WeLoveRadioVarsavia – il nostro tributo.
Volevamo farci un regalo, non ricordare Battiato ma farlo vivere attraverso i dischi che in qualche maniera ci avevano segnato di più.
Nella diversità si ritrova il senso di una carriera irripetibile, anche a noi alla fine il Maestro ha insegnato “com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.
Andrea Castelli. 1972. Pollution.
“Il silenzio del rumore”. Droni. Aldous Huxley. Centro internazionale studi magnetici. Beta. “Quando gioco non rompo mai niente, la violenza non ho nella mente”. Inquinamento. Sperimentazione. 1972. Valzer. Echi di voci lontane. Centrifuga emozionale. Vuoto. Plancton. “Ti sei mai chiesto quale funzione hai?”. Stockhausen. Meditazione. VCS3. Areknames. “Io, a quale corpo appartengo?”. Kosmische Musik. Arpeggi che profumano di Oriente. Raggi laser. Limone, bullone, pietre ed erbacce. Croce, capelli afro e torso nudo. 33 giri. 33 minuti. 7 tracce. “Serbatoi di produzione”. Bla bla. Secondo album. Inquietudine. Lacrime. Tristezza. “Anche il tuo spazio è su misura”. Organo a canne. Silenzio. “Per paura di scoprire libertà che non vuoi avere”.
Luca Battaglia. 1974. Sulle Corde di Aries.
Il “freejazzpunkinglese” è esistito e lo suonava Battiato. Immortalato in un disco eccentrico (del quale il centro, in un rapporto tra figure circolari, non coincide con l’altro) dedicato al proprio segno zodiacale.
Tra gli album di Franco il siciliano, Sulle Corde di Aries è sovrano. Perché è insieme compimento di un percorso e transizione verso quello successivo e poi il successo, perché ha il sapore della giusta annata (siamo entrambi del 1973), perché la copertina dell’ellepì una volta aperta si sdoppia e ti ipnotizza, perché quando ero ragazzo i dischi della Bla Bla erano reali come gli elfi, i draghi e i troll. I titoli venivano sussurrati come preghiere di una religione estinta (Fetus, Pollution, Clic, M.elle le “Gladiator”) e attraevano come i Culti di Cthulhu: carne e fuoco per la ruota del mio pavone (quanto ero snob!).
Riduci le stelle in polvere
E non invecchierai
Mi appare in sogno Venere
Tu, padre, che ne sai?
Lontano da queste tenebre
Matura l’avvenire
Il cielo è senza nuvole
Padre, fammi partire!
La luce sul vulcano
Mi indicherà l’uscita
Al fuoco delle tenebre
Scelgo una nuova vita
Potrebbe bastare il testo di Da Oriente a Occidente, quarto e ultimo brano (davvero si può parlare di canzoni in un disco del genere?) a giustificare la scelta, Sulle Corde di Aries però è molto altro.
È il profumo dei fiori di Zagara, il suono del Nordafrica, il jazz, il punk ante litteram, la classica, il progressive, la melodia, il melodramma, le armonie e le dissonanze…non è un caso che i primi solchi prendano il titolo di Sequenze e Frequenze.
Poi c’è il monumentale componimento di Aries che tornerà spezzettato e rimasticato in tanti concerti di Francuzzo e il pezzo forse più significativo del tempo, quello che fotografa con precisione un’epoca e che i CSI da pari loro hanno rivitalizzato a “cororusso” in versione acustica: Aria di Rivoluzione.
Sono parole che resteranno con me per sempre, anche oggi che ho scoperto il valore di tante altre cose di Battiato e che ho fatto pace con i suoi dischi “famosi”.
Quell’autista in Abissinia
guidava il camion fino a tardi
e poi, a notte fonda, si riunivano.
A quel tempo in Europa
c’era un’altra guerra,
e per canzoni, solo sirene d’allarme.
Passa il tempo, sembra che non cambi niente
questa mia generazione
vuole nuovi valori.
