I giorni del vino e delle rose (1982 -1986)
“Everybody says I don’t care
No, I don’t care
I’m just trying to remember
The days of wine and roses”
(The Days of Wine and Roses – Dream Syndicate)
Los Angeles, 1984. Il mondo assiste alle Olimpiadi. Reagan viene rieletto per la seconda volta con una valanga di voti. L’economia americana continua la sua inesorabile corsa verso il baratro. Il suono diffuso dai club è quello vibrante del punk dei Black Flag, X, Minutemen e Agent Orange. MTV è ancora agli albori, tutta leggerezza e un po’ di mascara. Eppure la sensazione dilagante è quella della rabbia, della paura e delle speranze vaghe di giorni migliori da qualche parte nelle lande desolate della California.
È qui, in questo severo contesto, che il Paisley Underground vive il suo periodo d’oro, regalandoci una declinazione westcoastiana del modello CBGB, dalla quale altre scene locali, Boston, Seattle e Chapel Hill, prenderanno esempio. Nella musica rock, per la maggior parte delle next big thing comparse dal nulla e poi sparite, i ricordi sono sommari. Cos’era il Paisley Underground? Quali erano i suoi protagonisti, quali i comprimari? Quelli che lo hanno vissuto difficilmente sono d’accordo su ciò che è successo, ma tutti sembrano riconoscere che fosse qualcosa di peculiare. Durante il suo momento di ribalta all’interno della cultura pop, il Paisley Underground creò le fondamenta sulle quali si eressero le case della neo psichedelia e dell’alternative country e due dischi in particolare emersero come talismani di un’epoca: “Rainy Day”, una raccolta di cover che andavano dai Velvet Underground a Neil Young, e “The Lost Weekend”, un confuso, alcoolico disco registrato da Danny & Dusty (Dan Stuart e Steve Wynn). Guardando indietro attraverso il caleidoscopio della memoria si rivelano scorci di una scena segnata da influenze allora fuori moda e di una società segreta e carbonara che, purtuttavia, le rende ancora attuali.
L’anno è il 1982. Un glorioso fine settimana del 4 di luglio, membri di Dream Syndicate, Rain Parade, Salvation Army e Bangles sono tutti presenti. È una giornata di sole, surf e amicizia. “È il momento decisivo”, ha ricordato Wynn non molto tempo fa. “Eravamo tutti felici insieme. Quindi, perché un ricordo, ora che sono passati vent’anni, dovrebbe avere ancora una qualche importanza? Perché l’attività di un semioscuro bunch di band poco note dovrebbe avere ancora un peso oggi?”
La risposta è duplice. Perché ognuno di noi ricorda anche solo vagamente i suoi vent’anni, quel periodo magico nel quale gli amici sono la tua famiglia e la musica è il cibo che ti fa arrivare a fine giornata. “Era una scena sorprendentemente solidale”, ha detto Steven Roback, che fondò i Rain Parade con il fratello David. “Era costruita su un giro di amicizie tra me, David e la famiglia di Susanna (Hoffs). Siamo cresciuti insieme, vivevamo a due isolati di distanza. In seconda media ci siamo esibiti anche in un musical con Sue come protagonista”. Il cameratismo tra le band era importante almeno quanto la musica che facevano. Il centro della scena era l’appartamento di Los Angeles dei Green on Red. Il chitarrista dei Rain Parade, Matt Piucci, la ricorda così: “Abbiamo incontrato i Dream Syndicate a un barbecue dai Green on Red. Avevano questo posto su a Hollywood. Poi arrivarono le sorelle Peterson, Debbi e Vicki delle Bangles, che ragazze fantastiche!”. Le band che componevano il Paisley Underground forniscono un collegamento diretto tra il primo underground americano e il moderno alternative rock che sarebbe seguito dieci anni dopo. Come spiega Pat Thomas, proprietario della San Francisco Innerstate Records e storico non ufficiale del Paisley: “Era un matrimonio tra rock classico e punk, ha anticipato la SubPop e tutto l’alternative country, c’erano band come i Long Ryders anni prima dei Son Volt”. In effetti quell’etichetta non teneva conto della diversa natura di ogni singola band: da una parte c’era il desert rock dei Green on Red e il country punk dei Long Ryders, dall’altra il pop sognante dei Rain Parade e dei Three O’Clock. I Dream Syndicate fondevano la psichedelia con la rabbia del punk e la mistica dei Velvet Underground. Il tutto era una sintesi spontanea di molte influenze colorata dalle personalità dei singoli musicisti e dallo zeitgeist del momento. Infatti, se si scorrono le interviste diventa evidente quanto fossero letteralmente drogati di musica. Combinate questa conoscenza con un’etica punk DIY e tutto esplode. Ricorda Steve Wynn: “Siamo tutti usciti dal punk, abbiamo avuto nel 1977 una sorta di gigantesco risveglio che ha spazzato via tutto il resto. Nel 1977 non potevi farlo. Ma, nel 1982, fu una seconda creazione”. Quella fusione di stili conferì alla musica una certa atemporalità assente in altri dischi. Difatti, “The Days of Wine and Roses” dei Dream Syndicate o lo stellare debutto dei Rain Parade, “Emergency Third Rail Power Trip”, suonano ancora oggi piacevolmente attuali. Il critico musicale del Chicago Sun-Times, Jim DeRogatis, ha scritto: “Avevano delle ottime canzoni. È illuminante confrontare i revival sixties dell’epoca, il Paisley Underground della West Coast e la scena garage della East Coast. Le band del Paisley rimangono tuttora perché scrissero del materiale che, in parte, ha superato la prova del tempo, mentre le altre erano in gran parte dedite a cover e, in generale, all’estetica piuttosto che al songwriting”. Jim Huie, proprietario della Paisley Pop Label e collaboratore dell’ex chitarrista dei True West, Russ Tolman, modera una mailing list sul Paisley: “Se il Paisley si è costruito sui sessanta, allora, è possibile che, nello stesso modo, le band più giovani possano ancora prendere ispirazione dai Dream Syndicate e dai Long Ryders”. Da parte sua, Steve Wynn ricorda ancora: “Il Paisley è legato a sentimenti forti. Non so quante siano quelli che all’epoca c’erano e quanti i ragazzi che lo stanno scoprendo oggi per la prima volta. Penso suoni ancora tremendamente informale”.
