Le session londinesi di Jerry Lee Lewis
Il percorso iniziava a due passi da casa: si prendeva il tram numero 4 (che poco dopo diventerà il 13) e il percorso portava dritto da “Maschio“, in piazza Castello, prima di snodarsi lungo via Roma per raggiungere “Il Sottopasso“, negozietto pieno di offerte e linee economiche situato nel passaggio pedonale sotterraneo che portava alla stazione di Porta Nuova, quindi, riemergendo sul lato di Via Nizza, si percorreva la breve distanza che portava all’incrocio con Via Galliari, dove si svoltava per raggiungere “il negozio di Prigione”.
Si chiamava proprio così, l’apparentemente burbero titolare. Era un vecchio (anche se non ancora anagraficamente, ma a noi adolescenti pareva un matusa) appassionato di rock and roll delle origini. Il negozio intimidiva un po’, perché a 15/16 anni te ne stavi lì, in un angolo, con la bocca aperta a sentire “i grandi” che si raccontavano ogni volta le stesse cose, tanto che alla fine alle Due Rotonde di Cuorgnè a vedere i Genesis il 13 aprile del 1972 (circa un lustro prima, ma parevano eoni), con Banks che collassava e il concerto interrotto, ti pareva di esserci stato anche tu… Ma per noi erano La Storia, e metà di ciò che so sul rock, il pop, il jazz, l’ho appreso lì, dalla viva voce di chi “c’era“.
Parlava spesso in piemontese, Prigione (anzi, torinese. Ma la sfumatura la comprendeva solo chi in città c’era nato), e quando gli chiedevi qualcosa “dei suoi tempi” gli brillavano gli occhi, ti diceva “Che brau fiol, chi t’ses” (Sei davvero un bravo ragazzo, ndt) e allora sorrideva.
I primi dischi usati li comprammo tutti lì, era il migliore e, sinceramente, non sapevamo se ce ne fossero altri, né ci importava scoprirlo. Eravamo giovanissimi e romantici, nessuno avrebbe potuto coinvolgerci di più.
Fu in uno di quei sabati pomeriggio di caccia che, entrando con Angelo (uno cui della musica fregava il giusto, ma “almeno in centro si vedono belle gnocche” e si aggregava sempre), fummo investiti da un suono che mi era familiare, ma diverso dal solito: il nostto mentore era in ascolto di un album che stava acquistando da un tipo piccolino, secco secco, con un buffo cappellino invernale, anche se si era in estate. Uno che, raccontava, aveva ereditato quella che a noi pareva una fortuna in dischi da uno zio prematuramente scomparso, ma lui era amante dell’opera e non avrebbe mai apprezzato quella roba.
Assistetti divertito alla trattativa, perché Prigione cercava di tirare sul prezzo per l’intero blocco, del quale all’altro non fregava nulla: sembrava incredibile che uno desse via per niente cose che si sarebbero vendute molto bene e velocemente.
Intanto, il disco girava e girava, e più girava, più non vedevo l’ora di capire cosa fosse.
Conoscevo già, marginalmente, Jerry Lee Lewis, ma benché fossi già infatuato di Elvis, non mi ero ancora mai soffermato a sufficienza sugli altri precursori del rock. Di questi, conoscevo praticamente solo Bill Haley (la sigla di Happy Days, nella prima stagione, era Rock Around The Clock) e una versione “veloce” di Be Bop A Lula di Gene Vincent presente su una raccolta in cassetta (acquistata da un simpaticissimo marocchino che stazionava davanti all’ingresso dei bagni che la mia famiglia frequentava in vacanza) e della quale non ho più trovato traccia quando il nastro si ruppe. Tralascio, per pudore, il resto del repertorio di quella cassetta pirata.
La trattativa aveva portato a un esito, ed entrambi si fregavano le mani.
Chi fregò me, invece, fu un assiduo frequentatore (era quasi stanziale, si mormorava nel “giro”) che appena il nipote infedele si dileguò, prese tra le mani la copia dell’album in questione e disse perentoriamente: “Custì lu pìu mi” (Questo lo prendo io, ndt).
Mannaggia! E non aggiungo cosa mi scappò quando vidi che quel “The Session– Recorded In London with Great Guest Artists”, un doppio, aveva anche una confezione particolare: i due dischi, all’interno, erano contenuti in custodie fustellate che si inserivano negli scomparti completando l’immagine.
