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La Prima Estate

Fontaines D.C. – Kasabian- shame – Wulu // Lido di Camaiore 23-6-2024
Testo di Ettore Craca – Foto di Ilaria Galietti, Ettore Craca, Roberto Remondino

Il lungomare brulica di turisti e locali che, sotto un cielo in continuo movimento, si dedicano al passeggio del sabato pomeriggio tra le bancarelle e gli ingressi retro’ dei lidi mentre a passo svelto in mezzo alla folla mia figlia ed io procediamo verso il parco Bussoladomani luogo che a partire dal 1976 ha segnato in modo indelebile la storia di Lido di Camaiore. Qui nel 1978 Mina diede una serie di concerti rimasti nell’immaginario collettivo del paese dato che segnarono il suo addio definitivo alle scene.
Incontriamo all’entrata Roberto ed Ilaria ed accediamo all’ampia radura che ospita la seconda edizione de La Prima Estate, festival che quest’anno nel corso di due fine settimana propone una palette di proposte sonore ricca e variegata che riserva un occhio di riguardo a quello che in altri tempi si sarebbe chiamato “indie” e che ad oggi ha garantito un buon successo di pubblico.
La pratica di ritiro della card, che qui prende il posto del denaro contante e dei famigerati token, è rapida ed indolore e ci lascia un po’ di tempo prima dell’inizio dei giochi per bazzicare tra merchandising, banchi di vinile e food trucks, tutti caratterizzati, come da consuetudine ormai consolidata specie dopo la cesura del Covid, da prezzi oltraggiosi.

I primi scambi tra batteria e basso ci attirano verso il palco dove Wu-Lu, alias di Miles Romans Hopcraft, apre le danze, danze che sin dalle prime note parrebbero più adatte alla luna che al sole che si attarda sul palco. Wu-Lu è un nome che rimanda alla parola etiope che definisce l’acqua ed è stato scelto come simbolo della volontà di non vedere la propria musica rinchiusa in una forma definita. Una musica che è fondata su groove pesanti dove le frequenze basse la fanno da padrone, un magma di suono scuro, ipnotico sul quale Miles snocciola versi che spesso assumono toni rabbiosi, isterici, nervosi, specchio della dura realtà di Brixton/South London dove Wu Lu è cresciuto e tuttora vive. Loggerhead uscito per la Warp nel 2023 è un buon album con alcuni picchi memorabili quali la South che chiude il set. Il suono c’è ed è figlio del Tricky più notturno e fratello degli Algiers meno frenetici c’è tuttavia ancora del lavoro da fare sulla composizione per evitare quell’effetto di mera jam un po’ sconclusionata che a tratti compare durante il live.

Anche gli shame, che guadagnano il palco dopo mezz’ora, sono originari di South London ed il loro cantante Charlie Steen non mancherà di rimarcare la fratellanza con Wu-Lu nel corso di un set che definire adrenalinico è del tutto insufficiente a rendere l’idea. E’ la seconda volta che me li trovo di fronte e l’ ingresso sulle note di “Grease” di Frankie Valli di questo quintetto di kids dai tratti somatici ancora poco più che adolescenti ma dall’approccio sbruffone di un manipolo di hooligan non potrebbe essere più straniante. Il cantante è tutto mosse e mossette che affianca ad un canto aggressivo, nei momenti più estremi quasi abbaiato, e ad una tenuta del palco spavalda che trova la massima espressione nei momenti inevitabili di stage diving sul pubblico pOgante.

Deve tuttavia costantemente tenere un occhio accorto ad evitare il bassista sorta di proiettile vagante che rimbalza da un lato all’altro del palco quasi parossisticamente mentre il resto della band macina assalti (post)punk rock non privi di una certa finezza. Il set, basato su una equilibrata scelta di brani dai tre album scorre via piacevolmente tra un’incitazione all’”having good time” ed una al “fuck monday” e finisce in gloria con un ultimo tuffo di Steen in mezzo alla calca.
Il tempo che sembra mantenere, mentre le previsioni fino al giorno prima minacciavano tempesta, ma soprattutto gli sguardi sorridenti di mia figlia perfettamente a suo agio nella situazione sono un ottimo propellente per il mio umore durante la mezz’ora di cambio palco.

E’ il crepuscolo quando i colori riempiono lo schermo retrostante e i Kasabian prendono possesso dei variopinti strumenti che riempiono lo stage set. Sergio Pizzorno, leader indiscusso dopo la ormai risalente fuoriuscita di Tom Meighan, si presenta in una sorta di cerata trapuntata verde militare e, sull’inconfondibile riff di basso di Club Foot, dà il via al party, saltando come un grillo da una parte all’altra del palco. Party band per eccellenza i Kasabian lo sono sempre stati, grazie a quella formula perfettamente a cavallo tra indie rock, elettronica, screamadance, urban rappin’, capace di far muovere i fianchi sin dal primo beat. Sebbene chi li abbia visti dal vivo nella formazione originale abbia più di qualcosa da eccepire su questa nuova incarnazione, da digiuno dei loro pregressi live posso testimoniare di un concerto molto divertente, carico, paraculissimo nei suoi richiami a classici quali “Groove is in the heart” “Intergalactic” o “Breathe”, coinvolgente soprattutto grazie ad un Pizzorno in stato di grazia che non si fa mancare la passerella tra le due ali del pubblico su “Days are Forgotten”.