La musica rock non è mai sfuggita al legame con le sostanze proibite. Il Paisley Underground, denominazione rinnegata e attribuita al leader dei Three O’Clock Michael Quercio, affiorò più o meno nello stesso periodo nel quale l’ecstasy fece la sua comparsa nel menu delle droghe da divertimento, una confluenza di eventi che oggi sembra solo una coincidenza. E ciò anche se la musica del Paisley replicava perfettamente gli effetti ricercati dell’allucinogeno, creando per noi ascoltatori una foschia fluttuante dalle forme vagamente modellate, una beatitudine da pupilla dilatata che prendeva il volo sotto forma di suono liquido e fluido. I primi album di questi artisti venivano condivisi tra gli amici come se fossero la chiave dei segreti dell’universo: una specie di linguaggio in codice, quasi spirituale, riservato esclusivamente ad adepti, in una sorta di selezione naturale tipica del periodo. Fondamentalmente, erano tutti collezionisti di dischi che suonavano musica. I Dream Syndicate, le Bangles e i Salvation Army suonavano nei locali di Los Angeles in piccoli posti come il Music Machine, il Dancing Waters, il Whisky e il Cathay de Grande. È divertente che ci fossero così tanti diversi punti di vista, ma la scena Paisley era tutto ciò che immaginavamo fosse. Le band si dividevano le bollette del gas e della luce, scrivevano canzoni insieme, provavano insieme, suonavano gli uni nei dischi degli altri, si frequentavano, che fosse una festa o una rassegna su John Cassavetes. Era tutto questo. Amici ambasciatori della musica, più che aspiranti rockstar. Le canzoni erano assolutamente intimiste, non sovraprodotte, lontane da ciò che stava accadendo nel mainstream. Il che è probabilmente il motivo per il quale l’affermazione non arrivò mai; arrivarono dopo la prima ondata del punk e prima del grunge e dei Nirvana. Gli anni ottanta erano questa vasta terra desolata oppressa da musica orribile. Così, si suonavano le cover e poco importava che fossero quelle dei Creedence, degli Stooges, degli Easybeats, di Bob Dylan o dei Godz. Quelle prime registrazioni, quei primi concerti colorarono il paesaggio del Paisley con una tonalità decisamente sixties fin dai suoi esordi. Se setacciamo le recensioni dell’epoca, in special modo della stampa britannica, i giornalisti accolsero con vivo interesse quel mix di psichedelia in forma libera e pop, paragonandolo ai suoni di gruppi come gli Echo & The Bunnymen e i Teardrop Explodes. Riportava, nel 1983, il New Musical Express sul debutto dei Rain Parade, “Emergency Third Rail Power Trip”: “Queste canzoni sono cattedrali del suono, celate sotto la foggia dei suoni della chitarra di David Roback, sviluppate con dinamica parsimonia in mezzo a storie oscure di omicidio, follia e paranoia. Un mantra per uno stato mentale alterato”. Ma, già nel 1986, la scena si stava sfaldando tra le dispute e il vecchio demone dei contratti discografici andati male. Scrive ancora Jim DeRogatis nel suo libro “Kaleidoscope Eyes”: “Erano tutti accomunati dal fatto di aver avuto problemi con le major. Prima dei Nirvana, i soldi si facevano solo se le band venivano lasciate a loro stesse. Troppa ingerenza era poco produttiva. R.E.M. a parte, l’indie americano non è stato in grado di raggiungere un successo sia critico che commerciale”. “Eravamo davvero bravi”, ha detto David Roback. “Era folle quando questi delle major si presentavano ai concerti promettendo soldi e contratti. Ma avevamo talento. Per tre o quattro anni, abbiamo fatto grande musica, il resto è solo hype”.
RAINY DAY
“When you think the night has seen your mind
That inside you’re twisted and unkind
Let me stand to show that you are blind
Please put down your hands
‘Cause I see you”
(I’ll Be Your Mirror – Velvet Underground)
E Roback, proprio nel momento nel quale molti dei debutti del Paisley si facevano strada nelle playlist delle college radio, stava già progettando di concepire il primo capolavoro concettuale della scena: un disco registrato in comune che onorasse gli eroi che li avevano ispirati. L’idea era semplice.
Il progetto “Rainy Day” riflette sia l’unità della scena dei suoi primi giorni che la sua impressionante gamma di influenze. Registrato dal produttore dei Minutemen Ethan James, ex membro dei Blue Cheer, nei suoi Radio Tokyo Studios, un piccolo locale con le pareti tappezzate di moquette, senza finestre, che si trovava a pochi isolati dalla spiaggia di Venice, voleva essere un tributo agli artisti dai quali la scena di Paisley traeva ispirazione, come Velvet Underground, Big Star, Bob Dylan, Buffalo Springfield e Beach Boys. Roback aveva compilato una lista di possibili cover e cominciò a reclutare amici che collaborassero alle registrazioni. E tutti accorsero. Tra questi l’ex bassista dei Dream Syndicate Kendra Smith, che presto sarebbe diventata con Roback membro di Clay Allison e Opal, Susanna Hoffs e Vicki Peterson delle Bangles, Michael Quercio dei Three O’Clock, Matt Piucci dei Rain Parade e Dennis Duck e Karl Precoda dei Dream Syndicate. L’album è caratterizzato da arrangiamenti minimi, per lo più acustici, e mantiene costantemente una sensazione cupa e desolata. L’elenco andava da “I’ll Keep It With Mine” di Dylan a “Flying On The Ground Is Wrong” di Neil Young, dalla “Sloop John B.” di “Pet Sounds” a “I’ll Be Your Mirror” dei Velvet Underground. Mentre Quercio e Roback si assicuravano le parti vocali, sono Susanna Hoffs e Kendra Smith a rubare la scena. L’interpretazione di “I’ll Be Your Mirror” è semplicemente stupefacente e, altrettanto sorprendente, la versione di “Holocaust” di Alex Chilton, il suo fraseggio languido e mesto cattura completamente la disperazione senza limiti dell’originale. La musica della loro adolescenza che sembrava così piena di possibilità, all’inizio degli anni ottanta era diventata più annerita, più introversa. Vivevano un periodo di profonda depressione, nel mezzo della corsa agli armamenti e dell’economia stagnante. C’era il desiderio di riportare tutto a casa, seppure in un ottimismo imbrattato dalla disperazione e dalla buia realtà. È come se cercassero di rifondare lo spirito del punk in termini musicali più dilatati. Questa fusione tra la teatralità tagliente del punk e la sensibilità melodica del folk degli anni sessanta fu essenziale per liberare il potere dell’influenza duratura del Paisley Underground. Tutto era permeato dell’innocenza e della meraviglia che mancava nella desolazione e nella negatività dell’underground d’allora. Sembrava una sorta di nuova cospirazione. Nessuna disamina su “Rainy Day” sarebbe completa senza raccontare David Roback. Un uomo oscuro, complicato, introverso che merita ogni centimetro di credito. Nel 1983 stava per registrare il primo, già citato, album dei Rain Parade, ma aveva del tempo libero, e nel piccolo studio di Venice lavorò a costruire le tracce che alla fine sarebbero diventate “Rainy Day”. Lo stile di lavoro di Roback era quello di un genio, di un rigido fanatico del lavoro. Una persona silenziosa e reticente a disagio nell’approccio dozzinale come nel rilasciare un’intervista. Nulla doveva offuscare la musica. Un maniaco del controllo. Will Glenn, tastierista e violinista dei Rain Parade fu costretto a cambiare il suo nome in Will Cooper prima che Roback lo assumesse per i successivi Mazzy Star così da celare la sua precedente identità musicale. Il nome di Michael Quercio dei Three O’Clock, inizialmente, fu tagliato nelle note di copertina, ma dietro questi atteggiamenti intenzionalmente duri e criptici, si nascondeva una sorta di stoicismo dell’immagine, il rovescio della medaglia indispensabile per suggellare quella creatività. Aveva tutte le qualità di un grande artista: perennemente insoddisfatto perché bramava così tanto la perfezione da restare creativamente paralizzato. Raggiungere lo status di leggenda spesso richiede una complessa personalità: Syd Barrett, Brian Wilson, Skip Spence. Il distacco rende tutto più comunicativo, crea un vuoto ansiosamente riempito da una pletora di appassionati che si fermano su ogni sospiro ansimante, su ogni frase incerta o mai registrata, accumulando tutto come un tesoro perduto. Così funziona con “Rainy Day”.
