Roberto Calasso, “Allucinazioni americane” (Adelphi)
“Il regno del figmentum presuppone una sovranità illimitata, quella della mente. Nulla può lederla. Al tempo stesso, è un regno che può essere considerato del tutto illusorio, perché è fatto soltanto dalla mente.”
Roberto Calasso, “Allucinazioni americane” (Adelphi)
Io amo Hitchcock da ancora prima di saper amare, da quell’età in cui le cose succedono per imprinting e si generano colpi di fulmini istintivi ed eterni; per me lui rappresenta da allora una sfida intellettuale ed emotiva, una passione: ho guardato i suoi film con l’attenzione che riservo solo alle cose e alle persone speciali e con il conseguente desiderio di sapere tutto e capire tutto. Per tutte queste ragioni non poteva sfuggirmi il breve saggio di Roberto Calasso che, attraverso alcune accurate riflessioni, intende rendere visibile il filo che lega “Vertigo” e “La finestra sul cortile”.
Il valore metaforico dei film di Hitchcock, l’uso che fa della suspense, del ritmo, dei dettagli della narrazione sono da sempre per me uno stimolo inesauribile e divertente, anche se condivido l’affermazione dell’autore (peraltro valida per tutti i più grandi registi o scrittori) che “si è sempre in errore, per difetto o per eccesso, nell’attribuire intenzioni a Hitchcock”: Hitchcock forse non voleva analizzare le persone reali e i loro rapporti ma solo fare film (e li faceva dannatamente bene), eppure questo non vieta a chi li guarda di ragionare a partire da ciò che racconta e da come lo fa.
La trama di “Vertigo” ad esempio dice molto anche dei nostri tempi: al centro c’è naturalmente il tema del doppio, una finzione costruita con strategia e rivolta ad un destinatario preciso, alle sue fragilità conseguenza di un passato doloroso (e chi non ce l’ha?). Come intuisce Calasso, il “figmentum” è il nucleo del film: la parola è latina e deriva etimologicamente dal verbo “fingere”, da cui il significato di rappresentazione, illusione, copia.
Non trovo differenze sostanziali da ciò che accade oggi spesso sui social, dove l’interpretazione minuziosa di un copione è alimentata dalla natura virtuale dei rapporti, dalla loro consistenza friabile e aleatoria. Facile a queste condizioni interpretare una parte, corrispondere all’immaginario di un destinatario prescelto, esattamente come è stato per Madeleine diventare proprio ciò che Scott voleva vedere in una spirale vertiginosa nella quale le debolezze di uno non fanno che alimentare la forza dell’altro e il suo gioco potenzialmente infinito.
In “Vertigo” la soluzione è nell’alto di una torre, dalla quale ogni cosa precipita, tragicamente. E forse anche nella vita virtuale piena di sciocche finzioni la cosa migliore è trovare qualcuno di reale (come nell’ultima scena del film) che dica semplicemente “Ho sentito delle voci”, mentre tutto il resto finisce nel vuoto.