Il suono è enorme, i bassi divorano letteralmente lo stomaco sulla “Fire” con cui la band di Leicester si congeda dopo un set al di sopra delle mie limitate aspettative.
Non c’è tempo e modo di recuperare del cibo o una birra mentre per l’ultima volta i tecnici si danno da fare per sostituire i setup sul palco, ci teniamo fame e sete quindi. La massa si accalca intorno al palco in quella attesa piena di aspettativa fremente che non si può fare a meno di avvertire.

I Fontaines D.C sono la band del momento, quella nelle cui mani molti devoti al culto delle due chitarre, basso e batteria, mettono la fiaccola portata in passato da nomi che hanno segnato a fuoco la storia del rock. Ed alla vigilia del quarto album, il pericoloso quarto album, quello che per gli U2 fu The Unforgettable fire e per i R.E.M. Lifes Rich Pageant per capirsi, l’attesa di critica e fans è montata agli estremi.
Cosa ci aspetta ? Saranno all’altezza ?
Salgono sul palco al buio i cinque musicisti, sopra le loro teste il monicker del gruppo in carattere gotico è pronto ad accendersi di tutti i colori dell’iride, le note che riempiono l’aere sono ignote e inquietanti, il suono fa paura, l’amore è un thriller che si srotola davanti a noi nel buio e la voce di Grian Chatten ne disegna i contorni

Into the darkness again
In with the pigs in the pen
God knows I love you
Screws in my head
I will be beside you
‘Til you’re dead
Maybe Romance is a place,
for me and you

E’ solo in concomitanza degli ultimi versi che il cantante raggiunge il resto della band sul palco ancora al buio, le luci si accendono, parte “Jackie down the line”, la tensione si scioglie e comincia la festa.
L’autorevolezza con cui i cinque, con l’aggiunta di un ulteriore membro a tastiere e chitarra, tengono il palco è sintomo di quella sicurezza nei propri mezzi che solo un lungo apprendistato suonando in giro per il mondo può costruire.
Lo stage set e l’impiego delle luci danno l’idea di un rigore formale, di un eleganza senza tempo, che contrasta con l’abbigliamento estremamente casual, versante grebo primi ‘90, indossato dai dublinesi: tute adidas, occhiali e capelli fluo, anfibi e carrarmati ai piedi e una sorta di kilt nero indossato da Chatten sotto la maglia mimetica.
Il tutto è in totale antitesi al piacionismo dei Kasabian, i Fontaines sono solidi, sicuri, niente paraculate per conquistarsi il pubblico. “Sono venuti a vederci per la musica e musica è quello che avranno” pare il sottotesto.
Grian ne è perfetta esemplificazione, non una parola tra un brano e l’altro, niente discorsi inutili, frasi fatte, sermoni, il suo modo di coinvolgere il pubblico è prettamente fisico. Certe mosse ormai entrate nel suo vocabolario sono sempre più consolidate: i colpi battuti ripetutamente con l’asta sul palco, il braccio lanciato all’indietro mentre si sporge in avanti verso l’audience, la spinta verso l’alto con le braccia quasi a chiamare la risposta del pubblico, i girotondi intorno al microfono. Il resto la fa il suo cantato, accento irlandese, senza infingimenti, voce profonda che ama spesso incatenarsi a singoli versi ripetuti ad libitum.

La scaletta pesca in tutti i dischi e non può che pescare bene: Big Shot, Televised Mind, Roman Holliday, I dont’ belong, Big, A Lucid Dream, Chequeless Reckless….
Il suono prettamente elettrico, che temevo potesse soffrire al confronto con la massiccia elettronica di supporto ai Kasabian, è imponente, le chitarre affilate tagliano come lame in Too Real, con cui la band riprende dopo una pausa dovuta a problemi tecnici, e in quella corsa a perdifiato che e’ Boys in a Better Land. Le due anticipazioni dell’album Favourite e Starbuster sono talmente differenti tra loro da non riuscire a dare ancora un idea definita di quello che ci aspetta, ed è solo un bene.


I love you, l’accorato, disperato, rabbioso, inno finale per la loro Irlanda, arriva a mezzanotte passata, più che degna chiusura di un set da ricordare.
Guardo e sento mia figlia urlare a squarciagola la lunga sequenza di versi mandati a memoria in decine e decine di ascolti che chiude questa dichiarazione di amore e sento che non c’è modo migliore di lasciarsi alle spalle questa serata.
Le voci di Grian e sua insieme nelle mie orecchie, nella mia memoria:

Selling genocide and half-cut pride, I understand
I had to be there from the start, I had to be the fucking man
It was a clamber of the life, I sucked the ring off every hand
Had ‘em plying me with drink, even met with their demands
And I loved you like a penny loves the pocket of a priest
And I’ll love you ‘til the grass around my gravestone is deceased
And I’m heading for the cokeys, I will tell ‘em ‘bout it all
About the gall of Fine Gael and the fail of Fianna Fáil
And now the flowers read like broadsheets, every young man wants to die
Say it to the man who profits, and the bastard walks by
And the bastard walks by, and the bastard walks by
Say it to him fifty times and still the bastard won’t cry
Would I lie?

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".