Paolo Nutini “accende una luce” scintillante sulla terza giornata degli I-Days.
C’era bisogno di refrigerio e conforto, di quel qualcosa in più – vogliamo chiamarla ‘magia’? – che solo elementi fortemente catalizzanti, preminenti ed essenziali sanno darti, quei sostentamenti corroboranti che soddisfano bisogni primari e ineluttabili e della cui esistenza ti rendi conto soprattutto in certe complicate occasioni: come succede ad esempio in quelle giornate in cui l’arsura dell’atmosfera e il calore che riflette da ogni direzione – anche dal terreno – pare bruciarti tutto, compresi i pensieri, offuscati anche essi dalla polvere che si poggia sulla coscienza e la rende opaca, più pensate.
C’era la Musica, ieri a Milano, e il catino assolato dell’Ippodromo Snai deputato a contenere la calca di gente ammaliata dal refrigerio delle sirene musicali della terza giornata degli I-Days 2023 – che a chi lo guardava da esterno e disinteressato spettatore poteva anche parere quasi l’anticamera dell’Averno – si presentava nelle sue concrete sembianze di fiumana multicolore di sorrisi e aspettative, un presagio di Paradiso più che quel Purgatorio di coda, polvere e arsura che procedeva indifferentemente da sopra, da sotto e anche attorno ai cuori dei fan.
Ad accogliere ed inebriare giovani e meno giovani appassionati musicali, man mano che l’ippodromo si colmava di cuori e voci, è stato il rock giovane e frizzante dei Fast Animals and Slow Kids – o FASK, come li chiama in gergo la loro fan base – acclamatissimi da un gruppetto di giovani facinorose raggruppate fronte palco; FASK che, per chi non ha mai ascoltato la loro musica, potrebbero essere tranquillamente definiti come i fratelli alternativi dei Pinguini Tattici Nucleari (ma con l’impatto visivo più simile a quello dei Modà, tanto per intenderci) e dotati di quella tipica ironia appartenente alla gente umbra – “Salve a tutti, noi siamo i Fast Animals and Slow Kids e arriviamo da Perugia” credo che rimarrà la frase più ripetuta di tutta questa edizione degli I-Days – e che nel loro set di sette canzoni ( tra le quali le più conosciute “Cosa ci direbbe” e “Non potrei mai”, non a caso posizionate al fondo del set) sono riusciti di certo nel loro intento di far scoprire la loro musica a “due, tre, magari dieci persone che alla fine del nostro concerto andranno a cercare i nostri album e a scoprire le nostre canzoni”.
Man mano che il sole si arrendeva all’evidenza del fatto che tutta quella fiumana di persone non si sarebbe disciolta sotto i fendenti sornioni e un po’ beffardi dei propri raggi, e abbandonava l’intenzione di bruciare ancora di più, si palesavano sul palco Paul Banks e i suoi stilosissimi Interpol, direttamente da New York, terra delle possibilità di tutti quelli che giungono a destinazione, e della dannazione di chi invece cade provandoci. Non è però quest’ultimo il caso di Banks, Fogarino e Kessler – saliti ieri sul palco nei loro completi total black a sfidare anche il sole – che invece sono proprio lì dove si proponevano di ritrovarsi più di 25 anni fa, quando in un vecchia zona della citta zeppa di loft industriali in quel di Hudson Yards (non per nulla prossima a quella Hells Kitchen che, nel computo della nostra cronistoria della giornata di ieri, ci sta dannatamente bene) iniziarono a fare ciò che ora sanno portare a compimento alla grande: stare dentro alla musica, farne parte dando un contributo più che vitale alla storia e al prosieguo della Indie music di adesso e degli ultimi 20 anni.
