Ultimate Success Today: Protomartyr (Domino 2020)
E’ il primo giorno d’autunno o forse l’ultimo d’estate. Un lunedì.
A quanto sembra il cambio di stagione previsto dal calendario coinciderà perfettamente con il cambio meteorologico stando alle esplosioni di elettricità che rimbalzano in lontananza nel cielo ormai scuro. Manca poco alle otto della sera sono in auto diretto a casa. Infilo nella fessura il primo Cd che trovo sul sedile a fianco nel buio dell’abitacolo.
L’attacco è minaccioso, teso, ripetitivo in lento crescendo, sull’inquietudine creata dai musicisti galleggia la voce a cavallo tra il recitato ed il cantato, una voce presente e assente nello stesso tempo, parla di un giorno che non ha mai fine, un po’ come quei giorni vissuti nella clausura, tutti simili, tutti uguali, quasi indistinguibili. Il crescendo è appena avvertibile ma costante, inesorabile segnato dalla voce di un sax balbettante ed isterico. La tensione cresce , sale ad ogni giro, mi aspetto che esploda ma non accade, il pezzo si chiude all’improvviso lasciando immaginare una deflagrazione, un cambiamento radicale che proprio per il suo non manifestarsi mai acquisisce una forza superiore. “Day without end” termina, ma potrebbe non finire mai.
Se c’è un gruppo che è lo specchio di quest’epoca di ansia e nevrosi questo gruppo si chiama Protomartyr da Detroit.
“Ultimate Success Today” è il suo quinto parto ed è dichiaratamente la summa del percorso intrapreso dieci anni fa partendo dalla Ex Motorcity per portare la propria potente e lacerata voce in tutti gli angoli del pianeta.
Un paio di anni fa a Liverpool sono venuto a contatto con la loro forza d’urto e la loro immagine disturbante nella sua anomala normalità
Alla chitarra Greg Ahee un ragazzone troppo cresciuto che mentre suona le sue parti affilate e abrasive assume sguardi catatonici che fanno pensare alla malattia mentale
Al basso Scott Davidson un potenziale metalhead che starebbe perfettamente al suo posto in una death metal band norvegese o nei Neurosis, concentrato sempre e solo su se stesso come se il pubblico non esistesse
Alla batteria Alex Leonard un tipo magro tutto nervi che immagineresti cameriere in un ristorante o cassiere in qualche ufficio pubblico alle prese con frasi ritmiche sempre molto complesse senza perdere un colpo.
La voce è quella schizofrenica di Joe Casey un “senzatetto” che ha ecceduto con l’alcol che, con una lattina perennemente in mano, parlotta tra se e se ignorando il pubblico guardando per terra o fissando un punto nel vuoto (magari corrispondente a dove sei tu) prima di far partire ululati e rabbiosi slogan monosillabici che ti annichiliscono.
Cavi dell’alta tensione stesi da qualche parte tra i Jesus Lizard ed i Pere Ubu. Eruzioni improvvise di lava della stessa temperatura di quella eruttata dai Cop Shoot Cop o dai Girls Against Boys un po’ di tempo fa.
“Processed by the Boys” dedicata all’amministrazione Trump arriva come una sorta di mannaia appena “Day Without end” si tace, ed è una scarica di affilata violenza, un riff di chitarra entra come una lama per poi lasciare spazio ad uno spiazzante clarinetto. Casey declama il suo disgusto per l’attuale presidente in una nenia psicotica che si perde nel maelstrom per poi ricomparire quando il suono si dilata alla fine per introdurre “I am you now” un altro assalto all’arma bianca guidato da una ritmica ossessiva e una chitarra chirurgica figlia di quella di Duane Denison dei Jesus Lizard. “The Aphorist” sembra concedere una tregua momentanea con Casey che illustra ellitticamente la sua visione dell’America devastata e vile di questo tempo, “June 21” è il primo giorno di un’estate che non ha nulla della serena luminosità che le viene tradizionalmente associata, è un estate cupa e triste che si srotola su un ritmo motorik instancabile.
In “Michigan Hammers” Casey butta nel calderone i suoi ricordi di un Michigan che conservava ancora brandelli di umanità prima di precipitare nell’attuale desolazione. La band va a mille all’ora, in pieno controllo, sempre capace di tenere altissima la tensione senza cedere un attimo fino all’ingresso dell’enorme basso distorto che introduce “Tranquilizer” mentre la voce recita un mantra drogato ed un sax sinuoso come una serpe vi si attorciglia intorno.
“Modern Business Hymns” è si un inno, ma un inno nichilista alla pochezza di quello che è il mondo che ci sta rimanendo in mano, rabbia e disillusione perfettamente resi da arrangiamenti deflagranti ma in pieno controllo fino al cambio di passo del valzer robotico di “Bridge & Crown” in cui esplicitamente Casey cita la morte del padre con un tono di voce che parrebbe essere di qualcuno che il senno l’ha perduto irreparabilmente.
L’addio è affidato all’unico pezzo con un passo apparentemente pacificato .“Worm in Heaven” è quasi una camminata sul lato selvaggio verso un paradiso forse irrimediabilmente perduto, un tentativo di tenere insieme i pezzi di se mentre tutto si sfalda.
I am the worm in heaven
Remember me, how I lived
I was frightened
Always frightened
I did exist, I did
I was here, I am
And what I left behind
Never be the simple kind
I exist, I did
I exist, I did
I was here, I was
Oh
Never, never, never, never, never, never, never was
Never, never, never, never, never, never, never was
Ultimate Success Today è ancora un passo oltre i precedenti “The Agent Intellect” e “Relatives in descent” in un escalation inarrestabile. E’ tagliente, solido, rabbioso, carico di lucida follia.
I Protomartyr contendono agli Algiers la palma di gruppo più schierato degli anni caotici e spaventati che stiamo vivendo e quest’album è la colonna sonora del qui ed ora.
Non perdetelo per nessuna ragione.