Tamino: La passione musicale avvicina i cuori e le menti

La passione musicale avvicina i cuori e le menti, anche quando la distanza anagrafica diventa ben più che sensibile. Mai come quest’anno, durante le nostre frequentazioni musicofile ‘dal vivo’, ci siamo resi conto di come – in parecchie occasioni – la fauna presente ai concerti della musica prediletta da questa pagina, si sia fatta più variegata, con presenze crescenti anche tra le generazioni dei millennials, ma anche di quelle successive: i GenZ, soprattutto, ‘infestano’ – positivamente – i sottopalchi di parecchi artisti e band che possono essere tranquillamente ascritti al genere Rock (nonché alle decine di sottogeneri), abbassando considerevolmente la media d’anni dei frequentatori abituali, e dando una concreta speranza al futuro di un genere che non dovrebbe morire mai.
Una di queste giovani e fiere frequentatrici della nobile arte del rock (discendente in linea diretta di un altrettanto fiero rappresentante della vecchia guardia, e ‘amico’ di questa webzine) ha partecipato alla data romana del lancio del nuovo disco di Tamino – un cantautore belga-egiziano che fonde rock alternativo e folk con influenze mediorientali, dotato di uno stile evocativo e malinconico che richiama artisti come Jeff Buckley, e di una voce profonda e arrangiamenti orchestrali suggestivi – e ci ha fatto l’onore di scrivere una recensione di ciò che ha visto, sentito, e metabolizzato tre giorni fa, all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Lei si chiama Lara Etenzi: vi consigliamo di leggerla attentamente, e di godervi il racconto, come abbiamo fatto anche noi.
L’obiettivo di Tamino per questa serie di date europee, iniziate il 4 marzo nella città fiamminga di Kortrijk con un concerto “warm-up”, era quello di creare un’atmosfera intima, pur mantenendo quell’aura di mistero che pervade il suo album dall’inizio alla fine. La sala si riempie presto di fumo, i raggi di luce rossastri si accendono, mentre il pubblico prende lentamente posto. L’apertura dello spettacolo è affidata ad Alessandro Buccellati, in arte “plus +.+”, amico di Tamino, artista emergente, nonché produttore e co-autore del nuovo album. Alla sua prima esibizione dal vivo, Buccellati affronta il momento con calma apparente, offrendo un set breve ma evocativo con chitarra e voce, proponendo brani come “How Cold the Flame” e “(La)tter Sound”. Sebbene ancora acerbo rispetto all’amico, il suo tono pacato e il suo approccio sperimentale con la pedaliera catturano immediatamente il pubblico, che lo acclama con entusiasmo.
Dopo una breve pausa per l’accordatura di violoncello e batteria, il palco torna ad essere vuoto, ma solo per poco: Tamino entra in scena, accompagnato da Frederik Daelemans e Ruben Vanhoutte, musicisti fondamentali anche per le armonizzazioni vocali in sottofondo, che si fondono perfettamente con quella principale. Accolto da una pioggia di applausi, Tamino prende subito in mano l’Oud, il liuto arabo che caratterizza molte delle sue composizioni, rendendole uniche nel panorama musicale attuale al quale siamo abituati. Il concerto si apre con “My Heroine”, un inedito che introduce il pubblico a un’atmosfera solenne, quasi liturgica. Il ritmo grave e scandito, unito alla profondità dell’interpretazione, conferisce al brano la dimensione di un canto religioso, dove il testo oscilla tra la dipendenza e la redenzione. Si gioca sulla doppia valenza del titolo: “Heroine” intesa come droga, o come figura salvifica? Il bridge, carico di rimpianto, cresce in intensità fino a sfociare in un outro drammatico, dove l’artista si mostra arrendevole verso il patetico e perverso suo attaccamento alla sofferenza. Il finale è dominato dalla batteria, regina di questa conclusione, e dal falsetto androgino di Tamino. Senza interruzioni, si passa al secondo inedito, “Raven”. Il riferimento alla poesia “The Raven” di Edgar Allan Poe è evidente: il corvo diventa simbolo del lutto e del dolore della perdita, un tema centrale dell’intero album. Musicalmente più sperimentale, il brano parte con un beat ritmato, evocando l’atmosfera spensierata di “Cinnamon”, brano proveniente dal suo ultimo album “Sahar”, per poi virare verso sonorità più cupe e orientali. La medesima discesa tonale con cambio ritmico è presente anche nel sesto pezzo, “Elegy”, il quale però si sviluppa su una base più leggera e scanzonata. Seguono “Willow” e “Sanctuary”, due singoli pubblicati prima dell’uscita ufficiale dell’album. “Willow” si presenta con delicatezza, entrando sulla scena in punta di piedi, ma lascia il segno grazie alle sonorità distorte in sottofondo e al suo testo; un lamento malinconico che riflette su un amore ormai perduto. Il ritornello (“I don’t even fight it / I’m losing her now”) segna la resa del narratore di fronte all’inevitabilità della separazione. Tuttavia, la conclusione suggerisce una rinascita: il tronco del salice, una volta perse le sue foglie, riesce a vedere il sole. Questo paradosso ci porta a capire che il cuore del narratore è destinato a raggiungere la luce, ad un nuovo inizio. Anche in questo caso, la natura fa da specchio dell’anima dell’uomo. “Sanctuary”, in collaborazione con Mitski, è il brano che più si distingue per sonorità all’interno di questo nuovo album. Pur essendo una dolce ballata, affronta il tema centrale della perdita, in questo caso però si tratta soprattutto del desiderio di preservare ciò che è ormai svanito. Nonostante l’assenza di Mitski, l’esecuzione risulta impeccabile, con Daelemans che riesce a ricreare magistralmente le armonizzazioni della cantante statunitense. Il momento più toccante della serata arriva con la title track, “Every Dawn’s a Mountain”, che lascia il pubblico senza fiato. Viene richiamato in gioco il tema della natura, metafora dei sentimenti del cantante, tendente al romantico sublime. Il brano racchiude l’essenza dell’album: un viaggio interiore segnato dalla lenta e dolce malinconia e dal cambiamento. La lirica “She makes me coffee in the morning / but she doesn’t feel like home” racchiude in pochi versi la sensazione di alienazione e nostalgia che permea tutto il disco. Dopo “Elegy”, Tamino regala al pubblico un momento di interazione spontanea, accogliendo richieste di brani dal suo repertorio più datato. Tra risate e tentativi di ricordare gli accordi di pezzi come “Sun May Shine” e “Every Pore”, il cantante dimostra la sua umanità e il suo legame con il pubblico.
