‘L’abbraccio musicale’ di Bonnie Prince Billy, alla prima del suo tour in Italia.
“Una canzone non è altro che una conversazione fissata al punto che puoi parlarne ancora e ancora senza stancarti.”
Certo, è innegabile che certe conversazioni siano più interessanti di altre, così come è altrettanto innegabile che la differenza tra l’una e l’altra la faccia pur sempre l’interlocutore, e ciò che rappresenta egli o ella per noi.
Sta di fatto che in questa breve citazione – strappata alla bisogna dal pensiero di Woody Guthrie – sono racchiusi quasi un intero pensiero filosofico, oltre che una cosmogonia musicale, che rende immediatamente facile comprendere come un ragazzo inseguito da ogni genere di sventura giovanile e adolescenziale sia poi riuscito a diventare quel tipo di musicista così affine al cuore di tanti artisti della mitologia musicale moderna, e di milioni di altre comparse dello stesso, ivi compreso il sottoscritto.
Nella medesima direzione, si può assimilare che nella musica esistono “conversazioni” che ti sanno prendere per mano nelle intemperie, così come altre che di trascinano via in luoghi lontani e insospettabili; o ancora, ne esistono certe così tempestose che ti scompigliano ogni idea e ogni sicurezza fino a quel momento incrollabili, e altre che respingono altrove, ma il più lontano possibile rispetto a dove ti trovi.
Personalmente, trovo che poche ‘conversazioni’ al mondo sappiano invece abbracciarti, ovunque ti trovi, e in un modo che riesce a farti del bene, sempre.
Si può a buon diritto dire che la musica di Bonnie ‘Prince’ Billy – al secolo Will Oldham, attore oltre che gran musicista – possa essere annoverata proprio tra le ‘conversazioni’ di quest’ultimo genere.
Che sia infatti in senso pieno e diretto del termine, o metaforico e allargato come nel caso del discorso qui sopra, “conversazione” è infatti la definizione più densa e pregnante in merito al suo modo di fare musica, se fossi costretto a racchiuderla in una parola sola; e “abbracciante” è l’aggettivo che farei seguire, subito dopo.
Ed in effetti, il concerto che Oldham ha tenuto ieri allo sPAZIO211 si è rivelata essere una vera e propria conversazione, con momenti di lirismo musicale puro uniti a pause di dialogo durante le quali Will\Bonnie ha avuto modo di parlare del padre, del Kentucky (sua terra d’origine), dei suoi viaggi e persino di Steve Albini, di cui è stato prima fan, poi sodale e infine anche amico.
E così, la vellutata e melodica narrazione musicale – che nei suoi brani dal buon sapore folk barricato nel rock è un tratto più che distintivo – si è intrecciata alla ben più ironica dialettica intima e descrittiva, attraverso la quale l’artista è riuscito da subito a scavalcare il gradino che separava lui e i suoi musicisti dal pubblico presente.
Pubblico che ha gremito la sala concerti del locale, decretando con il suo sold-out l’apprezzamento anche tra le italiche genti per un artista che ha davvero saputo raggiungere una fama internazionale di primarietà all’interno della musica folk e dell’alt-country, attraverso testi nei quali canta la vita e il sesso, e in cui il suo parlare dell’’amore, del vivere e del ‘cantare’ stesso lo rende persona tra le persone. Nella sua musica c’è una spesso una suadente irriverenza, e una familiarità ironica che te lo fanno percepire assonante e affine da subito: e nel suo modo di porsi al pubblico – immerso nel tappeto musicale che costruisce con leggerezza insieme ai due impeccabili polistrumentisti che lo accompagnano nel tour alternando sax, clarinetto, flauto e saltuariamente la chitarra – una effettiva confidenza che non scavalla però mai nell’approccio smaccatamente sornione e ammiccante.
In poco meno di due ore di concerto, snocciolate attraverso le note e le parole di venti brani (doppio bis incluso, richiesto a gran voce da tutti i presenti), Oldham ha presentato l’ultimo suo lavoro in studio, “Keeping secrets will destroy you”, da cui ha estratto ed eseguito ben 8 brani. Presenti all’appello, insieme alle storiche “This is far from over” e l’amatissima (anche da Johnny Cash in persona, che infatti la scelse per “American III: Solitary Man”, suo terzo capitolo di canzoni altrui riprese e ricantate a modo suo) “I see a darkness” – di cui rende una versione maggiormente vellutata ed emozionale – anche una pregevole cover di “Ultima occasione” della “grandissima Mina” (come la definisce lo stesso Oldham).
Si chiude con “Dream Awhile” il concerto, una ninna nanna in stile Bonnie\Will, che con quel suo ritornello “When I have a problem \ I know just what to do \ I go to bed and dream a while \ Something will come through” chiude un abbraccio durato un paio d’ore, e una conversazione che ci ha resi tutti più vicini.
E, una volta a casa, forse qualcuno avrà sognato il Kentucky di Oldham – che non è poi così distante dall’Oklahoma di Guthrie – ormai finalmente consapevole di come “tutte le nostre canzoni sono solo piccole note in una grande grande canzone”, così come in fondo Woody aveva predetto.