L’album fu pubblicato per la prima volta nel 1984 sull’etichetta Enigma. Fu ristampato nel 1989 da Rough Trade, ma finì, presto, fuori catalogo. Oggi rimane uno dei classici perduti della sua epoca, una pietra preziosa difficile da trovare che diventa più ricercata ogni anno che passa.
DANNY & DUSTY
“Took a ride on the 505
Woke up in Fresno, serious dive
Shes got one eye the way talking dirty
That’s nice”
(Song for the Dreamers – Danny & Dusty)
Se “Rainy Day” era una collezione ragionata di canzoni, “The Lost Weekend” (1985) dei Danny & Dusty, era un album di country rock spontaneamente concepito da una coppia di amici di Los Angeles che amavano la musica tanto quanto guardare lo sport in televisione. E bevevano. Tanto. Al punto che intitolarono il loro sforzo congiunto come il film di Billy Wilder con Ray Milland che raccontava le agonie dell’alcolismo. E quelle canzoni nacquero seguendo il Monday Night di football e le World Series di baseball. Prendevano un sacco di birra e provavano. Come ricorda Wynn: “Lo lasciavo a cuocere a fuoco lento con uno dei miei versi e quando tornavo a casa, Danny era sulla mia segreteria telefonica e urlava ‘Dusty, ascolta questo!’”. Il poco felice periodo delle registrazioni con Sandy Pearlman per l’album “Medicine Show”, quello che Wynn chiamava “il mio ergastolo a San Francisco”, furono la ragione dietro la direzione di “The Lost Weekend”. Voleva solo divertirsi. Susie Wrenn, allora fidanzata con Stuart, stava mettendo su una compilation di gruppi di Los Angeles per la Zippo “Don’t Shoot”, chiese una traccia ai Danny & Dusty che per lei scrissero “Bend In The Road” e la registrarono con un gruppo di amici. La backing band era una allstar del Paisley composta da Sid Griffin, Stephen McCarthy e Tom Stevens dei Long Ryders, Chris Cacavas dei Green On Red e dal batterista dei Dream Syndicate, Dennis Duck. Gli stessi che si riunirono l’anno successivo per registrare “The Lost Weekend”. Erano tutti appassionati di cosmic american music come di Buffalo Springfield e Flying Burrito Brothers, ma il disco suona più clowny che cosmic, una specie di “Waylon & Willie” senza Waylon Jennings and Willie Nelson. Quell’album contiene alcune grandi canzoni, come “The Word is Out” e “Miracle Mile”, ma niente batte “Song for the Dreamers”. Con Dennis Duck che martella, Chris Cacavas che mette in loop le note del suo pianoforte e Stephen McCarthy che cuce tutto con la chitarra; ti lascia la voglia di gridare. È un inchino ai perdenti e, scorrendo l’onomastica, nel testo vengono citati il pugile Bobby Chacon, Al Capone, Fidel Castro, Jackie Kennedy, l’attore Fred Gwynne, Count Basie, Jim Thompson e i giocatori di baseball, Ryne Duren e Ryan Sandberg. Le session si tennero in due giorni al Control Center nella parte coreana di Los Angeles. Un piccolo buco nella zona più squallida della città, difficile da trovare, nascosto dietro un supermercato. Un tugurio, dai soffitti bassi e rivestito di stucco, di proprietà di un surfista di nome Rick Novak. Rick passò una settimana a lavorare su quel disco e dopo aver finito disse: “Devo allontanarmi da questa merda”. Fece le valigie e se ne andò a fare surf. Mesi dopo, uscendo dall’acqua su una spiaggia abbandonata, sentì le note di “The Lost Weekend” provenire dallo stereo di un’auto. Seguirono una manciata di spettacoli dal vivo, al Music Machine e al Club Lingerie di Hollywood, e l’uscita del disco su A&M. Anche il Paisley aveva i suoi “Basement Tapes”.
DREAM SYNDICATE
“Yeah you say it’s a waste
Oh not to learn from the States
Yeah it’s really a shame
Oh and the stars that you show
Yeah might as well gives to show
Oh and it’s nothing to me”
(Tell Me When It’s Over – Dream Syndicate)
Uno degli album più oscuramente brillanti della scena Paisley, “The Days of Wine and Roses” dei Dream Syndicate, su Slash, (1982, Steve Wynn chitarra e voce, Karl Precoda chitarra, Kendra Smith basso e voce, Dennis Duck batteria), dimora nella feconda e fin troppo raramente esplorata intersezione tra il lato più oscuro del rock psichedelico dei tardi anni sessanta e le atmosfere cupe del primo post punk. Attingendo a influenze diverse fra loro come Byrds, Television, Velvet Underground, Joy Division e Moby Grape, l’incarnazione originale dei Syndicate era fuori dal tempo; come tale, il loro debutto, pieno del suggestivo lavoro della chitarra di Karl Precoda, intriso di feedback, accoppiato alla voce impassibile di Steve Wynn, era in netto contrasto con l’approccio pesantemente sintetico che molte band stavano adottando in quel periodo.L’album si apre con “Tell Me When It’s Over”, un brano allegorico di tenebroso jangle pop con un magnifico gioco di chitarre e un’interpretazione vocale da giovane Lou Reed dello stesso Wynn, “And I really don’t know/’Cause I don’t wanna know/Yeah, tell me when it’s over/Tell me when it’s over/Oh, let me know when it’s done”. “Definitely Clean” ha un ritmo costante, chitarre perfette e una voce al contempo grave e giocosa. “I’m just standing here waiting/For you to come clean/I’m just standing here waiting/For you to come clean/I’d ask you what you want/But I don’t think you’d know what I mean”. “That’s What You Always Say” fin dall’inizio, ti cattura. Amo quella linea di basso, ne amo la cadenza, amo quando entrano le chitarre. È una canzone semplicemente perfetta con qualcosa di umoristico nel testo, “I try to sit and talk with you/But you know how our moods change all the time/I try to wait a week or two/But by then I’ll probably change my mind”. “Halloween”, scritta da Precoda, è la festa, il modo con il quale voci rilassate si combinano con chitarre squillanti, creando un’atmosfera piacevolmente fredda e insolita, è unico. E poi, a circa tre minuti dall’inizio, quella meravigliosa metamorfosi, tutto cambia registro: “And you’re gonna be mine/On Halloween/He says you should not believe the things in papers/The they can’t come true/And don’t believe the things that you see on TV/’Cause they’ll never happen to you/No, no, not on Halloween”. In “Too Little, Too Late” troviamo Kendra Smith alla voce. Avrebbe lasciato il gruppo l’anno successivo. La tentacolare title track chiude l’album, un’epopea in stile White Light / White Heat che offre a Precoda spazio in abbondanza per espandersi e estrarre suoni sorprendenti, “The priest from the parish is looking for persuasion/The man with the notepad wants verification/Somebody says this was my creation/Everybody says I don’t care, no, I don’t care”. La neo psichedelia non è mai stata migliore di questa, “The Days of Wine and Roses” è uno degli album veramente