E ho già sentito aria di rivoluzione,
ho già sentito gridare
chi andrà alla fucilazione.
Massimo Perolini. 1980. Patriots.
“Patriots” fu il mio primo album di Franco Battiato. Cosa non vera, peraltro, visto che avevo già acquistato il precedente “L’Era Del Cinghiale Bianco“. Ma quella copertina azzurra per me fu il primo, vero incontro importante con l’artista siciliano.
Un disco clamoroso nella sua totalità, la cui prima facciata era semplicemente perfetta: partiva con “Up Patriots To Arms”, titolo rigorosamente virgolettato, a sottolineare la chiamata alle armi dei raziocinanti. Si proseguiva con Venezia-Istanbul e la sua dimensione mitteleuropea che incongruamente (o forse no) centrifugava Socrate, le Camel senza filtro e le radiocronache di “Tutto il Calcio minuto per minuto“. Quindi l’oasi evocativa de Le Aquile, il cui testo rielaborava dei versi scritti dall’autrice svizzera Fleur Jaeggy, più volte collaboratrice del Maestro etneo. Ma la canzone che più di tutte mi colpì, fino a rendermi indispensabile l’ascolto compulsivo di quel Lato A, fu Prospettiva Nevski: un morbido pianoforte, un testo che evocava i grandi scrittori russi, l’epoca a cavallo della Rivoluzione, la romantica disciplina del balletto. E quella batteria che entrava improvvisamente, assieme alla salita del tono del cantato e a un finale avvolto da una splendida melodia orchestrale che sfumava troppo presto. Quello fu il momento del mio innamoramento per Franco Battiato, ed è lì che torno sempre: sono ancora un patriota nel suo mondo.
Roberto Remondino. 1981. La Voce del Padrone.
I ricordi si confondono. Controllo le date, Patriots ottobre 1980, La voce del Padrone 21 settembre 1981.
Quale ascoltammo per primo Davide ed io in quegli anni? Scoprimmo prima il Padrone e poi tornammo a Patriots oppure il contrario? Alla radio imperversavano “Centro di Gravità Permanente“, “Bandiera Bianca” e “Cuccurucucù“. Probabilmente andò così, Patriots venne recuperato in seguito. Ricordo che Davide mi chiese “anche in quello c’è un po’ di elettronica ed è altrettanto orecchiabile?” Sicuro che c’era l’elettronica ed era altrettanto orecchiabile. Li ascoltavamo di continuo, messi insieme duravano poco più di un’ora e quando ci trovavamo al pomeriggio dopo la scuola quelle cassette erano ospiti fisse sul suo compattone. Probabilmente gliele registrai io, forse da dischi che mi avevano prestato. Non avevo quegli album, li comprai in vinile qualche tempo dopo. Sono quasi certo che qualcuno me li prestò.
Davide era forse il mio miglior amico d’infanzia, abitava nella palazzina a fianco la mia, crescemmo insieme tra le figurine di Paolo Pulici e di Roberto Bettega, con i fumetti di Mister No, di Tex, di Zagor e, in misura minore, dei supereroi. Il Toro, la Juve, le magliette comprate al mercato, i giochi in cortile. Crescemmo in Borgata Parella dove finivano le case ed iniziavano i campi di grano. Le partite a calcio in strada e nei prati davanti a casa, cinque calci d’angolo un rigore, le “guerre” contro “Quelli dell’Altra Via” con le cerbottane, le biglie, le pistole giocattolo, le balestre con gli elastici. Lui terzo di tre fratelli, io secondo con una sorella più grande. Lui e i suoi fratelli appassionati di motocross, io cominciavo ad ascoltare musica e rompevo le scatole ai miei per avere uno stereo, lui un motorino.
