Human Nights Now (prima parte)
Springsteen e Gabriel: ritorno nel belpaese.
L’8 Settembre 1988 a Torino si tiene la sola data italiana del tour Human Rights Now tour organizzato sotto la bandiera di Amnesty international nel quarantennale dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo per raccogliere fondi per l’organizzazione da sempre in prima linea nella denuncia e nella difesa delle vittime di violazioni ovunque esse vengano perpetrate.
Bruce Springsteen e Peter Gabriel, entrambi poco meno che quarantenni ed all’apice della loro fama dopo il successo planetario di “Born in The Usa” e “So”, sono i nomi di punta del programma che tocca venti città sparse in tutti i continenti e la loro presenza in quel momento è determinante per sensibilizzare centinaia di migliaia di persone al tema dei diritti.
Trentacinque anni dopo in perfetta concomitanza, entrambi settantatreenni, tornano entrambi sul suolo italico nell’ambito di nuovi tour mondiali che è inevitabile pensare potrebbero essere gli ultimi, considerata l’età, le dimensioni imponenti delle rispettive macchine organizzative che richiedono tempi lunghi per essere messe in moto e la prolificità calante soprattutto dell’artista britannico il cui ritorno con un album di inediti “I/o” avviene a vent’anni di distanza dal precedente.
Caso vuole che quindi a distanza di due giorni mi ritrovi a tu per tu – per modo di dire- con entrambi, peraltro in una settimana in cui un influenza mi gira attorno fastidiosamente mentre Giove Pluvio scaglia sul paese in pochi giorni le quantità di acqua lesinate per quasi un anno.
Springsteen e Gabriel non sono davvero artisti qualunque per il sottoscritto, appartengono senza dubbio al novero di coloro che hanno segnato in modo indelebile il mio percorso di crescita musicale e, oso dire, anche umano stante il modo in cui la loro scrittura musicale e testuale e le loro prese di posizione sociali e umanistiche hanno toccato nel profondo corde interiori nel corso del mio viaggio dall’adolescenza all’età matura.
Nella memoria ho scolpiti tre concerti per ognuno di loro: Udine 2009, Trieste 2012, Padova 2013 per Bruce e la E Street Band, Milano 1994, Bologna 2003, Milano 2013 per Gabriel.
Tutti a loro modo memorabili, alcuni (Secret World e Growin’Up tour per l’arcangelo, e l’intero Born to Run integralmente presentato a Padova per l’americano) inamovibili nella personale top ten di ogni tempo.
BRUCE SPRINGSTEEN FERRARA 18-5-2023
La vigilia della data di Ferrara del 18 maggio per il Boss è non poco complicata dall’angosciante alluvione che ha colpito la Romagna nei tre giorni immediatamente precedenti causando quattordici vittime, più di diecimila evacuati e danni incommensurabili al territorio. Il dibattito esploso sui social in attesa di ogni decisione in merito alla fattibilità del concerto da parte degli organi preposti si fa di ora in ora più rovente e continuerà a lungo anche dopo la data che viene alla fine tenuta regolarmente in mezzo al fango e alle polemiche.
La situazione al Parco Bassani, nonostante il sole che fortunatamente è tornato a splendere, non può non far pensare ai festival britannici, la paglia riversata a tonnellate nelle aree più allagate può del resto fare poco per ridurre la mole di fango in cui ci si dibatte.
Intercettiamo Sam Fender dopo aver perso l’esibizione di Fantastic Negrito, un’esibizione onesta quella del cantautore britannico la cui formula, chitarra e cantato emotivamente sempre al limite delle “righe”, molto deve al modello Ryan Adams.
Alle 19.40 I megaschermi restituiscono la passerella della E Street Band che raggiunge il palco celebrata da applausi scroscianti per ogni ingresso fino all’ovazione all’entrata di Springsteen che lancia con un “Ciao Ferrara” l’opener “No Surrender”
E’ un concerto che man mano che srotola il suo set mostra pian piano le sue peculiarità rispetto al passato. Prima di tutto la band è in versione “Big”, sul palco si arriveranno a contare, quasi per tutta la durata del set, fino a 18 musicisti con una sezione fiati possente ed una serie di coriste/i che vanno ad aggiungersi ai compagni di sempre per dare vita in modo elettrizzante a quella sezione dall’anima soul jazz molto marcata (Kitty’s Back/ Night Shift/Mary’s Place/ The E Street Shuffle e una Johnny 99 irriconoscibile) che contraddistingue, tra un classico e l’altro, la prima parte dello show.
