Emitt Rhodes 1950 – 2020 – Time Will Show The Wiser.
Era difficile, per me, connettere il settantenne Emitt Rhodes, sbirciante dietro le sue spesse bifocali, appesantito dagli anni, con quella barba grigia e arruffata, e l’angelico giovane ragazzo che aveva sfiorato la celebrità a 17 anni. Rhodes era già un piccolo fenomeno quando, a Los Angeles, si presentava alla testa dei Merry-Go-Round. Il fascino della band era semplice: Rhodes scriveva melodie impeccabili e la sua voce era una perfetta copia di Paul McCartney. C’erano gli inseguimenti delle groupie, la biancheria intima volava in aria, era come essere in “A Hard Day’s Night”.
Nel 1969, Rhodes sciolse i Merry-Go-Round e decise di registrare il “suo” disco. Si chiuse nel garage dei suoi genitori con un registratore Ampex a quattro tracce e tre microfoni, suonò tutti gli strumenti e produsse l’album. Quell’omonimo debutto, nel 1970, sembrava pronto per fargli guadagnare un posto fisso nel canone del pop. Il debito con i Beatles era grande, eppure, a differenza dei tanti “Beatles wannabe”, Rhodes aveva, in qualche modo, decifrato il segreto, melodie malinconiche, il contrappunto tra basso e chitarra che si incastravano come le tessere di un puzzle, una musica che donava gioia anche attraverso la propria tristezza. Ma mentre il disco si insinuava nelle classifiche, la carriera di Rhodes crollava. Il suo contratto con la ABC Dunhill prevedeva un album ogni sei mesi. Quando, per terminare, il suo esordio impiegò nove mesi, l’etichetta intraprese un’azione legale. Una causa per più soldi di quanti ne avesse mai visti. Dopo due anni di battaglie legali e album straordinari, ma di impercettibile successo, decise di ritirarsi dalle scene.
Aveva ventiquattro anni. Successivamente lavorò come ingegnere del suono e gestì uno studio di registrazione nella sua piccola e disordinata casa di Hawthorne almeno fino a quando profondi problemi familiari ed economici non gli causarono una grave depressione. Quando nel 2001, uscì il film di Wes Anderson, “I Tenenbaum”, Emitt accompagnò sua figlia al cinema. Quel giorno aveva qualcos’altro da offrirle. All’inizio del film, mentre Gene Hackman si allungava sullo schermo, il teatro si riempì dei suoi suoni in una nostalgica ballata intitolata “Lullaby”. Sarebbe stato incline a liquidare velocemente quel cameo dentro una colonna sonora dal suono così attuale. “Mi sembrava stupido, sentire le mie vecchie cose. Ne avevo dimenticato la melodia. Ma, per una volta, la mia bambina era stata orgogliosa di me”.
Quel pomeriggio, durante il viaggio di ritorno a casa, la canzone uscì, nuovamente dallo stereo della sua auto, in una cascata di melodie scintillanti. Emitt iniziò a ondeggiare in avanti e all’indietro. E per la prima volta, mostrò la traccia di un sorriso. Come se si fosse improvvisamente reso conto che di ciò che aveva fatto.
Time will show the wiser, one man Beatles, time will show.
“And I wish someone could help me but the decision is mine
And my morals and emotions are hard to combine.
And there is no easy way out so I’ll let it just ride
Till the day that he finds out of the love I hide.
‘Cause I don’t know which to go by, my mind or my heart
This is so confusing, it’s tearing me apart”