Marquee Moon: l’altra faccia della luna
Quando hai vent’anni, puoi essere tutto o puoi essere nulla, puoi decidere di darti una forma, ma non puoi rimanere invischiato e non fare nulla. Trovai un polveroso vinile di “Marquee Moon” dei Television in cima a una pila di dischi tra “Owner of a Lonely Heart” degli Yes e la maggior parte della produzione degli Steely Dan. Se ne stava lì e mi sfidava. La fotografia di Robert Mapplethorpe sulla copertina non trasmetteva la rabbia che, fino a quel momento, aveva placato la mia sete. Ritraeva Tom Verlaine nell’atto di offrire l’ostia di una comunione profana, pagana, portatrice di quiete, gli altri gli stavano dietro, belli e un po’ fuori fuoco, un effetto sconcertante in sé.
I Television si erano formati nel 1973 figli prossimi di una poco longeva band: i Neon Boys. Quando si arriva a tracciare la catena di eventi avviata dai quei tre membri – Tom Verlaine alla chitarra e alla voce, Richard Hell al basso e alla voce e Billy Ficca alla batteria – si comprende subito quanto la loro importanza nel grande schema della storia della musica fosse pari alla loro genialità. Dopo aver reclutato Richard Lloyd come secondo chitarrista, i Neon Boys si ribattezzarono con un nome così semplice che avresti potuto scambiarlo per un volantino pubblicitario. Il resto è storia.
Nonostante tutta la mitologia sul punk e sull’avant-rock newyorchese, nonostante le mezze verità, le menzogne, l’importanza dei Television riveste una rilevanza basilare. Resta il fatto che, se gruppi come Fugs, Velvet Underground, New York Dolls, Suicide o Dictators possono aver gettato delle basi, furono i Television a piantare quel vessillo sulla Bowery fin da quando convinsero Hilly Kristal a farli suonare nel suo locale, il Country Bluegrass Blues and Other Music for Uplifting Gormandizers, meglio conosciuto come CBGB. Il CBGB era un bordello. C’era un vecchio bancone che andava fino ad alcuni box oscuri con fioche luci collocate sopra dei pilastri. Alle pareti annunci di concerti, mostre estive, spettacoli off-Broadway, corsi serali di method acting, letture di poesia. Pezzi di carta con scritte a matita erano appesi alle pareti col nastro adesivo e raccoglievano proposte di baratti o annunci di vendita auto. Però aveva un ottimo impianto. Presto Patti Smith Group, Ramones e Blondie ne avrebbero seguito l’esempio.
L’otto febbraio del 1977, i Television pubblicarono “Marquee Moon”, il loro album di debutto. Nick Kent definì l’album “un’opera a 24 carati di genio puro”, Vivien Goldman lo salutò come “un instant classic”. Altri dischi, col passare degli anni, sarebbero appassiti di fronte a un tale entusiasmo, ma quasi quarantacinque anni dopo, rimane una semplice consapevolezza: il punk non sarebbe stato lo stesso senza quel genio nervoso. Era la stranezza creata dal miscuglio alchemico del tradizionale e del rivoluzionario. Si raccontava che Tom Verlaine, per arrivare a quegli strani accordi, a quegli inesplicabili versi, a quella dinamica, si fosse isolato, chiuso nella sua stanza, in totale partnership con la sua chitarra. Benché tutto ciò suoni come un aneddoto, grondava un tale mistero ed esotismo che, combinato con gli avanguardismi jazzistici di Richard Lloyd, creava ciò che Garry Mulholland descrisse come “una poesia da garage band, strettamente legata alla musica rock e alla libertà estrema”.
Il primo lato di “Marquee Moon” è fantastico e, come un Humbert Humbert all’ennesima potenza, ha reso inquietanti i miei vent’anni. Ne ero ossessionato, avrei voluto consumarlo: un viaggio ultraterreno. Per qualche ragione, guardandomi indietro, immagino che le tracce dell’album siano suonate in sequenza con una pausa leggermente più lunga tra “Marquee Moon” e “Elevation”. Più ci penso e più sono convinto che la mia memoria, almeno in questo, sia attendibile. Il motivo? Beh, semplicemente il primo lato contiene i brani più importanti di un album eccezionale e quando ascoltai, per la prima volta, quella sequenza (See No Evil, Venus, Friction e Marquee Moon), ero in un tale stato confusionale che oscillavo tra estasi e disperazione, la beatitudine dell’esperienza temperata dalla consapevolezza della fine. E tutto partiva fin da quegli inconfondibili accordi di apertura di “See No Evil”, nel quale lo strepito del mio piatto agiva da gemello alle chitarre in una specie di gioco terso di ripetizioni mentre Verlaine iniziava a cantare.