Poi veniva l’estate e io, allergico al fieno, impazzivo per non poter giocare all’aperto. Compagni di squadra per una sola stagione. Io in porta e lui, mingherlino, a prendere botte, e darne – non si tirava certo indietro – sulla fascia destra. Mi feci male due volte a un braccio e smisi. Lui continuò per un po’. Estate Ragazzi, le prime farfalle nello stomaco…e poi.
Il mio grande amico Davide non salì su “L’arca di Noè” ma veleggiò verso Mondi Lontanissimi. Se lo portò via la leucemia, nella bellezza dei suoi sedici anni.
Ettore Craca. 1998. Gommalacca.
Battiato arriva a Gommalacca nel 1998 dopo il riconoscimento di critica e pubblico tributato al precedente “L’imboscata” che, come testimoniato dal successo de “La cura”, aveva sancito, , dopo le esplorazioni esoteriche e filosofiche di “Come un cammello in una grondaia” e “Caffe’ de la Paix”, un ritorno ad un linguaggio più diretto e popolare in cui si avvicina a formule rock che seppur di taglio classico sono limitrofe a quanto esce dalle fucine del rock indipendente italico che in quel momento preciso danno forma ad alcuni dei suoi gioielli più preziosi: Hai paura del Buio (Afterhours), Tabula Rasa Elettrificata (CSI), Lingo (Almamegretta), UST (Ustmamò), CRX (Casino Royale) Metallo non metallo (Bluvertigo).
In Gommalacca Battiato decide di immergersi mani e piedi negli “acidi” e nelle “basi” sonore che catalizzano quel momento specifico della musica italiana. Per questo passaggio chiede quindi il contributo in studio di Madaski e Ru Catania degli Africa Unite e di Morgan dei Bluvertigo i quali non chiedono di meglio che potersi “sdebitare” nei confronti di colui che evidentemente e’ stato un pioniere importante anche per lo sviluppo dei loro progetti. Al volante, oltre ai nuovi innesti, il fedelissimo fonico Pino Pinaxa Pischetola e l’ormai immancabile Manlio Sgalambro i cui testi caratterizzano nella fattispecie la seconda meta’ di “Gommalacca” riservando la prima per lo più a Battiato stesso.
L’impatto electro di Shock in my town, primo singolo e opener del disco, e’ spiazzante oltre misura soprattutto ove affiancato alle immagini del relativo videoclip con un Battiato samurai ed uno Sgalambro generale napoleonico, la ricchezza della costruzione ritmico armonica affiancata comunque ad un refrain immediatamente memorizzabile ne sancisce il successo confermato anche dall’impiego in futuri spot (Acqua Panna nella fattispecie). Autodafe’ segue a ruota con un apertura quasi sovrapponibile a quella di Matrilineare dei CSI per poi svilupparsi su binari ritmici meno frenetici in cui, tra rasoiate di chitarra e innesti elettronici la voce di Franco canta la cinica constatazione del distacco sentimentale irrecuperabile tra due persone.
L’omaggio appassionato a Maria Callas di Casta Diva riporta ad un Battiato meno inedito, nonostante le aspre frustate di basso e batteria che punteggiano i passaggi piu’ lirici segnati dal pianoforte.
Le ritmiche afro de Il Ballo del potere, secondo singolo, riagitano le acque accogliendo i contributi vocali di Ginevra di Marco (CSI) e di Andrea Pezzi nome allora notissimo per il suo ruolo Vj di MTV.
Con La preda inizia la parte del disco in cui i testi sono opera di Sgalambro (“sacre bende di sacerdoti egiziani”), ed e’ inevitabile, ascoltando la strofa, pensare al tipico cantato di Morgan in molti episodi dei Bluvertigo, in uno stimolante scambio di rimandi tra i due artisti.
Il passo marziale di Il Mantello e la Spiga, uno dei momenti piu’ riusciti dell’intero lavoro, e’ uno schiacciasassi elettrico che, rammentando a tratti la “Atlantide” di qualche anno prima, si apre all’improvviso a spazi di grande intensità lirica che si riallacciano alla successiva lenta e vagamente psichedelica E’ stato molto bello in cui Sgalambro torna a trattare uno dei suoi leit motiv: l’amore mentre l’età avanza.