Il secondo aspetto che emerge non appena il parco è totalmente immerso nel buio ha a che fare con la perdita, quella irreparabile che sopraggiunge quando la persona cara muore. “Last man standing”, in versione acustica e con sottotitoli sugli schermi a segnarne la rilevanza nella scaletta, è dedicata ed ispirata a George Theiss l’ultimo membro dei Castiles, il primo gruppo di Bruce, a lasciare questo mondo nel 2018. Springsteen lascia andare la favella per la prima volta dall’inizio del concerto e ricorda i suoi anni sessanta, il momento perfetto per avere una band che ti salvasse la vita, i suoi amici e l’ultimo saluto a George il cui addio in qualche modo lo lasciava a riflettere sull’amaro momento in cui pur avendo la fortuna di essere colui che sopravvive, resti circondato dai fantasmi di chi ti ha accompagnato nel corso del viaggio, fantasmi che aumentano man mano che il tempo procede il suo inesorabile corso.
L’epopea di “Backstreet”s riparte dove “Last Man Standing” termina, e l’amicizia con Terry destinata a finire assume un tono più angoscioso del solito stasera, specie nello speech sospeso che ne rende vivo il ricordo.
Anche “Wrecking Ball”, che segue una “Because the night “ da brividi, nei suoi versi che parlano di storia cittadina che viene abbattuta per questioni di mero interesse economico, acquisisce una vena molto amara, sarà forse anche il senso particolare che la citazione delle paludi del New Jersey assume alla luce di quanto appena accaduto.
Il terzo aspetto ad emergere è che non ci sono pause, non ci sono encores, la catarsi collettiva di Thunder Road che dovrebbe chiudere la prima parte dello show si lega senza soluzione di continuità all’innodica Born in the Usa che da il via al lunghissimo rituale dei saluti che si srotola tra i brani più nostalgici di quell’album (Dancing in the dark, Bobby Jean, Glory Days) la fuga alla ricerca di redenzione di “Born to Run” e l’ultima celebrazione di “Tenth avenue freeze out” che riporta sul palco lo spirito delle altre anime perdute ma impossibili da dimenticare di Danny Federici e Big man Clarence Clemmons.
Ed è ancora un ossequio all’amicizia che sopravvive alla perdita a chiudere il sipario. Bruce ed una chitarra acustica per una “I’ll see you in my dreams” dolcissima ed amarissima, un momento che ognuno di noi può fare proprio nel ricordo di chi ci ha lasciato.
The road is long and seeming without end
The days go on, I remember you my friend
And though you’re gone and my heart’s been emptied it seems
I’ll see you in my dreams
I got your guitar here by the bed
All your favorite records and all the books that you read
And though my soul feels like it’s been split at the seams
I’ll see you in my dreams
E’ finita. Resta il lungo ritorno a casa e la ancor più lunga coda polemica che per settimane avrà luogo tra rimostranze per l’assenza di ogni riferimento da parte di Springsteen alla tragedia romagnola e relative difese di ufficio o meno.
È l’ultima volta per me con Bruce, già lo so.
Quel viso segnato dell’età, quel mento che mi ha ricordato quello di mio nonno o mi ha rimandato a quello di mio padre, al di là dell’incredibile energia dell’uomo e della potenza della E street Band allargata, mi ha colpito come non avrei creduto e per la prima volta in quella versione di “Born to Run” ho faticato a trovare anche un ultimo rimasuglio di quella rabbia e di quel desiderio di riscatto che ne era stata la ragione prima. È rimasta la celebrazione, la vitalità, la festa per i tanti che l’hanno amata.
E abbastanza ma non è tutto.
Forse è perché nel mondo che mi circonda non riesco più a vedere un luogo dove correre, se non nel ricordo.
Springsteen è uno degli artisti più celebri ad avere con costanza raccontato la propria vicenda umana dall’adolescenza ai settant’anni, in modo aperto, vero, reale, senza infingimenti, cantando in parole chiare e semplici ma non prive di poesia cosa significa affrontare passo dopo passo le varie fasi della vita.
Accompagnare la parabola umana di un artista lunga più di cinquanta anni significa prendere tutto quel che ha da dare e metterlo in parallelo alla tua vicenda umana.
È stato molto bello, a volte anche doloroso, e continua ad esserlo specie adesso che la strada che entrambi abbiamo davanti si assottiglia.
Photo credits: Andrea Pavan/Ettore Craca