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Nick il poeta, e il suo “Dio selvaggio” – Live (non)report della tappa milanese del tour “Wild God”

Come si fa a cristallizzare in semplici parole – ancorchè limpide, ricercate, minuziosamente soppesate e lungamente affinate – tutta una costellazione di emozioni, e sentimenti, e di turbamenti e commozioni e trepidanti stati d’animo in movimento, come fossero caleidoscopici sovraimpressioni di colore in variazione continua?
Ci si rende subito conto, in certi rarissimi ma ineluttabili momenti, di quanto la verbalità sia ben poca cosa – erratica e fallace – al cospetto di un sentire così vasto e dinamico, drammatico e irto di pathos, come può essere quello umano.
O, per lo meno, di taluni esseri umani.
Mi riferisco a quelle sensibilità piene e disordinate, loro stesse inquiete e caleidoscopiche che appartengono ad un ambito che, letterariamente e moralmente, sono da definire ‘poetiche’: personalità terrene ma dotate di quel ‘quid’ che alcune culture definiscono ‘deità’, e che hanno in sé quella capacità sottile e – al tempo stesso – profonda di “riaccordare” e ricollegare un mondo discordante, diviso.
Esseri umanissimi dal pensiero ‘volatile’ come gas nobile, ma ancorati alla terra, saldi ricettacoli di esistenza con le radici ben piantate nella realtà complessa, frammentata e conflittuale della vita.
Jim Morrison – a buon diritto definibile ‘poeta’ molto e ben più di quanto non sia stato accidentalmente cantante – sosteneva come l’era contemporanea sia nient’altro che “il tempo degli eroi, che vivono per noi e attraverso i quali sperimentiamo altezze e profondità dell’emozione.”.
Eroi non nel senso ‘marveliano’ del termine, ma piuttosto nella sua accezione tragica, connessione intima e lineare a quella improvvisa qualità dell’essere, che ci fa subito intuire – quasi epidermicamente – come (in egli o ella) esista davvero, per ciò che ci è concesso di leggere o vedere o assistere, un substrato soverchiante e sottocutaneo fatto di cicatrici profonde e di gioie infinite, di lacrime brucianti e risate sconquassanti.
Morrison – seguendo in questo il pensiero di Aristotele – attribuiva all’arte riprodotta e creata da queste personalità, una capacità catartica, un modo di purificare le proprie emozioni, e rivelarle di fronte al pubblico, che ne diventa così ‘testimone oculare e sentimentale’.
Nick Cave è l’ennesima incarnazione di questo meccanismo: un meccanismo umano denso e attraente, ai limiti della deità – ma non per questo meno concreto e carnale – che sconquassa e rende ogni altra cosa esistente, all’improvviso e almeno per qualche ora, vacuo, trascurabile orpello. In passato Cave è più volte stato definito ‘sacerdote’, nome sul quale ha spesso giocato molto sia nella sua vita mondana che, soprattutto, durante i suoi concerti.
Ma oltre al puro divertissement che, anche ieri sera, ha dato vita al suo personaggio (e che appartiene ben più alla sua indole ironica che non al semplice atteggiamento esteriore), ciò che rende i suoi live dei veri e propri consessi messianici è proprio quella capacità di portare – nella sua musica e, quindi poi, sul palco – tutta quella ‘vita’ e quelle gesta ‘tragiche’, in una maniera sempre ‘ingenua’ e immediata, riuscendo a farne poesia e (dunque) catarsi: ben lontani dall’essere sermoni, le sue interazioni con il pubblico sono autentiche connessioni, frutto di un ‘estro’ misurato, sebbene quasi umanamente incontrollabile.
Furore mistico che si fa persona, e che nella persona del Cave artista assume una varietà di colori e declinazioni che vanno ben oltre la pura vita e la pura arte.
Alla fine del concerto di ieri – durato ben due ore e mezza per 22 canzoni – ho girato tra la folla rimanente all’interno dell’arena che, man mano si svuotava, cercando di guardare i visi e le persone: e tutte, a partire dal sottoscritto, covavano – nascosto dentro sguardi e sorrisi – un sentire che all’inizio era probabilmente solo abbozzato, sopito, mescolato a tutto il frastuono a cui normalmente la vita di ogni giorno ci sottopone.
