Live Reports

RITORNO A HOPELAND: Sigur Ros Gran Teatro Geox 3/10/2022

Sono all’aperto, nello spazio antistante al teatro, un panino in mano a scambiare due chiacchiere con amici, e quasi per caso avverto la vibrazione in sottofondo, i bassi inequivocabili, la linea armonica appena percettibile. Guardo l’orologio: le 9 precise, questi islandesi hanno attaccato puntuali al minuto. Ci affrettiamo ad entrare nella tensiostruttura mentre il suono inconfondibile riempie ogni spazio man mano che ci avviciniamo e alla fine ci immergiamo nel buio della sala.
Il palco è rosso scarlatto e due schermi ai lati ne triplicano l’effetto ottico. La silhouette inconfondibile di Jonsi, chitarra e archetto come consueti compagni, si stacca dal buio mentre la melodia di “Vaka” abbraccia una platea in silenziosa attesa, una lunga attesa durata almeno cinque anni per chi i Sigur Ros  li aveva intercettati nel 2017, ben dieci per il sottoscritto che li aveva salutati al culmine della colossale esibizione che chiuse il Perfect Day Festival a Villafranca nel lontano 2012.
Ero un’altra persona allora, la mia vita stava cambiando in modo radicale proprio in quei giorni ed il peso che mi portavo nell’animo piagava ogni momento, anche il più atteso. Il silenzio che calava come una mannaia al termine della devastante chiusura di  “Popplagið” in quella notte di fine agosto appariva quasi un come sipario sul passato mentre il futuro era vago e ancora tutto da costruire.
Fast Forward….Aprile 2022: una settimana di tour immersivo nell’Isola di ghiaccio e di fuoco ai limiti estremi del continente si nutre per gran parte del tempo del suono maestoso dei Sigur Ros. E’ ovunque, sia quando si diffonde nel nostro furgone dalle casse audio, sia quando risuona soltanto nella mia testa ogni volta che mi trovo faccia a faccia con luoghi che ho avuto modo di conoscere guardando e riguardando negli anni Heima, il film sul tour di ringraziamento con cui la band salutò la popolazione dell’Isola dopo aver raggiunto una popolarità mondiale del tutto inattesa.
Il cordone ombelicale profondo che lega la musica dei Sigur Ros all’Islanda risulta del tutto evidente guardandone le immagini, tanto che trovandomi per la prima volta faccia a faccia con quella natura incomparabile non mi era concepibile pensare che detti luoghi potessero parlare una lingua diversa da quel “Vonlenska” o “Hopelandic” che emergeva dai dischi del quartetto. Ed anche una volta tornato a casa erano quelli gli echi che continuavo ad avvertire.
I Sigur Ros si erano appena ridestati dal lungo stato di letargo in cui si erano rifugiati dopo l’abbandono di Kjertan Sveinsson per ragioni musicali e quello di Orri Pall Dyrason per le accuse di molestie. Il rientro del tastierista, fervida ed indispensabile sorgente di tante delle migliori idee del gruppo, aveva ridato fiato al progetto che, tacendo a livello discografico dal 2013, aveva progressivamente perduto quel ruolo rilevante nell’arena delle band che contano conquistato nel decennio precedente.
Sono solo in quattro sul palco: il nuovo batterista, che riesce a non far rimpiangere Orri, ed i tre fondatori. I primi piani sugli schermi restituiscono i loro volti maturi, brizzolati, un po’ appesantiti, qualche ruga in più.  Quella sorta di elfi incappucciati ritratti nella la fotografia a corredo della recensione di Agaetis Biryun su un numero di Rumore del 1999 sono solo un ricordo. Del resto i segni del tempo non risparmiano nessuno.
Per fortuna l’elisir di lunga vita i Sigur Ros sono riusciti a farlo bere alla loro musica che oggi come allora è atemporale, a tratti appare appena forgiata mentre un attimo dopo è come se giungesse dagli abissi del tempo.
Scorrono uno via l’altro i primi tre brani del disco senza titolo, quello con le parentesi che si aprono sul pallore di un ghiacciaio che solo adesso, dopo aver viaggiato sugli altopiani islandesi, riconosco come tale . Era il 2002, inverno, era freddo fuori ed ero sotto le coperte mentre lo ascoltavo per la prima volta. Credo di aver pensato quella sera che quella che mi gocciolava nelle orecchie fosse la musica più bella e pura dell’universo, il suono del cosmo, in grado di sfiorare le parti più intime dell’anima.
