fatto quei buchi che vedeva sul braccio perché gli piaceva farseli.
Lo sbirro sembrò crederci e lo lasciò andare. La sera al CBCG, un locale nel Lower East Side di Manhattan, la sala era ancora semivuota quando scoppiò una rissa per qualcosa che un ragazzo aveva detto a una tipa piena di tatuaggi sulle braccia e sulle cosce. Un buttafuori nero di pelle chiara intervenne energicamente riportando la calma. Il critico rock Lester Bangs in frenesia alcolica chiacchierava un po’ più in là con Legs McNeil della fanzine “Punk”, mentre sul palco Richard Hell strafatto di eroina se ne stava appoggiato ad un altoparlante e teneva in mano il suo basso. Era vestito con una T-shirt bianca strappata con la scritta “Please Kill Me”, e portava capelli corti arruffati all’insù. Per terra accanto alla custodia dello strumento, c’era il suo giubbino di pelle nero. Quel ragazzo emanava un fascino irresistibile aveva occhi vispi e il viso aguzzo ed era molto sexy. Non c’era dubbio che era nato per essere una rockstar. A New York era arrivato appena diciottenne proveniente dal Kentucky ma prima di diventare un musicista si era occupato di scrivere poesie e articoli per riviste underground. Aveva lavorato nella libreria The Strand insieme a Patti Smith, finché con il suo amico d’infanzia Tom Verlaine che una volta finito il college lo aveva raggiunto, diede vita ai Neon Boys e poi ai Television. Un rapporto litigioso il loro, per via del carattere inflessibile di Tom Verlaine e il modo strafottente e caotico di Richard Hell nel prendere sul serio le cose. Quando Verlaine eliminò “Blank Generation” dal set di canzoni da provare, Richard Hell decise di lasciare il gruppo (sostituito da Fred Smith dei Blondie) per approdare negli Heartbreakers di Johnny Thunders e Jerry Nolan, gruppo formatosi subito dopo lo scioglimento dei New York Dolls. Dopo un primo periodo in cui le cose sembravano filare, per via di quello spirito che lo faceva ronzare e per la voglia che gli era venuta di realizzare finalmente qualcosa di suo, abbandonò la Band. Agli Heartbreakers lasciò in dote “Chinese Rocks”, una canzone scritta con il suo amico Dee Dee Ramone. Il pezzo, suonato durante i concerti, era ormai diventato famoso nella città di New York, tanto che quando gli Heartbreakers pubblicarono il disco d’esordio, sebbene Johnny Thunders non avesse apportato alcun cambiamento, lo firmò a proprio nome. Richard Hell si accese una sigaretta e soffiò una nuvola di fumo. Nelle mattine luminose gli piaceva fermarsi a pensare, ascoltando qualche canzone di Lou Reed. Era in questo modo che la sua noia nervosa prendeva forma e il gelo trovava appiglio nella poesia. In quel periodo si sentiva come quel tale raccontato nella canzone degli Stones, “Get Off Of My Cloud”. Uno che guardava fuori dalla finestra immaginando che il mondo si fosse fermato. Adesso non gli pareva neppure di essere in grado di fare il musicista rock ma si sforzava comunque di essere onesto e sincero; e lo era davvero, ma quelle sensazioni che all’inizio lo avevano eccitato, inebriato, facendolo sentire sul tetto del mondo, si andavano affievolendo. Una sera, dopo che aveva lasciato gli Heartbreakers, insieme al suo amico Terry Ork, un bibliotecario e piccolo manager discografico, andò a trovare Bob Quine, un chitarrista amico di quest’ultimo. Dopo aver bevuto e preso qualche sostanza, Bob gli fece sentire un nastro con le sue versioni di “Johnny Be Good” e “Eight Miles High”. Il suono di quella Fender lo lasciò inebriato, perché era proprio quello che stava cercando. Ma nonostante il talento e la poesia che scriveva, e la nuova band che aveva messo in piedi con Bob Quine, Ivan Julian alla seconda chitarra, e Marc Bell alla batteria, Richard Hell sprofondava sempre più nel pessimismo. Sentiva che non gli piaceva stare tra la gente, e neanche su un palco, e in fondo non era interessato a nulla. Sembrava non fregargli niente di niente; è questo che racconta la canzone “Blank Generation”, del sentirsi di appartenere ad uno spazio vuoto. Uno spazio da riempire. Ma con cosa? Quel brano contenuto nel disco omonimo pubblicato nel 1977 fece smarrire su una distesa di macerie un mucchio di gente. Nel rock non c’era più spazio per la cultura hippy ormai usurata, finita. Una nuova generazione avanzava e in quel disco andava in scena proiettata in dissolvenza sui muri disfatti delle città. Una generazione rumorosa diretta nel vuoto, accompagnata da una colonna sonora grezza e tagliente. “Blank Generation” di Richard Hell & The Voidoids suona un rock nervoso che ti succhia la saliva dai denti; è come un’unghiata sulla guancia, una