essenziali dei Paisley Underground.Anche se “The Days of Wine and Roses” era una lettera d’amore buia e imbevuta di feedback ai Velvet Underground e ai Television, catapultò rapidamente il gruppo in prima linea nella scena di Los Angeles solo nove mesi dopo la loro istituzione. Come ricorda Steve Wynn, “È stata una cosa improvvisa. In qualche modo era tutto molto strano e incasinato”. All’indomani del loro primo disco, come detto, Kendra Smith se ne andò per unirsi a David Roback nel progetto “Rainy Day” e fu sostituita da David Provost. Inoltre, firmarono per la A&M e si misero al lavoro con l’ex produttore di Blue Oyster Cult, Dictators e Clash, Sandy Pearlman, su quello che sarebbe divenuto il loro disco più divisivo e incompreso: “Medicine Show” (1984, Steve Wynn voce e chitarra, Karl Precoda chitarra, Dave Provost basso, Dennis Duck batteria). Il disco fu accusato di essere una sorta di sellout per l’A&M, ma laddove è di sicuro più raffinato del debutto, è tutt’altro che un progetto che punti esclusivamente al successo mainstream. “Medicine Show” cattura una giovane band che scopre irrevocabilmente la sua strada, quella di maturi songwriter. Wynn aveva scritto un sacco di canzoni prima di “The Days of Wine and Roses”, ma la narrazione, la dimensione più ampia, cioè prendere un momento congelato nel tempo, ecco, tutto è iniziato in questo disco. La band stava affrontando la sua ascesa fulminea, la sfiducia, la paura di sbagliare, ebbene, molto di questo si sente nelle canzoni, nel suono. Secondo tutti i racconti, Pearlman li torchiò duramente, richiedendo una registrazione dopo l’altra fino a quando le esecuzioni non raggiunsero uno stato grezzo di onestà emotiva, un approccio che sarebbe servito al contenuto oscuro e a volte violento dei testi di Wynn. La formidabile apertura dell’album, “Still Holding on You”, ha un’atmosfera vagamente simile a “Tell Me When It’s Over” dell’album di debutto, stabilisce il tono per l’intero lavoro con il suo racconto di perdita incolmabile e disperazione. Rappresentano il benchmark di due dischi pressoché perfetti. Mentre i Syndicate stavano ancora evocando i fantasmi dei Velvet Underground, si scopre una ritrovata sicurezza e un suono più libero che conferisce alle canzoni una sensibilità più roots che ricorda il Neil Young elettrico. “Medicine Show” si conclude con due epopee: “John Coltrane Stereo Blues” e la stupefacente “Merrittville” che Wynn ha sempre descritto come “la sua versione del Libro di Giobbe in otto minuti”. Un’apoteosi in stile Crazy Horse e un inebriante promemoria di quanto questo disco sia stato incompreso e criminalmente sottovalutato. Karl Precoda voleva un disco di rock circolare per giustificare il passaggio a una major e la pletora di attenzioni che avevamo ricevuto. Steve Wynn un beautiful loser, una catarsi nella tradizione di “Third” dei Big Star, “Tonight’s the Night” e “Plastic Ono Band”. Penso sia stata questa improbabile collisione di desideri e personalità a consegnare a “Medicine Show” il suo straordinario carattere.
RAIN PARADE
“Look at Merri, she goes round and round
That’s just life, it’s down, it’s up
The sun was up, but it was dark for me
And it’s dark for you”
(Look at Merri – Rain Parade)
Uno degli album definitivi del Paisley Underground è “Emergency Third Rail Power Trip” dei Rain Parade, su Restless, (1983, David Roback voce e chitarra, Matt Piucci voce e chitarra, Steven Roback voce e basso, Will Glenn tastiere, Eddie Kalwa batteria). È una gemma duratura della neo psichedelia post anni sessanta. Pur prendendo ispirazione dal jangle pop degli anni sessanta dei Byrds e dalle trame psichedeliche più oscure di gruppi come Love e Pink Floyd, il debutto dei Rain Parade è più di un semplice omaggio a questi padri fondatori; anzi “Emergency Third Rail Power Trip” è pervaso da uno spirito di ispirata rivisitazione. Guidati dai fratelli Roback e Matt Piucci, i Rain Parade integrano con successo il gorgheggio delle Rickenbacker del loro primo singolo, “What She’s Done to Your Mind”, con l’oscura foschia di canzoni come “Look at Merri”, che sembra un modello futuro per gruppi come gli Spiritualized. I suoni pop senza tempo di “I Look Around”, “This Can’t Be Today” e “What She’s Done to Your Mind” sarebbero stati punti fermi in un qualsiasi disco di epopee precedenti. “Saturday’s Asylum”, “1 Hour ½ Ago” e la gloriosamente sballata “Kaleidoscope” si tuffano nelle liquide profondità delle loro personalità, ma, non c’è revival, tutto è irresistibilmente naturale. Anche “Look Both Ways”, un folk rock sfacciatamente garage si scrolla di dosso qualsiasi muffa e punta direttamente al sodo.L’abbandono di David Roback per formare gli Opal con Kendra Smith fu molto doloroso; come ricorda lui stesso: “Suonare nei Rain Parade era diventato una seccatura. Dovevo solamente andarmene e fare altro. Musicalmente non funzionavamo più”. Qualunque sia stata la ragione, l’uscita lasciò i suoi ex compagni, incluso suo fratello Steven, attoniti di fronte a un bivio creativo. Decisero di procedere come un quartetto e registrarono l’EP “Explosions in the Glass Palace” (1984), su Enigma, che, pur mancando del tocco sottile di Roback, mostra una maggiore propensione ad adottare un approccio più tradizionale alla struttura delle canzoni. Questo accostamento più minimalista, si muove nei territori power pop di una “Blue” che sembra evocare il fantasma di Chris Bell mentre “Prisoners” è un magnifico mash-up tra i primi e i più tardi Pink Floyd. Firmarono con la Island, una mossa, forse mal calcolata, che li avrebbe portati allo scioglimento solo due anni dopo. “Crashing Dream” (1985, Matt Piucci voce e chitarra, Steven Roback voce e basso, Will Glenn tastiere, Mark Marcum batteria, John Thoman chitarra e voce) rappresenta un insolito epitaffio per la band; alcuni lo vedono come la fuga dei Rain Parade dal ghetto del revival psichedelico, mentre, altri come un esempio di quanto accade quando una major prende il controllo del processo creativo. Analizzato senza pregiudizi, “Crashing Dream” è un buon disco, a tratti brillante. “Depending on You” suggerisce il taglio dai legami con la psichedelia nebbiosa del debutto. La produzione raffinata e il ricorso ai sintetizzatori scioccano inizialmente, ma non appena la voce e la chitarra si scoprono, la canzone comincia a prendere forma. “My Secret Country”, si muove in una direzione più country rock, suonando non dissimile dai brani dei Long Ryders, ma il suo impatto emotivo è rovinato da un bridge tortuoso e da una produzione che toglie alla canzone molto della sua aggressività.
