40 anni di “Mostri Spaventosi”: il percorso a ritroso di David Bowie per ritrovare se stesso?
Proprio così, caro mio: sono già quarant’anni. Lo so che non ti sembra vero, ma devi fartene una ragione.
Il fatto è che se prendi spunto dal disco, allora sembrano passati cinque minuti: quanti album possono dirsi così attuali a decenni di distanza? Beh, diciamo che questo trasformista continuo, questo Artista tra i pochi a potersi fregiare del termine in maiuscolo, ne ha incisi parecchi che rientrano a buon titolo nella categoria. E ogni svolta era stata, fino ad allora, praticamente impeccabile, à la page per il preciso momento storico, anticipando stili e situazioni o plasmandoli a propria immagine. L’immagine, già: gli mancava ancora di apparire diverso da sé, forse. Ti spiego cosa intendo, caro me stesso di allora: l’androgino, l’efebo, Ziggy, l’alieno, The Thin White Duke, il soulman, il glaciale mitteleuropeo, tutte facce e travestimenti di uno stesso uomo, bisognoso di cambiamenti. Faceva parte della serie anche il recentissimo cadavere su mattonelle bianche, probabilmente: dopo Ziggy aveva ucciso il sé berlinese? Quella foto disturbante era la copertina di “Lodger”, un album che rappresentava la via di fuga da quel periodo sperimentale e che riempiva Berlino di suoni esotici, ulteriore frutto di una collaborazione con quell’Eno che, lasciati quasi subito i cari, vecchi (ma anche loro sempre nuovi) Roxy Music, era assurto a genio delle produzioni, regalando le stesse suggestioni a un lungagnone di natali scozzesi e passaporto americano, quindi perfetto per popolare le notti della più cosmopolita città del mondo. Ma adesso no: per riappropriarsi definitivamente di un’immagine esclusiva, non più mascherata, il vero David doveva passare per una trasformazione radicale, quella non sua, ma rappresentante qualcuno totalmente diverso da sé, una sorta di Pinocchio, mezzo clown e mezzo Pierrot. E, pensa un po’, riprendendo il primo personaggio che avesse mai popolato una sua canzone per riproporlo come visto da occhi estranei.
Ricordi come ti affascinava quella rivisitazione del Major Tom? Ecco, se dovessi portarti dietro solo cinque canzoni di questo considerevole catalogo, questa ci sarebbe di sicuro: “Ashes to ashes, funk to funky, we know major Tom’s a junkie“, tutta la sua storia, musicale e non, in due versi.
Ma c’era di più: ricordi quando calasti il braccio del Pioneer e la puntina scese nel solco per la prima volta? It’s No Game (Pt. 1): quella voce inquietante, monocorde, declamante in giapponese versi incomprensibili che David ripeteva in inglese, cantando su una tonalità pazzesca, gridata, disperata. Un testo che parlava di rifugiati, fascisti, male esistenziale, per dire che no, non si scherzava un cazzo. La chitarra di Robert Fripp, inconfondibile, la batteria, quasi ossessiva. Sarà stata quella voce giapponese, sarà stata l’atmosfera che trasudava avanguardia pop, ma sembrava di avere che fare con Yoko Ono, invece quella era la (per te!) sconosciuta Michi Hirota.
Gli amici che venivano a trovarti ogni domenica sera per giocare fintamente a poker (il che era solo una scusa per stare assieme: a nessuno piaceva davvero), a metà della successiva Up The Hill Backwards cominciavano a dar segni d’inquietudine: due di loro suonavano con te, ma amavano generi molto diversi, anche se non avrebbero mai collegato quelle chitarre distorte con il leader dei King Crimson, il cui esordio dicevano di amare moltissimo. Quando partì la title track, il più vecchio di loro ti disse: “Non mi piace per niente, ‘sta tua New Wave“, e vai a fargli capire che quello che cantava era lo stesso di Starman e quel genere c’entrava relativamente. Non ricordo se fu diretta conseguenza dei dischi che ti ostinavi a mettere in sottofondo, ma ben presto l’abitudine del ritrovo terminò e ti ritrovasti a godere in solitudine di una musica che ti faceva pensare di appartenere a un club riservato e carbonaro, con quegli altri persi dietro ai loro deliri prog e a cantautori che non erano i “tuoi”.