Un senso di fortunato furore mortale, al quale avevamo assistito e che ormai ci covava dentro: non un senso del ‘divino’, mistica ‘parola’ di un dio che ti investe, volente o nolente, con la sua volontà devastante, quanto piuttosto una profonda comprensione che, al di là dell’artista eccellente e del  devastante consesso di musicisti che lo circonda (addirittura sei elementi trai quali spicca come sempre un Warren Ellis, prezioso diamante, e un quartetto di voci soul eccezionale per capacità canora e amestrìa, ndr) , ciò che si porta dentro l’uomo Cave ci accomuni un po’ tutti.
Ho letto stamane alcune persone parlare di quanto il dolore abbia cambiato, addolcendolo, uno spirito inquieto e incendiario come quello che apparteneva al giovane Cave dei Birthday Party prima, e dei suoi primi album da solista subito dopo, e nella sostanza è un pensiero che mi vede concorde.
Ma non credo che il motivo sia da ricercarsi nel suo non aver patito prima, quanto piuttosto nella consapevolezza e nell’artigianalità con cui è arrivato a ‘maneggiare’ tutto quel dolore e quei patimenti. Perché, se nel giovane Cave quel dolore eruttava in modo brutale nei testi e nella espressione corporea di un masochismo autoinflitto, l’aver molto vissuto ha dotato una personalità poetica come la sua di strumenti appositi, fatti di comprensione, esperienza, metro di giudizio e profondità di analisi.
E, infine, perdono. Di se stesso, prima di tutto e di tutti.
La differenza non sta quasi mai nell’aver provato tanto dolore, o – per lo meno – non solo, quanto nel saper maneggiare quella materia incandescente, sapendo che le bruciature sono medaglie ottenute sul campo.
Così, il dolore per un figlio strappato al grembo della madre e alle braccia del padre diventa accettazione musicale in Bright Horses (“Oh the train is coming, and I’m standing here to see \ And it’s bringing my baby right back to me \ Well there are some things too hard to explain \ But my baby’s coming home now, on the 5:30 train), e solo dopo essere stato a lungo rabbioso rifiuto e amara e incredula incomprensione. E il tristissimo cordoglio per Anita Lane, “l’amica talentuosa” dei Black Seeds morta troppo presto, si fa, in O Wow O Wow (How Wonderful She Is), profonda gratitudine per averla conosciuta, vissuta e amata (She rises in advance of her panties \ I can confirm that God actually exists \ She turns and smiles but never ever scantily \ O wow o wow how wonderful she is).
C’è chi sostiene che si diventa ‘consapevoli’ quando si affronta il concetto di caducità esistenziale, e si passi così all’essere ‘grandi’ affrontando improvvisamente la ‘morte’ come concetto e poi nella sua brutale concretezza: dunque, come evento da affrontare ineluttabilmente.
Ma allora com’è che non tutti arriviamo alle stesse conclusioni, alla stessa capacità di metabolizzare, gestire il dolore, di farlo ‘proprio’ senza farcene di fatto dominare?
Forse, di fatto, la capacità di sentire e, quindi, di vivere pienamente – smettendo invece, e una volta per tutte, di solo ‘sopravvivere’ – sta nella capacità di abbracciare la vita per quello che è, e che può darti: un abbraccio umano, imperfetto, mortale, senziente e consapevole, che pacifica cervello e anima in un tutt’uno, che non ha presunzione di assoluti, ma desiderio di relatività.
Un viaggio, un percorso – questo sì – ‘perfetto’, come quello che ci ha portati lì dentro all’arena ieri sera: un tragitto che è sintesi di quel viaggio ben più ampio che è questa vita, e che dopotutto non ha altri nomi se non quello di ‘amore’.
Percorso in cui – parafrasando Cave – aver fede (And I believe in some kind of path \ That we can walk down, me and you […] Into my arms, oh, Lord \ Into my arms), a cui pensare mentre si riaccendono le luci, e ci tocca ragionare frettolosamente su cosa rimarrà l’indomani, di tutto questo.
Quasi di fatto riportati a casa da un essere umano che sul palco rasenta il divino, ma le cui carne e ossa, e patimenti, lo radicano fortunatamente qui, in terra, mortale tra i mortali.

Setlist

Frogs
Wild God
Song of the Lake
O’ Children

Jubilee Street
From Her to Eternity
Long Dark Night
Cinnamon Horses
Tupelo
Conversion
Bright Horses
Joy
I Need You
Carnage (Nick Cave & Warren Ellis cover)
Final Rescue Attempt
Red Right Hand
The Mercy Seat
White Elephant (Nick Cave & Warren Ellis cover)

Encore:
O Wow O Wow (How Wonderful She Is)
Papa Won’t Leave You, Henry
The Weeping Song
Into My Arms (Solo)

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".