What I want
I want now
And it’s a whole lot more
Than anyhow
I want to fly
Fly a fountain
I want to jump, jump, jump
Jump a mountain
I understand all, I see no
Destructive urges, I see no
It seems so perfect, I see no
I see, I see no, I see no evil
I get ideas
I get a notion
I want a nice little boat
Made out of ocean
I get your point
You’re so sharp
Getting good reactions
With your BeBo talk
I understand all, I see no
Destructive urges, I see no
It seems so perfect, I see no
I see, I see no, I see no evil
Cantava, per rubare una citazione ai Feelies, come se fosse “the boy with the perpetual nervousness”, canalizzava il tipo di nervosismo che David Byrne avrebbe voluto avere, con un’elasticità quasi gommosa, e lo faceva con quella strana sorta di disinvoltura che non avrei mai pensato si potesse accompagnare a una scrittura così instabile. Quando Verlaine annuncia di comprendere le pulsioni distruttive e autodistruttive è sublime e, al tempo stesso, grida fuori il messaggio più nichilista di tutta la Blank Generation, l’unico messaggio che abbia mai osato strisciare su e giù per la Bowery.
Don’t say unconscious
No don’t say doom.
If you got to say it
Let me leave this room
Cuz what I want
I want now
And it’s a whole lot more
Than anyhow
I understand all, I see no
Destructive urges, I see no
It seems so perfect, I see no
I see, I see no, I see no evil
I’m runnin wild with the one I love
I see no evil
I’m runnin wild with the one-eyed ones
I see no evil
Pull down the future with the one you love
Pull down the future
Quando il male si trasforma in Venere, “Venus” suona come l’ambientazione di un noir di Nicholas Ray nel centro di Manhattan. Verlaine cammina senza meta in una notte luminosa, descrivendo qualcosa di assolutamente normale e, in qualche modo, facendolo sembrare il più stupefacente viaggio mai intrapreso, un viaggio in otto tappe tra segni celesti nelle case della luna e del sole. Puoi incontrare le luci della metropoli, Broadway che appare “so medieval”, forse la sintesi più perfetta della famosa strada di New York e tutto sembra troppo bello per essere reale, ma troppo reale per essere un sogno. Il momento nel quale, per la prima volta, ho ascoltato “Venus” è stato l’istante esatto nel quale ho compreso che avrei potuto essere felice, avrei potuto trovare vera soddisfazione solo in mezzo al disordine delle strade affollate di una grande città; avevo bisogno di vedere il mondo che Verlaine mi stava descrivendo.
It was a tight toy night, streets so bright
The world was so thin between my bones and skin
There stood another person who was a little surprised
To be face to face with a world so alive
How I fell (did you feel low?)
No (huh?)
I fell right into the arms of Venus de Milo
You know it’s all like some new kind of drug
My senses are sharp and my hands are like gloves
Broadway looked so medieval
It seemed to flap, like little pages
And I fell sideways laughing
With a friend from many stages
How we felt (did you feel low?)
Not at all (huh?)
I fell right into the arms of Venus de Milo
Vagava freneticamente per una New York impressionista che esplodeva di luce, suono e tensione, cercando qualcosa che lo aiutasse a trascendere tutto ciò che riempiva i suoi sensi. Quando lo trovava, sia che si trattasse del paesaggio lunare della title track o delle braccia della Venere, si imbatteva in un altro dilemma: il fallimento dell’esperienza. Sentivo solo angoscia attraverso quei riff, assoli, giri di basso, colpi di batteria.
Suddenly my eyes went so soft and shaky
I knew there was pain but pain is not aching
Then Richie, Richie said
“Hey man, let’s dress up like cops, think of what we could do”
Something, something said “you better not”
And I fell (did you feel low?)
Nah (huh?)
I stood up, walked out of the arms of Venus de Milo
Mentre “Friction” gira, chiudo gli occhi e la mia fantasia vaga al 1977, abuso di uno dei tanti super poteri che la musica possiede: il trasporto istantaneo oltre i limiti e le restrizioni temporali e spaziali. La mia zona crepuscolare, soggettiva, dove le cose non sono solo com’erano ma neanche come avrebbero dovuto essere o come dovrebbero essere ora. La musica è la causa prossima che può mettere in moto il movimento verso la realtà come noi vogliamo che sia. Rotolando fuori come un inno, “Friction” ci presenta Verlaine in conversazione con qualcuno:
I knew it musta been some big set-up
All the action just would not let up
It’s just a little bit back from the main road
Where the silence spreads and the men dig holes
I start to spin the tale
You complain of my diction
You give me friction (friction)
You give me friction (friction)
You give me friction (friction)
My eyes are like telescopes
I see it all backwards, but who wants hope?
If I ever catch that ventriloquist
I’ll squeeze his head right into my fist
Something come a-trackin in
What is it, what’s the prediction?
Le chitarre che avvolgono il suono rasentano il disordine, ma l’intreccio armonico tra gli strumenti sostiene la band, costruendo un senso di rilassante accuratezza tale che tutto sembri privo di difetti.