BANGLES
“You were so amused when I made myself available
You had to ask if it was all intentional.
Well, something’s goin’ on (on and on)
Something’s goin’ on (goin’ on and on)
I am finding out all about you”
(All About You – Bangles)
Le Bangles si formarono a Los Angeles nel 1981 con la denominazione Bangs, intorno alle due sorelle Vicki e Debbi Peterson, alle quali si unirono Susanna Hoffs e Annette Zilinskas. Ribattezzatesi Bangles, il quartetto di Los Angeles pubblicò un EP di 5 canzoni intitolato rappresentativamente “Bangles” (1982). Il suono oscillava tra un orecchiabile pop rock, influenze sixties e chitarre folk. Dopo l’uscita di questo EP, la Zilinskas lasciò la band e fu sostituita dall’ex Runaways, Michael Steele. La Columbia le mise sotto contratto e pubblicò il loro primo album “All Over the Place” (1984, Susanna Hoffs voce e chitarra, Vicki Peterson voce e chitarra, Michael Steele basso, Debbi Peterson voce e batteria).Susanna Hoffs presta la voce a quattro canzoni. “Hero Takes A Fall” è rivestito da cori ammalianti a metà strada tra il revival sessanta e timidi accenni di psichedelia. Lo spirito dell’epoca si rivela nell’orecchiabile “James”, un brano pieno di leggerezza e di tinte beatlesiane, il basso di Michael Steele ruggisce sul mid-tempo di “He’s Got A Secret”, con occasionali riff e una sezione ritmica che porta a un tocco più groovy, così come su “Dover Beach”. Debbi Peterson canta in “Live”, una cover dei Merry-Go-Round, scritta dal grande Emitt Rhodes, abbastanza fedele all’originale. Un’altra cover, “Going Down To Liverpool”, l’originale è di Kimberley Rew per i suoi Katrina and the Waves, si destreggia tra la new wave inglese e un refrain piacevolmente ben impresso nei ricordi, “I’m going down to Liverpool to do nothing/All the days of my life”. A Vicki Peterson tre canzoni. La gioiosa “All About You”, “Restless”, dove la voce, tra chitarre più affilate, si tinge leggermente di malinconia, il garage rock di “Silent Treatment”, la ritmica rimbalzante di “Tell Me” e la ballata “More Than Meets The Eye” chiudono il disco. Fu il successivo “Different Light” (1986) il punto di svolta per le Bangles. Stessa line up del precedente, era la progressione logica dell’estetica di band del periodo come per le quasi gemelle Go-Go’s: una girl band che brandisce chitarre e ritornelli mozzafiato.
L’album si apre con “Manic Monday”, scritta da Prince con lo pseudonimo Christopher, che arrivò al secondo posto nelle classifiche statunitensi. Il primo posto arrivò con il singolo successivo la zuccherosa “Walk Like An Egyptian”, scritta da Liam Sternberg, dall’intro caratterizzato da un gong che si perde in una raggiera di percussioni e una batteria trascinante. Il testo è quasi indecifrabile: “The blonde waitresses take their trays/They spin around and they cross the floor/They’ve got the moves (oh whey oh)/You drop your drink, then they bring you more”. Nel complesso, il disco regge bene. Gemme sepolte come il malinconico romanticismo di “Return Post” e la cover di “September Gurls” dei Big Star fanno sì che valga la pena scavare oltre “Manic Monday” e “Walk Like An Egyptian” e ciò vale anche i singoli di minor successo come “If She Knew What She Wants”, probabilmente il miglior brano dell’album e “Walking Down Your Street”. La voce di Vicki Peterson su “Angels Don’t Fall In Love” e quella di Michael Steele sul country rock di “Following” sono ragioni sufficienti per ascoltare il disco fino alla fine. Trentanove minuti di power pop, l’eccellenza di un girl group con splendidi riff e raffinate armonie.
THREE O’CLOCK
“Oh, you’ll discover a sound, a street, a town
We could hang around
But will it be tomorrow?
And if the scenes that we have found
They turn your head around
We will stay tomorrow”
(Tomorrow – Three O’Clock)
Michael Quercio, una delle figure cardine del Paisley Underground, esordì come leader dei Salvation Army, una punk garage sixties band che sarebbe poi diventata i Three O’Clock. Ma “The Salvation Army” (1982, Michael Quercio voce e basso, Troy Howell batteria, Louis Gregg Gutierrez chitarra e tastiere) vi sorprenderà per un suono molto più scuro e grintoso e per essere uno dei documenti più vividi dei primi giorni del Paisley. Le iniziali session di registrazione furono effettuate con la label dei Minutemen, la New Alliance, e produssero l’eccellente singolo d’esordio “Happen Happens / Mind Gardens” (1981). Questa prima versione di “Mind Gardens” è costruita intorno a una progressione di matrice punk e a una voce stranamente rabbiosa di Quercio, ben diversa dalla versione di “The Salvation Army” sotto tutto quel riverbero jingle jangle delle chitarre. Ottennero la loro prima vera esposizione mediatica allo show radiofonico di Rodney Bingenheimer, Rodney on the Roq, che li portò a assicurarsi un contratto con la Frontier e alla pubblicazione del loro omonimo album di debutto. Tuttavia “The Salvation Army” rimane una rara istantanea delle radici della scena di Los Angeles e la cover di “Going Home” della Great Society di Grace Slick con quel giro di chitarra è magnifica. Nondimeno, quando il vero Esercito della Salvezza minacciò un’azione legale per l’appropriazione del nome da parte della band, Michael Quercio e compagni decisero di ribattezzarsi con il più rassicurante Three O’Clock, l’ora del giorno nella quale si incontravano per provare. Nello stesso periodo, entrarono in formazione l’ex Weirdos Danny Benair, alla batteria, e l’ex tastierista dei Great Buildings, Mike Mariano, che contribuirono a creare quel sixties pop con influenze garage e folk rock che presto divenne il loro marchio di fabbrica.
Sulla scia di questi cambiamenti, la band, insieme all’ex chitarrista degli Sparks Earle Mankey alla cabina di produzione, iniziò a registrare i brani che avrebbero composto la loro prima uscita come Three O’Clock: “Baroque Hoedown” (1983, Michael Quercio basso e voce, Louis Gregg Gutierrez chitarra e voce, Mike Mariano tastiere, Danny Benair batteria) che si dimostrò essere un significativo passo avanti nella fusione tra sixties pop e new wave. “With a Cantaloupe Girlfriend” è una beatitudine jangle pop spinta dalla timida voce di Quercio e dall’energica batteria di Benair. “I Go Wild” cattura la pura euforia nel cuore dell’esperienza psichedelica mentre la cover della “Sorry” degli australiani Easybeats spicca sul resto. Con il suono balbuziente della chitarra di Louis Gutierrez e la voce infantile, ma insolente di Quercio, il gruppo compie la più rara delle imprese, migliorare una gemma garage rock della metà degli anni sessanta.