Prigione capì il mio nervosismo e mi disse che ne aveva un’altra copia, tenuta peggio: una delle custodie era strappata e c’erano scarabocchi vicino ai titoli. Il prezzo era irrisorio e me lo portai a casa.
Anche i due vinili avevano delle magagne, scricchiolii e un paio di righe che causavano salti, ma il contenuto sonoro era eccellente.
L’album, pubblicato nel 1973, era frutto di una sessione londinese nella quale il Killer si produceva in un ripasso “with a little help from his friends” di una serie di classici, pochi quelli già suoi, e qualcosa di più recente.
L’energia era incontenibile, la registrazione eccellente, le declinazioni del suo stile c’erano tutte, dal rock and roll al country: tutti elementi che contribuirono a renderlo il suo unico 33 giri a centrare la Top 40 (incredibile, eh? Fortissimo nei singoli, a livello di LP rimarrà sempre un outsider).
Si andava da Drinking Wine Spo-Dee-O-Dee (del grande Stick McGee, fratello di Brownie; verrà pubblicata anche su singolo, ma sfiorerà solamente la Top 40) fino al Rock & Roll Medley finale, travolgente cavalcata comprendente Good Golly Miss Molly, Long Tall Sally, Jenny, Jenny, Tutti Frutti e la classica Whole Lot Of Shakin’ Goin’ On, già presente anche nelle tracce precedenti (ma chi ne avrebbe mai abbastanza di un pezzo così?).
Una carrellata di successi della Golden Era comprendente Sea Cruise, Baby What You Want Me To Do, Big Boss Man, Memphis Tennessee, Johnny B. Goode, Waht’d I Say, senza scordare gioiellini quasi coevi, quali Bad Moon Rising (proprio quella dei Creedence Clearwater Revival e Early Morning Rain (di Gordon Lightfoot).
Il cast dei musicisti causava le vertigini, anche se allora ne conoscevo giusto un paio: da BJ Cole a Delaney Bramlett, da Rory Gallagher a Alvin e Albert Lee (entrambi chitarristi, ma non imparentati), da Peter Frampton a Kenny e Mickey Jones (entrambi batteristi, ma il primo inglese, l’altro americano), passando per Klaus Voorman, Gary Wright, Andy Bown, Matthew Fisher…
Mi pareva di sognare, anche se dovetti attendere molti anni prima di trovare un’altra copia in condizioni migliori.
Ma, nel frattempo, mi ero esaltato con la versione “The (Complete) London Sessions“, pubblicata in doppio CD dalla Hip-O-Select nel 2006, con aggiunta di “quisquilie” del calibro di (I Can’t Get No) Satisfaction e Be Bop A Lula (to’, rieccola!), portando a un totale di 24 pezzi un programma che originariamente ne comprendeva 19 (attualmente è fuori catalogo, ma è reperibile usato, benché a prezzi poco invitanti, ne convengo). In alternativa, sappiate che lo scorso anno è stato ripubblicato in Giappone. Se, invece, lo voleste a tutti i costi in glorioso vinile, diffidate dalle edizioni successive al 1974, dato che in vari casi è stato pubblicato in due volumi separati.
I pellegrinaggi continuarono per anni, ma man mano che crescevamo, sparivano i più anziani e si cercavano nuovi riferimenti.
Ma fu così che mi misi in casa il primo disco di Jerry Lee Lewis, cui avrebbero fatto seguito numerosi altri capitoli di una discografia non sempre all’altezza di questo.
Il consiglio che posso darvi è quello di affiancargli una robusta antologia (Discogs ne riporta oltre 600, ma con la sua dipartita credo che Jerry godrà di ulteriori attenzioni) e almeno altri due titoli.Il primo è “Last Man Standing – The Duets”, sorta di Capitolo II dell’oggetto di questo ricordo personale, eccellente in virtù di partecipazioni sorprendenti anche da un paio di personaggi che si potrebbero considerate “di troppo” e invece fanno una discreta figura.
L’altro è un live risalente al 1964 (risulterebbe il quarto album pubblicato in carriera) e dal titolo “Live At The Star Club, Hamburg”, fedele fotografia di una performance incendiaria nel club dal quale erano partiti certi ragazzotti inglesi che avrebbero avuto discreta fortuna proprio mentre lui pareva in declino a causa delle ben note “intemperanze” e lo scandalo del matrimonio con la cugina tredicenne ancora ben fisso nell’immaginario collettivo.
Ormai in rete si trova di tutto, ascoltate e ne converrete.
Buon viaggio, Killer.