Musica per la musica, per farsi ascoltare dalle persone, per portare la propria idea di Rock al mondo: una idea che invero non si accostava benissimo al resto della line-up della giornata, fatta di una musica rock più standard e – a dirla sinteticamente e senza alcuna velleità di sminuirne le capacità davvero concrete di chi la suona – ‘facile’, che chiaramente ha attirato sotto al palco un pubblico decisamente non incline a ‘sentire’ concretamente il loro sound così peculiare, per il quale servono di certo orecchie parecchio più ‘istruite’ e pettinate. Ad ogni modo, in una set-list di ben tredici canzoni, partita con Untitled e con la bellissima Obstacle 1 e conclusasi con le note danzanti di Slow Hands, gli Interpol hanno dimostrato di non essere poi molto cambiati da quegli anni in cui si dividevano i palchi con gente come gli Strokes, gli Yeah Yeah Yeahs, i Tv on the radio o gli LCD Soundsystem: il loro ‘sogno’ rimane comunque sempre “arrivare con la nostra musica alle persone, essere lì a portare il nostro modo, il nostro sound” (per le referenze, il candidato vada a studiarsi il bellissimo documentario “Meet me in the bathroom”, tratta dall’omonimo libro di Lizzy Goodman, Ndr).
E così, tra un pubblico mediamente indifferente e distratto (ad onor del vero, quasi tutto, a parte uno sparuto gruppo di aficionados capitanato da una simpatica e graziosa ‘pazza’, creatrice dell’Interpol Fan club Italia, che – probabilmente unica nel novero di quelli che erano nel Pit sezione VIP – si è voluta aggiudicare un biglietto del valore di 300€ solo per ascoltare in prima fila i tre neworkesi, cantandone una per una tutte le parole. NDR), si veleggiava finalmente verso le chiare, fresche e dolci acque della musica di Paolo Nutini, lo scozzese di origini italiane dalla voce soul e dall’animo blues.
E così si accendevano sorrisi e cuori, sotto le stelline luminose che parecchie delle fan nelle prime file hanno avuto la perizia di accostare al contorno occhi: stelle che facevano anche capolino sul firmamento sopra le teste di Nutini e della sua band – una perfetta e oliata macchina da musica composta da ben sei elementi – e che ha iniziato il suo set con la graffiante Afterneath, prima canzone anche del suo ultimo album “Last night in bittersweet”, uscito l’anno scorso e già ben entrato nelle menti e nei desideri dei suoi fan. Pare proprio un Nutini che ha ampiamente superato quelle correnti “dolci e amare” nelle quali si dice abbia navigato negli anni passati tra l’uscita del suo penultimo album Caustic Love, e quella di Last Night: è un artista completo che ha raggiunto una maturità piena, dotato di quelle “cold hands and warm heart” che solo i grandi riescono a tirar fuori da sé. Sorriso e ironia, corredato da una presenza sorniona sul palco, incline anche allo sberleffo quando il pubblico inizia ad intonargli le note del più classico italico “Sei bellissimo” di Bertè memoria: e ad esser ‘bello’ davvero è suo approccio alla musica, la sua capacità di modificare il vestito di una canzone di successo come New shoes (il suo primo successo mondiale, ndr) facendola apparire lucida e nuova. Dote che davero non hanno in molti, e che fa il paio con una voce che sa vibrare e scuotere l’anima, come fa in effetti quando intona le melanconiche parole di Candy, o quando inizia ad urlare quelle di Through the echoes. Tredici pezzi in tutto, che si chiudono come da copione con una versione da brividi di Iron Sky – iniziata quasi in ‘solo’ e interrotta proprio da Paolo per far prestare cure immediate ad uno dei fan delle prime file in evidente difficoltà – e da Shine a Light, con cui davvero non ci si può più sentire “so alone?”: ma anche fosse, in questo caso tra le luci che ognuno di noi ha tenuto accese durante il concerto, più di tutte ha illuminato quella di Paolo e dei suoi sei sodali, in un miscuglio di rock e blues, palpitazioni e magneficenza musicale che, ieri notte, ci siamo dedicati tutti insieme.