Come allora mi lascio avvolgere quasi in un bozzolo dal falsetto con cui Jonsi ricama il suo filo fatato sulla trama di suono costruita con studiata lentezza dagli altri musicisti.  Il pubblico religiosamente rapito in una sorta di trance estatica avvampa letteralmente come fiamma al termine delle esecuzioni ed appena le prime note di “Sven f Englar” prima  e “Ny Batteri” poco più tardi  riempiono la sala il boato è assordante.
C’è spazio per un paio di brani meno noti tratti dai singoli e di un inedito: “Gold 2” in questa prima parte del set che si interrompe un po’ a sorpresa per lasciare il pubblico in speranzosa attesa per un buon quarto d’ora, in una sorta di richiamo a quei trenta secondi di sospensione che separavano la prima e la seconda parte di ( ).
Nell’istante in cui i bassi profondi di “Glosoli” diventano riconoscibili il brusio distratto si trasforma in una cascata di mani, le immagini sullo sfondo restituiscono i bimbi del videoclip che si tuffano da una rupe per scoprire, o forse lo hanno sempre saputo, che possono  fluttuare nel vuoto, e adesso si… davvero il concerto prende il volo.
“E bow” e “Saeglopur” con il suo staccato di piano che squarcia il buio mantengono altissimo il tasso emozionale ed arriva il momento di rendere omaggio a Takk.. probabilmente il loro disco più noto, quello che nel 2005, grazie soprattutto al singolo “Hoppipolla” ed al suo incredibile videoclip, li trasformò di colpo nelle rockstar più improbabili che il mondo avesse mai visto dai tempi di…. Bjork probabilmente.
E cosi “Gong” e “Andvari” mi riportano indietro a quei giorni del 2005 in cui per la prima volta sedetti al capezzale di una persona, il nonno di quella che sarebbe stata mia figlia, fino a vederla spirare, e ricordo me stesso chiuso in macchina incapace di ricacciare indietro le lacrime mentre la nenia conclusiva degli archi di “Andvari” pareva spremermi come un limone.
I dieci imponenti minuti di “Festival” con la sua coda saltellante in cui Jonsi carica il pubblico a ondate  e l’impeto industrial di “Kveikur” title track dell’ultimo vero album, lasciano infine spazio al rito conclusivo di quella ““Popplagið”, brano di chiusura di ( ), che da vent’anni conclude con la forza di un vulcano in eruzione sotto il ghiaccio ogni concerto della band.
Risulta quasi impossibile tentare di spiegare a chi non vi ha mai assistito l’immensità del crescendo conclusivo, quando la musica, partita in sordina, continua a salire e salire e ancora ad arrampicarsi verso il cielo, unico vero limite, lasciando all’improvviso dietro di se solo facce attonite in un’orgia di feedback.
Ed anche questa sera, come in ogni occasione a partire da quel 2003 in cui fui testimone per la prima volta di questo incantesimo chiamato Sigur Ros, sono un po’ spaesato quando si riaccendono le luci ed i quattro musicisti vengono a raccogliere il saluto appassionato della platea avvolgendosi per un attimo anche in un tricolore lanciato sul palco, è come se mi mancasse l’equilibrio dopo essere stato abbagliato da una luce bianca violenta al punto da stordirmi.
Sono trascorsi quasi dieci anni dall’ultimo incontro con gli islandesi e da allora è cambiato tutto. Noi ed il mondo intorno. Tutto diverso tranne il senso di sacralità che prende possesso dell’animo quando quel suono inconfondibile riempie lo spazio. Quello è intoccato.
Se mi si chiede qual è, nel tempo, l’ultima band che mi ha davvero fatto pensare di essere di fronte a qualcosa di inaudito riuscendo allo stesso tempo a smuovere qualcosa di davvero profondo nell’anima il nome è uno: Sigur Ros
Purtroppo sono passati venti anni.
E nonostante abbia visto e sentito tanta altra bella musica in seguito, quello shock non si è più ripetuto.

E’ stata l’ultima volta.

 

 

 

 

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".