Dopo aver pubblicato “Baroque Hoedown”, i Three O’Clock rientrarono immediatamente in studio, ancora una volta con Mankey al timone, per registrare “Sixteen Tambourines” (1983), un album che continua l’evoluzione verso un suono più luccicante, jangly e tecnicamente compiuto, ma lo fa a spese dell’aggressività punk che era sempre stata implicita nel loro suono. “Jet Fighter” è una gemma che fece guadagnare risonanza anche al di fuori dei confini californiani, ma il brano culminante di “Sixteen Tambourines” è “Fall to the Ground”, una canzone mesta e smaccatamente beatlesiana che ritrova la band in un contesto più barocco, che ne indica chiaramente la crescita in fase compositiva. Un anno dopo aver pubblicato “Sixteen Tambourines”, i Three O’Clock lasciarono la Frontier per firmare con l’I.R.S., una mossa, al tempo, logica, ma che non mantenne le sue promesse, poiché l’etichetta di Miles Copeland era più interessata a ripercorrere il successo di “Jet Fighter” piuttosto che fornire il tipo di supporto e sostegno finanziario che avrebbe reso possibile far evolvere il loro suono verso nuove direzioni. “Arrive Without Travelling” (1985) il primo lavoro per l’I.R.S. non è così deliziosamente tortuoso come il suo predecessore, ma contiene materiale sufficientemente spensierato, “Her Head’s Revolving” e “Simon in the Park” per confermare la loro natura di Paisley popster. Il successivo “Ever After” (1986) con Steven Altenberg al posto di Gutierrez non presenta grandi cambiamenti, ma suona relativamente debole. La produzione enfatizza troppo le tastiere di Mike Mariano e il tutto, in retrospettiva, suona estremamente datato. Il singolo “Suzie’s on the Ball Now” seppellisce una buona canzone sotto una cattiva produzione. Più inquietamente il songwriting di Quercio non è all’altezza dei suoi precedenti lavori. Le melodie sono poco vivaci e i testi mancano della sua spontaneità. Si salvano la toccante chiusura di “Songs and Gentle Words” e la deliziosa “The Penny Girls”. In definitiva “Ever After” resta un album mediocre, una delusione per i loro fan di vecchia data.
GREEN ON RED
“I worked so hard for 40 years
I told myself I had nothing to fear
Then one by one they got shot down
The youngest one held a gun to his ear”
(16 Ways – Green on Red)
Con radici nella scena di Tucson della fine degli anni settanta e dei primi anni ottanta, la stessa che produsse i Naked Prey di Van Christian e i Giant Sand di Howie Gelb, i Green on Red partirono per i più fertili pascoli musicali di Los Angeles, trasferendosi nel 1981 e giocarono un ruolo strumentale nel solidificare la scena Paisley. Il loro appartamento di Hollywood divenne il luogo di ritrovo per barbecue settimanali ai quali partecipavano regolarmente membri di band come Dream Syndicate e Rain Parade. Come ricorda lo stesso Steve Wynn: “Ogni domenica, ci riunivamo per un barbecue, portavamo tonnellate di alcol, hamburger, ci sedevamo e suonavamo. È anche così che si cementarono le nostre amicizie, non nei club o negli studi di registrazione”. “Gravity Talks”, su Slash, (1983, Dan Stuart voce e chitarra, Chris Cacavas organo e chitarra, Jack Waterson basso, Alex McNicol batteria) fu il primo album, uscito giusto dopo la pubblicazione di due EP: “Two Bibles” (1981) e “Green on Red” (1982) per la Down There di Steve Wynn. I segni delle origini country roots sono sparsi ovunque nel disco, ma i contributi in stile Manzarek di Chris Cacavas all’organo elettrico conferiscono all’album il suo caratteristico carattere neo psichedelico. I vocalizzi lamentosi di Dan Stuart, con le sue sfumature younghiane, giustapposti alle evanescenze psichedeliche dell’album, danno alle canzoni un’autenticità garage rock. Presi così, anche solo per un istante, i Green on Red su “Gravity Talks” sono semplicemente perfetti; eccentrici, sgarbati e crudeli. Tracce come “Deliverance” e “Cheap Wine” possiedono una fantastica intensità sonora, sostenuta da un organo che sembra sul punto di prendere fuoco da un momento all’altro. I testi sposano la cruda responsabilità adolescenziale con una spavalderia da hobo. Tutti i brani brillano come frastagliati frammenti di vetro, ognuno colorato con quel genere di particolari surreali e autobiografici che costituiscono il pezzo forte di Bob Dylan. Nell’inquietante “Blue Parade”, Stuart ricorda la sua giovinezza mediante traumatici dettagli allucinatori: “When Chris was 19 his dad died/ They found him lying in his room/ He was stretched toward his freedom/ Just like a jailed man turned loose”. La title track, con un irresistibile giro d’organo, presenta Stuart al suo meglio, moccioso e quanto di più simile a un giovane Jagger. Il risultato finale è un radioso, ingannevole catorcio che ti molla a metà percorso sulla strada per Tulsa.
Proprio come i loro amici Dream Syndicate, i Green on Red esaurirono quasi subito tutte le loro influenze neo psichedeliche e “Gas Food Lodging”, per Enigma, (1985, Dan Stuart voce e chitarra, Chuck Prophet chitarra, Chris Cacavas tastiere e chitarra, Jack Waterson basso, Alex McNicol batteria) trovò Dan Stuart e compagni a virare verso un roots rock con influenze country che bene si adattava ai temi che Stuart aveva iniziato a esplorare nei suoi testi.
L’apertura di “That’s What Dreams” è un duro, ma commovente racconto di un lavoratore che lotta per mantenere la sua dignità, “Staring in the eyes of the preacher who sold me down the river/Well I got too much faith for him to deliver/Guess I’ll just be poor for the rest of my life/It’s better than giving up the fight”, un feroce sguardo sulle crepe della psiche americana durante gli anni di Reagan. L’America di Dan Stuart è popolata da ubriachi, perdenti, vagabondi e psicopatici, ma c’è una genuina compassione nei suoi ritratti di anime perse: “They call me the drifter/I kill from town to town/Ain’t no way of getting closer/han the way I’ve found” e Chuck Prophet alla chitarra e Chris Cacavas all’organo creano quella dimensione evocativa che aggiunge profondità e dettagli alla sporca visione di Stuart. C’è un peso emotivo e un tono di verità in questo materiale e mentre la chiusura con “We Shall Overcome” potrebbe sembrare una scelta ovvia, attraverso la sanguigna sincerità di questa band, tutto funziona e diventa autenticamente commovente. Uncut li descrisse come “esploratori di nuovi sentieri tra l’outlaw country dei primi anni settanta e la no depression dei primi anni novanta”. Possiamo trovarvi echi di Doors, Dylan, Rolling Stones e Creedence, tuttavia, l’influenza che incombe maggiormente è quella di Neil Young. La voce di Dan Stuart è ringhiosa, sguaiata e strascicata, vive l’eccitazione di ogni singola canzone. Il twang della chitarra di Chuck Prophet decora ogni brano come una lastra d’oro su un mobile antico. E i loro vagabondi, ubriaconi e perdenti fanno luce sulla tragedia della Reaganomics. È l’America di Sam Peckinpah, John Ford, John Steinbeck e James Cain, cinematografica e in cinemascope. È un blue collar deprivato della retorica pomposità di Springsteen, il nuovo “Rust Never Sleeps”: la malinconia di un jeans sporco e sudato che non aveva un odore così dolce da anni.