Quello che fu, in gran parte recitata, appare quasi un omaggio ai CSI per restituire la sentita cover di E ti vengo a cercare su Linea Gotica e passa la mano all’acquerello Vite Parallele ponte perfetto per il maeslstrom conclusivo di E.Shakleton, otto minuti di delirio tra lugubri recitati, voci liriche in tedesco, sciabordio di ghiacci, ritmiche metalliche e sibili sinistri a raccontare la parabola sul pack antartico di Shakleton esploratore britannico che oso’ l’inosabile negli anni della prima guerra mondiale. Ed è il Battiato narratore a tornare su una costruzione evidentemente figlia del MADASKI più sperimentale quello di Distorta Diagnostica.
Con questa lunga esplorazione testuale e sonora Battiato si accomiata da questo ideale passaggio di testimone con la nuova scena rock italica colta nel suo momento di picco. L’album ottiene un riscontro di pubblico e critica (Targa Tenco) che ancora una volta conferma la forza dell’autore e del personaggio.
Nel giro di un anno, inaugurando la serie dei Fleurs, Battiato sarà già’ totalmente da un’altra parte.
Stefano Carsen. 1999. Fleurs.
La musica è testimonianza. E’ una cristallizzazione del tempo e del momento, dei sentimenti, un vaso di Pandora fatto e modellato tra le note che intrappola hic et nunc – all’improvviso e per sempre – il “vento storico”, quello che passa tra le architetture sociali e culturali che ci circondano. La bella musica concorre di certo a costruirle, quelle architetture, ma al tempo stesso è pura visione dilatata nel tempo: rêverie e predizione, accumulate in un solo luogo e attimo, quasi fosse una stringa quantistica, ma fatta solo di melodia. Unidimensione particolare. Ebbene, in certi momenti la musica non smette di essere testimonianza, ma diventa anche testamento, in un unico movimento. Questo è quanto è successo alla morte di Battiato. E, da questo punto di vista, questa “teoria e pratica del tutto” che per fortuna ci circonda, finisce – in casi del tutto eccezionali e momenti del tutto casuali – per elevarci: è substrato, un sostegno fisico-emozionale che tende ad elevare sia la nostra essenza che il nostro essere senzienti. E’ qualcosa di molto corporale, e per questo la sentiamo così intimamente essere parte di noi. E questo non può essere strano. La stranezza semmai, sarebbe il non riuscire a farsi smuovere da questi elementi. Il ‘Maestro’ – come molti ormai avevano preso a chiamarlo da anni – lo conoscevamo per essere un musicista mai banale, e parecchi scherzavano su quella sua capacità di ricercare parole e musiche mai banali, e di tentare di ‘elevare’ (nel senso attivo e pratico del termine) chiunque volesse ascoltare ciò che creava. Che è smettere di pensare al pubblico come ad una massa di babbei incapaci, dando loro qualcosa a cui poter puntare con impegno: un’idea materiale, una teoria che diventa anche pratica. La sua musica mi accompagna da molto più tempo, ma solo per ragioni anagrafiche (nel caso di Chris, che avrei incontrato solo 10 anni più tardi) e di familiarità culturale (nel caso di Ian, visto che in casa mia non andava molto quel genere di musica). A otto anni non sai ancora molto della musica, soprattutto se le persone intorno a te partono da ascolti molto più popolari e “passivi”: ma se in un pomeriggio come altri ti capita di ascoltare una musica che parte da quel substrato e vola alta nell’etere sostenuta da testi e onde emozionali, anche se hai solo otto anni tu la segui, anche solo per curiosità, anche se lo fai soprattutto perché ti ha fatto ridere sentire che l’insalata possa essere più affascinante di Beethoven e Sinatra, e l’uva passa più accattivante di Vivaldi.