I’ll betcha it’s friction (friction)
I’ll betcha it’s friction (friction)
I’ll betcha it’s friction (friction)
Hide the snake, get out the skin
Oh, stop this head motion, set the sails
You know all us boys gonna wind up in jail
Well, I don’t wanna grow up
There’s too much contradiction
And too much friction (friction)
But I dig friction (friction)
We’re both crazy ‘bout friction (friction)
F-R-I-C-T-I-O-N
È il ponte perfetto per i quasi undici minuti di beatitudine che è l’epica title track che scende su di me quando “Friction” si dissolve.
So che è una cosa banale da dire, ma ascoltare “Marquee Moon” è molto simile a un’esperienza religiosa. Se volessi davvero fare del cliché, non avrei problemi a dire che quei primi quindici secondi mi evocano creature marine che danzano sott’acqua ed è, sì, magico. Si potrebbe mettere in loop quel quarto di minuto e affiancarlo alla più perfetta composizione minimalista che Philip Glass o Terry Riley abbiano mai registrato. È la prova di cui hai bisogno. Verlaine e Lloyd sono implacabili nei loro duelli che portano a un ponte dove l’enorme assolo è reso ancora più grande dal piccolo scintillio dei tasti di un pianoforte. È la favola decadente del Lower East Side, filtrata attraverso la mente di qualcuno influenzato dalla poesia francese. Tutto questo procede per qualche minuto e poi c’è questo intervallo nel quale la band entra nel territorio dei Grateful Dead, dei Moby Grape cazzeggiando con gli strumenti, mantenendo quel ritmo, quella dinamica, costruendo quel crescendo che li riporta al punto di partenza, recitando la poesia che avevo fissato in mente più di trent’anni fa.
I remember how the darkness doubled
I remember, lightning struck itself
I was listening, listening to the rain
I was hearing, hearing something else
Life in the hive puckered up my night
A kiss of death, the embrace of life
Ooh, there I stand neath the Marquee Moon
Just waiting
I spoke to a man
Down at the tracks
And I ask him
How he don’t go mad
He said, “look here, junior, don’t you be so happy
And for heaven’s sake, don’t you be so sad”
Life in the hive puckered up my night
The kiss of death, the embrace of life
Ooh, there I stand ‘neath the Marquee Moon
Hesitating
Well, the Cadillac
It pulled out of the graveyard
Pulled up to me
All they said, “get in, get in”
Then the Cadillac
It puttered back into the…
Quando lo ascoltai, per la prima volta, la mia mente rimase sconvolta. Da adulto, tutti quei dieci minuti e trentanove secondi restano qualcosa di immacolato e impossibile da replicare. La perfezione è una cosa strana, perché sappiamo che è intrinsecamente irraggiungibile. Sapremmo davvero distinguere una cosa perfetta se ci guardasse in faccia? Se ci esplodesse nelle orecchie? È possibile riconoscerla percependo i nostri limiti, cioè la nostra inferiorità. Quell’attacco ricorda i primi quindici silenziosi minuti de “Il Petroliere” di Paul Thomas Anderson, un titolo a caratteri gotici sullo schermo nero, un prologo tacito, privo di dialoghi, un viaggio intensissimo e necessario. La prima versione di “Marquee Moon” era apparsa sui nastri lo-fi registrati nel 1974 dal loro manager Terry Ork. Le tessere del puzzle erano già grossomodo al loro posto: l’inconfondibile balbettio della chitarra, il pulsare del basso suonato qui da Richard Hell e il riff assillante di Richard Lloyd. Più tardi, cavalcando l’hype, i Television registrarono un demo con Brian Eno e Richard Williams della Island Records. Il demo non portò a un contratto discografico, ma lasciò un essenziale assaggio di quello che sarebbe diventata. È il tipo di gioco che gli amanti della musica adorano fare. Ma alla fine, una volta che qualcosa è perfetto, non si può lavorare su quella perfezione e i “what-if” non dovrebbero applicarsi a questioni come queste. Niente potrebbe cambiare il mio ricordo di quando ho preso in mano quel vinile polveroso e l’ho messo sul piatto. “Marquee Moon” mi ha fatto venire voglia di diventare il tipo di persona che immaginavo fosse Verlaine. Provare a vivere le cose nel modo nel quale lui le raccontava. Il romanticismo downtown scorreva lungo tutto il disco, ma il primo lato era l’equivalente musicale di un grande film, dipinto, poesia o opera d’arte, ti catturava indipendentemente dalla sua canonicità. Quei suoni che Patti Smith definì “l’urlo di mille uccelli”, quelle voci acide, stridule, stranianti, gutturali da androide allucinato sono state la mia laurea alla scuola del rumore e della rabbia e l’inizio, per tutta la vita, della ricerca di qualcosa di abbagliante, misterioso e compiuto proprio come quelle quattro canzoni.
Come diceva John Peel: buona serata ragazzi e buon viaggio.