Josh Ritter, “Una grande, gloriosa sfortuna” (NN)
Una storia di taglialegna, che parla di tutto il resto.
Josh Ritter è un cantautore americano con una decina di album all’attivo: scrive folk e ballate, canzoni dai testi poetici e intensi, ricche di immagini in versi ai quali la melodia aggiunge atmosfera e suggestioni, qualcosa che potrebbe ricordare Bob Dylan o Leonard Cohen.
Le sue canzoni raccontano storie e in quanto tali sono scritte per essere ascoltate e riascoltate, per scavare nell’anima e tirarne fuori sensazioni ed emozioni; sono frammenti di un quadro che ognuno sovrappone al proprio, incastrando le strofe all’incrocio dei propri tormenti: parlano di solitudine, abbandono, distanza, nostalgia.
L’ho ascoltato parecchio e il suo stile mi piace, la sua voce fa quello che deve, tra i miei pensieri.
Ma ad un certo punto della sua carriera l’urgenza di raccontare ha preso il largo, accostando parole e personaggi, episodi, descrizioni, fino a non poterle più contenere nel perimetro di una canzone.
E si è fatta romanzo.
“Una grande, gloriosa sfortuna” è nato proprio così, non dal bisogno narcisistico di farsi notare o come esperimento capriccioso di una star: sono strofe che travalicano lo spazio dello spartito e riempiono pagine bianche.
Ed è tra queste pagine che Ritter cede la voce narrante a Weldon Applegate, 99 anni e una vita da raccontare selvatica, ruvida, arida, sostenuta dall’odio come i fiori finti vengono attraversati dal filo di ferro per restare in piedi: eppure non è un sentimento meschino, quello di Weldon. È piuttosto una specie di istinto primitivo che lo muove alla ricerca di rivalsa, di vendetta, di giustizia: un tredicenne così ingenuo da risultare tenero e goffo a capo di una squadra di taglialegna, un vecchio che ormai vive su una roulotte, così ironico da strappare sorrisi, mentre ricorda la fatica, la rabbia, il dolore, la morte intorno a lui. Dentro di lui.
Potrebbe sembrare una lunga epopea americana, di quelle che insegnano che tutto è possibile se ci credi davvero, una storia di formazione che trasforma un ragazzino spaesato in un uomo di successo.
Non pensateci nemmeno.
Tornate con la mente a una ballata, nelle orecchie voci amare e stanche, voci che si spezzano e si piegano sotto il peso delle emozioni. Poi immaginate una foresta, sentite il profumo di resina, di legna bagnata, di acqua marcia sotto un cielo carico di neve, da lontano il suono del vento e i colpi di un’ascia.
Concentratevi sull’odore di affumicato, di alcol dozzinale, di sangue rappreso nella memoria. E di vaniglia. Quella, sempre fresca, nei pensieri.
A questo punto lasciatevi andare, come tronchi abbandonati alla fluitazione e seguite Ritter in una avventura leggendaria, affondando nel crogiolo di miti pieni di fascino, di magia. Quasi una filosofia di vita.
È un viaggio speciale quello che si fa nel corso di questo romanzo, inseguendo un odio viscerale, sfiorando l’amore solo per caso, al suono del ritornello maledetto di “Some somewhere”, una canzone che non esiste ma che non ci si toglie più dalla testa.
È un romanzo ma potrebbe essere una nuova bibbia, tanto è fisico e metafisico insieme, concreto e onirico, magico e crudele.
Qui il Sogno non è che un liquore distillato secondo una ricetta segreta da una ragazza vestita di tela e flanella pesante, col viso punteggiato di lentiggini come granelli di zucchero di canna e lunghissimi capelli color miele.
È un Sogno in bottiglia, nascosto negli incavi degli alberi e sotto le travi di legno per sfuggire alle leggi del Proibizionismo. È un Sogno in bottiglia, dicevo, inebriante come lo sono tutti.
Ma basta poco perché sul fondo di vetro compaia un piccolo grumo di sedimenti corrotti, di scorie pesanti: è così che il Sogno diventa Angolo Oscuro. Tutt’altro sapore.
E non ditemi che non è esattamente questo il rischio che si corre a sognare.
Questo.
E che il tronco che volete abbattere nel mezzo della vostra personale foresta, che avete inciso a colpi sofferti d’accetta, cada dalla parte sbagliata.