La sua musica era originalità e menefreghismo: nel senso che non gli importava di fare musica che vendesse e basta, non si accontentava mai di dare al mondo ciò che voleva, ma si sforzava sempre di anteporre la sua voluttà e idea musicale a tutto quanto. A tutti quanti. Della sua musica ‘originale’ parecchio è stato scritto, e ancora di più si dirà nei mesi e negli anni a venire: legittimo e doveroso, senza ombra di dubbio. Ma forse c’è da imparare altrettanto dalle scelte musicali che, autori ricercati come lui, operano sulla rimanenza di tutta la musica esistente. “Fleurs”, nei tre capitoli che Battiato mandò alle stampe, è di certo un viaggio intimissimo e sentimentale, un percorso pieno e dettagliato di ciò che costituiva il suo ‘Io’ musicale: sono le molliche di pane di un Pollicino che, da Trènet e Aznavour del primo album, approda a versioni sperimentali di Redding e Aphrodite’s Child passando per PFM, Strauss e Paolo Conte. Mi colpirono molto le sue scelte, e i suoi gusti: non perché fossero inconsueti per uno come lui, e per quanto ci era dato conoscere delle sue composizioni originali: ma perché evidenziavano nettamente un universo di note che non definivano la musica in senso temporale, così come farebbero molti musicisti eccelsi e ancora viventi. Davano anzi una immagine della musica che annullava lo spazio-tempo per creare invece una dimensione del tutto nuova: quella della eccellenza, che è senza tempo, supera i generi e le etichette, e annulla ogni distanza tra le diverse musicalità. Non per nulla, l’indomani della pubblicazione dell’ultimo capitolo di Fleurs (il numero 2, anche qui volutamente inserito dopo il numero 3, quasi a significare una completa assenza di filo logico temporale), lo stesso Battiato ebbe a commentare:
“In un decalogo che ho stilato entrando ‘in medias res’, devo dichiarare quanto segue:
1) Ascolto solo musica classica
2) L’eccellenza annulla lo spazio temporale
3) La Tradizione musicale può arricchire il nostro presente
4) Sono un fanatico di “tecnologie”
5) Non soffro di nostalgia
6) Dietro alla scelta dei brani, ci sta un principio soggettivamente indiscutibile
7) Mi considero, in questo genere di operazioni, un interprete orchestratore
8) Resto, più che posso, fedele alla melodia e all’armonia originali, cercando di abbellirne la strumentazione
9) Credo fermamente nella qualità dei modelli musicali
10) …e nella loro varietà”
Nel mio ateismo coscientemente testardo, a quasi 48 anni ho imparato che esiste una spiritualità materiale, che non smette di accompagnarci fin tanto che abbiamo respiri da accumulare: una spiritualità che passa da persona a persona, e sopravvive a loro e anche a noi nei continui passaggi all’interno di coloro a cui le trasmettiamo. E’ ‘A-Temporale’, per quanto ci è dato di conoscerla, ed è l’unica maniera che ci è data per rimanere immortali, a noi che non scriviamo bella musica, o libri immortali, o che non scolpiamo e non dipingiamo opere di Bello rivestite. Sono le nostre parti, e le nostre azioni, e ci sopravvivono nel modo in cui una porzione di ciò che hanno fatto ad altri – colleghi, amici, persone care – passerà nelle loro azioni e si trasferirà a qualcun altro. Se capita a noi, a maggior ragione capita a persone come Franco Battiato: ciò che ha fatto è pura struttura sub-atomica ipotetica: oggetto con una sola estensione spaziale fatta di note, che tutto compone. Immortalità reale, florilegio di una esistenza che – senza i fastidiosi legacci dettati da etichette musicali, e costruzioni semantiche incastrate nello spazio\tempo – rimane libera di essere solo ciò che è. Bellezza e seduzione di note eccellenti, petalo su petalo.