LONG RYDERS
“You write them a check and you then add zero
In a world of love where they burn like Nero
You write them a check and you then add zero
Looking For Lewis And Clark”
(Looking For Lewis And Clark – Long Ryders)
Mentre agli Uncle Tupelo viene comunemente attribuito il merito di aver guidato l’ascesa del movimento no depression che fiorì negli anni novanta, le origini possono essere fatte risalire alle band cow punk di Los Angeles che abitavano i margini della scena Paisley durante i primi anni ottanta. Band come Tex and The Horseheads, Blood on the Saddle, Beat Farmers, Rank and File e molti altri aiutarono a anticipare la fusione di country e punk che avrebbe profondamente formato Uncle Tupelo, Wilco e Whiskeytown; tuttavia, nessun gruppo fu più influente e talentuoso dei Long Ryders che integrarono Gram Parsons, Byrds e Buffalo Springfield in un suono più garage, più folk rock. L’embrione dei Long Ryders è riconducibile agli Unclaimed, la sixties garage band di Los Angeles militarmente retrò, guidata da Shelley Ganz, alla quale Sid Griffin si era unito nel 1978 dopo essersi stancato della nascente scena punk. Malgrado ciò, Griffin si sentì presto intrappolato dalla riluttanza della band ad ampliare la propria estetica mid sixties e di conseguenza se ne andò alla fine del 1981 per formare il nucleo di ciò che si sarebbe rapidamente evoluto in Long Ryders. Fatalmente, la formazione del gruppo coincise con l’inizio del revival Paisley Underground. Ricorda Sid Griffin: “C’era un’enorme complicità, un pathos condiviso in quei giorni. I Long Ryders hanno sempre guardato le cose da una prospettiva socialista. Condividevamo gli amplificatori, le chitarre. Steve Wynn aveva pubblicato il primo EP dei Green on Red, io lavoravo al merchandising per diverse band, Matt Piucci era diventato una specie di roadie se avevi bisogno di aiuto”. Il loro EP di debutto, “10-5-60” su PVC (1983 Sid Griffin chitarra e voce, Steve McCarthy chitarra e steel, Des Brewer basso, Greg Sowders batteria), prodotto da Earl Mankey, consolidò quel sound byrdsiano periodo “Sweetheart of the Rodeo” che divenne il loro punto di forza. Iniziando con lo stellare jingle jangle di “Join My Gang” e con la rauca title track, uno sporco garage rock recuperato dal periodo con gli Unclaimed.
Dopo l’uscita di “10-5-60”, il bassista, Des Brewer, abbandonò la nave per riprendere la sua carriera da scaricatore di porto e alla band si unì Tom Stevens che all’epoca lavorava in un negozio di dischi. Dopo aver firmato per la Frontier, i Long Ryders entrarono in studio con il produttore Henry Lewy, che aveva lavorato nei primi due album dei Flying Burrito Brothers, e il risultato fu il loro primo disco: “Native Sons” (1984, Sid Griffin chitarra e voce, Steve McCarthy chitarra, steel e tastiere, Tom Stevens basso, Greg Sowders batteria) che rappresenta un passo oltre l’approccio didascalico di “10-5-60” verso qualcosa che si avvicinasse alla cosmic american music. Tom Stevens ricorda: “Fin dall’inizio, i Long Ryders erano tutto un ibrido di puri stili americani, sia folk rock che country rock. Il tutto distillato attraverso un abile songwriting che ibridava nuovi stili con forme più classiche, non solo Byrds quindi, ma Chocolate Watchband, Buck Owens e Merle Haggard”. “Final Wild Son” è un aggiornamento in epoca Paisley di “Highway 61 Revisited”, “Wreck of the 809″, una versione psicologica dei R.E.M., il singolo “I Had a Dream” gioca spalla a spalla con le formidabili canzoni di Gene Clark e traccia un modello sonoro che avrebbe tenuto impegnato Jeff Tweedy per buona parte della successiva decade. Lo stesso Gene Clark canta con Griffin, che diventerà poi suo biografo, in “Ivory Tower”. Ricorda sempre Tom Stevens: “La porta dello studio si aprì e entrò l’uomo, Gene Clark. L’aspetto era affaticato, ma sempre sorridente, alto, scolpito nel fisico come un pellerossa, con una profonda dignità in tutto quello che faceva. Anche se ero entrato nella band da pochi mesi e tutto era nuovo, non scorderò mai quel giorno”.
“Native Sons” è il loro capolavoro. L’album successivo, il loro debutto su Island, “State of Our Union” (1985), stessa line up Griffin, McCarthy, Stevens e Sowders, sebbene contenga canzoni straordinarie, a volte soffre al confronto con “Native Sons” a causa di una produzione troppo levigata. L’album inizia con il classico “Looking for Lewis and Clark”, lo scricchiolante inno politico che fora da parte a parte l’America di Reagan: “I thought I saw some diplomat hawking secret plans in the park/I thought I saw my President walking through Harlem late after dark/In a world of love where they burn like Nero/You write them a check and you then add zero/In a world of love where they burn like Nero/You write them a check and you then add zero/Looking For Lewis And Clark”; le esplosioni di “WDIA” e “You Just Can’t Ride The Boxcars Anymore”, il rockabilly di “Good Times Tomorrow, Hard Times Today” o il country punk di “Southside of the Story”, che cita Jack Kerouac, Neal Cassady e il fantasma di Tom Joad lungo la strada, “Jack Kerouac, yeah he’s out in the back/Neil Cassidy smiles from above/Symphony Sid is on the radio/Broadcasting out his love/But we got groovin’ in our pockets/And we got petrol in our veins/We’re drivin’ the road like old Tom Joad/Just a band, a night and two guitars”. Ti lasci eccitare dalle stilettate di mandolino delle sublimi e politicamente cariche “Capturing The Flag” e “Years Long Ago” e dagli eroi dalla vita breve in “The Golden Virgins”. “Two Kinds” è il legame più chiaro col Paisley Underground, “Here Comes That Train Again”, uno splendido jangle-pop che incarna la visione di Gram Parsons.
TRUE WEST
“Something’s going on in that bungalow
Palm trees should be swaying outside
Pink flamingos taking flight
But something’s wrong tonight”
(Hollywood Holiday – True West
Insieme a Dream Syndicate, Game Theory e Thin White Rope, i True West provenivano dalla piccola ma molto influente scena musicale di Davis, California. Russ Tolman e Gavin Blair avevano suonato con Steve Wynn e Kendra Smith nel gruppo dei Suspects, una band che funge da grado zero di tutto il Paisley Underground. I Suspects pubblicarono, nel 1979, un 45 giri, “Talking Loud” / “It’s Up to You”, un divertente esercizio di pop rock chitarristico con Kendra che cantava con la sfacciataggine di una giovane Moe Tucker. Quando lei e Wynn si trasferirono a Los Angeles, nacquero i True West. Il primo 45 giri della band fu il singolo autoprodotto “Lucifer Sam” / “Mas Reficul”, sul lato A una splendida versione della gemma dei Pink Floyd, sul lato B era la stessa canzone registrata al contrario. In seguito fu pubblicato un omonimo EP di cinque canzoni che alla fine divenne parte delle otto canzoni contenute in “Hollywood Holiday”, pubblicato nel 1983 dalla casa discografica francese New Rose. “Hollywood Holiday” (Kevin Staydohar basso, Mike Palmer basso, Frank French batteria, Joe Becker batteria, Richard McGrath chitarra, Russ Tolman chitarra, Gavin Blair voce) è un grande disco, uno dei capolavori dimenticati della scena Paisley. Sebbene la sua produzione suoni ancora, in alcuni momenti, un po’ esile, questa austerità bene si asserve all’estetica del gruppo. Oltre alla già citata “Lucifer Sam” gli originali potrebbero essere l’apice creativo dei True West. Il brusio, il ronzio intriso di feedback di “Step To The Door” porta alla paranoia galoppante di “I’m Not Here” mentre l’album inizia la sua discesa nella follia. A rompere le tenebre con barlumi di straordinaria lucentezza pop sono “And Then The Rain” e la straordinaria title track con quell’intreccio di chitarre di taglienti come filo spinato e “It’s About Time” quanto di più vicino ci sia mai stato alla decifrazione dei geroglifici chitarristici di “Venus” dei Television.