Chiude questa parentesi con “My Dearest Friend and Enemy”, tratta dall’ultimo album, e una toccante cover di “I’ll Be Here in the Morning” di Townes Van Zandt. “In Italia non è molto conosciuto. Dovreste ascoltarlo”, commenta Tamino riguardo il cantautore country statunitense, che condivide con il belga lo stesso sound melanconico. Una dolce canzone d’amore, adattata alle sue tonalità vocali soavi. Prima di riprendere, si sofferma a ringraziare il pubblico per non aver registrato o fotografato sino a quel momento, non solo per una questione di segretezza dei nuovi brani, quanto per essersi goduti il momento assieme a lui. Concede però di rompere la regola, potendo immortalare le ultime canzoni. “Indigo Night” e “Babylon” riportano il pubblico in un’atmosfera intensa. Quest’ultima, in particolare, spicca per il suo ritmo solenne e il testo evocativo, dove Babilonia diventa metafora di una relazione destinata a crollare. L’esecuzione dal vivo esalta la profondità emotiva del brano, con Tamino che alterna registri vocali scuri a falsetti ipnotici. Nonostante “Indigo night” sia uno dei pezzi più famosi del repertorio, riesce a lasciar tutti col fiato sospeso grazie al ritmo lento, l’atmosfera onirica e l’abilità canora di Tamino. Impeccabile, supera di gran lunga la registrazione in studio. Cambio di strumento per il cantante: gli viene portato l’Oud. Si concede qualche momento per accordarlo, per poi iniziare a suonare una melodia. Riconosciamo subito l’intro di “Dissolve”, e la sala viene avvolta in un silenzio reverenziale: senza ombra di dubbio definibile uno dei momenti più suggestivi dello show. Il brano rappresenta un climax emotivo, un’accettazione graduale della sofferenza come parte integrante dell’esistenza umana. Il mondo mette davanti ogni giorno degli ostacoli, ma anche delle possibilità. Tamino non parla di speranza, ma di consapevolezza che si può ricominciare da capo. Dopo il consueto encore, Tamino esegue un ultimo inedito, lasciando il pubblico in attesa del prossimo capitolo del suo percorso musicale. Viene nuovamente richiesto di non filmare. La chiusura spetta ad “Amsterdam”, un brano dal tono agrodolce che racconta la nostalgia degli anni passati nella città olandese, lasciando nell’ascoltatore una sensazione di saudade. Molto meno allegorico e più descrittivo rispetto al solito stile di Amir, rimanda agli anni di permanenza in città, dove ha studiato al conservatorio e si è formato come artista, abbandonando il Belgio. Pezzo dal sound quasi sbarazzino, che ha spinto il pubblico ad accompagnare il ritornello con un battito di mani a ritmo. Il brano è seguito dall’immancabile “Habibi”, che conclude la serata con un’ovazione generale. L’intera sala, sia la platea che la tribuna, è in piedi. Se “Sahar” era un album più ingenuo, leggero, dove Tamino si limitava a fare il romantico poeta dell’amore, “Every Dawn’s a Mountain” si distingue per la sua coerenza tematica: un viaggio attraverso la perdita e la rinascita, dove ogni canzone è un tassello di un quadro più ampio. Questo album si immerge in atmosfere crepuscolari e intime, ricche di introspezione, facendo della musica il mezzo con cui Tamino esorcizza il peso del mondo. Stilisticamente i brani sono per lo più inquiete ballate, marchiate dal tocco armonico arabo e dalla voce iridescente di Amir. La scelta di presentare il nuovo materiale dal vivo, senza registrazioni o distrazioni, è stata la mossa vincente: ha reso l’esperienza ancora più immersiva e autentica, dove l’ascoltatore parte senza alcun pregiudizio o aspettativa, se non tanta curiosità e voglia irrefrenabile di rivivere il concerto una volta, e un’altra ancora. Si conclude così la serata. Tamino ha, ancora una volta, fatto magia.
Parole Lara Etenzi Foto Roberto Remondino