Peccato, perché sarebbe bastato attendere QUELLA canzone per sistemare tutto, ne eri convinto.
Chi potrebbe mai criticare Ashes To Ashes, d’altronde? Perfetta, con quel tempo spezzato, quei tocchi di tastiera “liquida” e il piano di Roy Bittan, che chissà cosa pensava di roba simile dopo essere magari appena uscito dalle session springsteeniane ed essersi spostato nella sala a fianco, praticamente anni luce dal Grande Romanzo Americano che Bruce raccontava, in suoni e liriche, in “The River”. E che avresti altrettanto amato, ovviamente.
“Do you remember a guy that’s been in such an early song“, caro me medesimo dell’epoca? Sì, e c’era di che commuoversi. Ma iniziavano gli Anni Ottanta (o finiva il decennio precedente? Non hai mai ben capito quella storia degli anni zero), quelli in cui la moda avrebbe dettato legge.
Moda? Fashion, dunque: go funky! Un ritorno a quello di Fame e Golden Years: subito dopo verrà la chiamata al ballo di “Let’s Dance“, successo totale e gabbia dorata, che lo costringerà riposare un po’ sugli allori (e sarà l’unica volta, ma di durata consistente e sparsa in più album). ‘Beep-Beep!’
Riepilogando: il maggiore Tom c’è, l’avanguardia “etnica” pure, il funky è appena passato… Giriamo il disco, dai, che ricordo perfettamente quanto fossi curioso di scoprire quale tuffo avrebbe fatto quel folletto: dritto in avanti o carpiato all’indietro? Cos’era mai Teenage Wildlife se non un lascito del periodo di “Heroes”? Brano perfetto per aprire il lato B, anche se davvero molto in debito con l’illustre predecessore. Però ideale per creare l’ambiente che deve accogliere Scream Like A Baby, che guarda ancora più indietro, praticamente dalle parti tra “Alladin Sane” e “Diamond Dogs“.
Una sorta di gioco ispirato da Huysmans? “Andiamo ‘À rebours‘, rimaneggiamo un po’ di pagine lette dal personaggio che non è più un mio alter ego, ma una sorta di attore che riflette sulla mia storia”, sembra dirci. E allora perché non offrire anche uno spaccato sui propri gusti in fatto di ascolti? Tipo quel pezzo là, quello che un altro Tom aveva tenuto per sé, avendo sciolto i Television: grazie, mr. Verlaine, ci voleva proprio una Venuta del Regno, almeno auspicata. Ricordi? Kingdom Come era l’unico brano in scaletta non firmato da Bowie, ed era così recente da stupire per il trattamento, a renderlo più nervoso e incalzante.
E se la cover è di una canzone appena vecchia di un anno, allora ce ne sta anche una in stile “Lodger“, giusto? E Because You’re Young pare la più adeguata, caro mio, anch’essa incredibilmente attuale, altra gemma incastonata in un album eternamente contemporaneo. Era messa lì, subito prima del congedo rappresentato da It’s No Game (Pt. 2), sorta di superamento delle angosce gridate in apertura. L’attore ha raccontato, interpretandola ex novo, la precedente vita dell’uomo che ora si sente finalmente in pace con se stesso, è sceso a patti con la propria storia e guarda al futuro.
Ti ricordi, allora?
Già, “ti ricordi”. Proprio come Hüsker Dü, per esempio: gente che non avresti mai potuto amare se non fossi passato prima anche da qui, caro me stesso del 1980.
“Scary Monsters (And Super Creeps)”, quattordicesimo album in studio di David Bowie, usciva il 12 settembre del 1980.