“Drifters” (1984, Kevin Staydohar basso, Steve Packenham batteria, Richard McGrath chitarra, Russ Tolman chitarra, Gavin Blair voce), pubblicato nel 1984 su PVC e prodotto da Paul Mandl, tecnico fidato di Sandy Pearlman, il primo vero album, rappresenta, in retrospettiva, un’ammirevole progressione stilistica. Sta tutto nel pezzo d’apertura, “Look Around”, che maneggia chitarre in coppia che, per gentile concessione di McGrath, hanno ancora lo stampo dei Television. La somiglianza del modo di suonare di McGrath con il lavoro di Tom Verlaine non era una novità, ma qui è offerta con crescente maturità ed equilibrio. La chitarra di McGrath che, a tratti, mi richiama anche i Feelies unita al basso di Kevin Staydohar contribuisce a approfondire l’unità ritmica della canzone, rafforzandone, al tempo stesso, la melodia, e Blair canta meravigliosamente. “Look Around” è una canzone essenziale nel percorso del rock chitarristico americano degli anni ottanta. “At Night They Speak” è superba con la crescente emotività di Blair che si fonde con la bellezza di quella chitarra mentre la batteria picchia assatanata, la voce in “Speak Easy” svetta, leggermente tagliente, “Shot You Down” è un guitar pop che ricorda molto la Hoboken degli anni ottanta, ma ne trascende lo stile. Perfetto per guidare fuori da una città dove non metterai più piede. Mentre, in “What About You” ritroviamo McGrath che esplora le qualità di Verlaine in un brano più lento e dinamico. “Hold On” è fantastica nel suo essere così Flying Nun da ricordare i Bats di Robert Scott. In “Backroad Bridge Song (What Could I Say)” il minimalismo è di Packenham mentre un riff irregolare, gli accenti dell’organo di Chris Cacavas e gli assoli di McGrath si snodano tutti intorno. E Blair dà quello che potrebbe essere il suo miglior contributo su tutto l’album. L’inno rigonfio di cori di “Morning Light” è una chiusura meravigliosa. Per un periodo, i True West sono stati sul punto di entrare nel gioco delle major. In Inghilterra furono sulla copertina dei tre grandi settimanali, fecero anche un tour di supporto ai R.E.M. tanto che finirono persino in studio proprio con Tom Verlaine in veste di produttore, ma la storia dei True West è una storia di ambizioni deluse. Dopo “Drifters” la band si sciolse anche se si riformarono poco dopo, come quartetto, senza Russ Tolman per quel “Hand Of Fate” (1986) che, nonostante l’assistenza di Matt Piucci (Rain Parade) e Chuck Prophet (Green on Red) non ebbe alcun impatto. Il disco è tutto sommato buono, ma la nostalgica cover di “Happenings Ten Years’ Time Ago” degli Yardbirds manca però della giusta energia necessaria a giustificarne lo sforzo. Russ Tolman, di contro, pubblicò su Down There il suo primo solista “Totem Poles And Glory Holes” (1986) che è perfetto nel suo songwriting rinnegato che erompe nel migliore garage rock e roots punk.
Nel destino eternamente simili ai Big Star, i True West dispersero un talento straordinario.
OPAL
“Jigsaw Jenny, motor city,
She’s a vampire, so am I
Tom cat kelly love in the alley
Electric children, over the moon
Marianna on the inside
She’s a cactus in the sun”
(Magick Power – Opal)
Non è mai stato pienamente chiarito cosa avesse portato David Roback a lasciare i Rain Parade dopo “Emergency Third Rail Power Trip”. La storia ufficiale, come già detto, è che li abbandonò per lavorare a “Rainy Day”, ma Roback e Kendra Smith finirono per unirsi, non solo artisticamente, in un nuovo gruppo, i Clay Allison. Dopo aver pubblicato il singolo “Fell from the Sun” / “All Souls”, cambiarono il nome in Opal, e pubblicarono un paio EP, “Fell from the Sun” (1984, Rough Trade) e “Northern Line” (1985, One Big Guitar) che furono poi concentrati sulla raccolta “Early Recordings” (1989 Rough Trade).
L’unico album degli Opal, “Happy Nightmare Baby” su SST (1987, David Roback chitarra, Kendra Smith basso e voce, Keith Mitchell batteria), scegliendo di esplorare il lato più oscuro della psichedelia, suona unico nel panorama del Paisley. Un perfetto esempio è l’estesa jam “Magick Power” con quel suo organo elettrico in perfetto Manzarek, i riff grezzi di Roback alimentati da un wah-wah infinito e la voce meravigliosamente distaccata di Kendra Smith che, a volte, suona quasi incorporea. Su “Rocket Machine”, Roback incarna il suo Marc Bolan interiore strutturando la canzone intorno a un riff sexy e sleale che pare portarsi dietro le parole di Kendra. Un gioiello introspettivo di un colore diverso è “She’s a Diamond” che, di tutte le canzoni di “Happy Nightmare Baby”, è la più simile al suono blues e acustico degli EP precedenti. Un capolavoro a sé stante, ambiguo e duraturo uscito quando ormai un dolce de profundis macchiato dalle tinte rosse e accese di un tramonto era già calato sui giorni del vino e delle rose.
Qualsiasi cosa sia stato il Paisley Underground in sé, probabilmente nulla in termini di reale movimento, al contrario tutto in termini di band, persone e musica, ciò che più conta è stato il Paisley Underground in me. Vent’anni, una manciata di cassette, amicizie, indimenticabili concerti e un profondo senso di appartenenza. A distanza di quasi quarant’anni credo sia così anche per quei musicisti.
C’è una canzone dei Dream Syndicate intitolata “The Best Years of My Life” che nella sua ultima strofa recita:
“You’ve given me the best years of my life
I wanna thank you
I wanna thank you
You’ve given me the best years of my life
I wanna thank you
For the best years of my life”
(The Best Years of My Life – Dream Syndicate)
Ecco, qualsiasi cosa sia realmente stato il Paisley Underground, vive ancora nei volti di quei musicisti e nei nostri, allora giovani, oggi inverosimilmente vecchi.