striscia rossa di sangue sulla carne bianca. Un disco irrequieto, allucinato e tossico, come lo furono Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde di Bob Dylan. Un manifesto sonoro di un’epoca e di un artista che è riuscito a trasformare la musica in poesia, concentrando lo sguardo su quello che lo feriva, con un ghigno dolente stampato in pieno viso. Tutto era iniziato per caso nel 1974 al CBCG, un locale anonimo al 315 di Bowery Street di New York. Richard Hell cercava un posto in cui non accadeva mai nulla per suonarci nei fine settimana, facendo pagare un biglietto d’ingresso al pubblico. L’idea gli era balenata frequentando il Mercer Arts Center, dove i Dolls si esibivano con le stesse modalità. Una sera ne parlò con gli altri membri dei Television, a cui piacque l’idea. Una mattina mentre Tom Verlaine e Richard Lloyd stavano andando a piedi alle prove, scorsero quel locale, si fecero coraggio e parlarono col proprietario Hilly Cristal, il quale spiegò che quelle iniziali stavano a significare che era un luogo dove si poteva suonare musica “Country, Blues e Bluegrass (certamente non il rock’n’roll) e che comunque era anche intenzionato a trasformarlo in un drive-in. Dopo innumerevoli confronti per convincerlo a concedergli il palco nei fine settimana, servì l’intervento risolutore di Terry Ork che gli garantì un certo numero di consumazioni; ma la cosa che nessuno pensava è che quella pazzia potesse avere successo. La scena, inaspettatamente, cominciò a crescere, a diventare come un’onda gigantesca, i Television adesso suonavano il giovedì, venerdì, sabato e domenica e un sacco di gente veniva a vederli. Spuntò anche Patti Smith innamorata di Tom Verlaine, a domandare se potesse suonare nei weekend. In quel luogo il rock’n’roll stava cambiando pelle, si stava trasformando pure nel look. Si vedevano capelli corti e vestiti strappati, borchie, giubbini di pelle e anfibi indossati da gente scarna e nodosa. Niente più lustrini e paillettes, né assoli di chitarra da trentacinque minuti. Si suonava una musica lirica, potente e aggressiva. Era come stare in una serra, dove stavano spuntando dei nuovi fiori; e poi ad un tratto una sera salirono sul palco i Ramones e fu il finimondo, e dopo di loro arrivarono Blondie, Talking Heads, Mink De Ville, i selvaggi Dead Boys, gli Heartbreakers, Alan Vega e Martin Rev. Il rock’n’roll camminava nuovamente avanti e indietro, alzando la voce e scrollando le spalle e nessuno più dormiva la notte. Un’orgia continua con quel muro di suono che ti trapassava da parte a parte. Proprio quello che la folla stava aspettando sui marciapiedi della Grande Mela. Richard chiuse gli occhi e si passò una mano sul viso. Le cose dentro di lui peggioravano di giorno in giorno. Era come se non volesse più guardare cosa stesse succedendo dall’altro lato della strada. Riaprì gli occhi e scrutò nel vuoto. Dopo l’uscita di “Blank Generation” andò in tour in Inghilterra, girando il paese per tre settimane insieme ai Clash; ma quello per lui non era un balzo nel futuro, si accorse di rivivere quello che aveva già fatto quattro anni prima e quella sensazione lo frantumò. Provò una stanchezza tremenda, perché capiva di essere al capolinea, di aver dato alla musica tutto quello che aveva. Suonava solo per sostenersi, per pagare le bollette, l’affitto di casa ma essere un musicista non è come essere impiegati al Comune. Serve tenere accesa la scintilla della passione e se la rabbia, la frustrazione, quel desiderio di essere sempre in prima fila con l’andare del tempo si stavano quasi del tutto attenuando, pensò che quell’inquietudine che comunque lo attanagliava si potesse tramutare in qualche altra cosa. Si era sempre sentito uno scrittore, prima di una rockstar. Londra chiamava (anche io ero lì) urlava la sua rabbia e bruciava di rock’n’roll. Uno stuolo di ragazzi se ne andava in giro con giubbotti di pelle, jeans strappati, e capelli corti all’insù. Le sentiva quelle grida provenire dalla strada, gli appartenevano, ma adesso la sua voce era più bassa di quella bellicosità musicale che si stava espandendo a macchia d’olio. In fin dei conti aveva bisogno solo di un po’ più di spazio, di vuoto, per ricominciare. “Come un ragazzo volevo solo giocare, passare solo la giornata. Sinché non la vidi, la mia strada. Ma il tempo è volato e ci ha denudati sino all’osso. Venefici venti di angoscia insegnaci come noi siamo. Soli in questo mondo. Noi abbiamo appreso a vedere tutta la corruzione e tutto il suo odio, tutto il suo dolore, così. Un brindisi alla fine della nostra innocenza. Un brindisi alla nostra generazione vuota.”