Straight Songs of Sorrow
Mark Lanegan era un misfatto del grunge, uno sbandato del folk-blues, un tossico dei bassifondi. Portava tutti i suoi anni stampati in faccia. La pelle era gonfia eppure stirata come un lenzuolo. Gli occhi sottili e ambrati ti trafiggevano. Anche la folta capigliatura sembrava filata dalle mani del tempo e martellata da una tragica esistenza. Eppure negli ultimi anni trasudava consapevolezza. Quella del rock’n’roll è una strada lunga, tortuosa, piena di inganni. Poche paia di occhi ti guardano quando arrivi, cento quando stai per andartene. Se gli avessero preconizzato che a quasi sessant’anni avrebbe ancora fatto questo mestiere, si sarebbe messo a ridere. Eppoi c’era la voce, profonda, irregolare, che invocava lo spirito di Tom Waits, Johnny Cash e Jim Morrison. Pochi avevano quell’inspiegabile quid nel timbro, emotivo e straziante. Ossessionante, rauca, sorprendente, dilaniante, rabbiosa, dolorosa, oscura, ultraterrena, un tesoro ruvido e baritonale.
Gli Screaming Trees si formarono verso la metà degli anni Ottanta, a Seattle. Le prime registrazioni ci rivelano un Lanegan più morbido, nell’intonazione e nella voce, era giovane, pareva che non sapesse cantare. Gli anni a venire, quelli delle terribili dipendenze, probabilmente ebbero un forte impatto sulle sue corde vocali, ma suo padre aveva lo stesso timbro roccioso e io sto sempre dalla parte della genetica, ma se ascoltate l’EP “Other Worlds” (1985), è difficile credere che il cantante sia lo stesso che ringhia in “A Song For The Dead” dei Queens Of The Stone Age. Tra il 1986 e il 1989, incisero praticamente un album all’anno. “Clairvoyance” l’esordio su Velvetone e tutti gli altri, “Even If And Especially When”, “Invisible Lantern” e “Buzz Factory” per la SST. Si affidarono alla cura di Jack Endino uno che aveva creato il superfuzz dei Mudhoney e dei Tad. Come i Meat Puppets, avevano in formazione due fratelli, uno alla chitarra e l’altro al basso, Gary Lee e Van Conner. La loro musica era la versione densa e umida dei formicai sonori dei Puppets. Gary Lee Conner era il chitarrista più frenetico dai tempi di D. Boon, e, come una corrispondenza visiva con la musica, lui e suo fratello carambolavano sul palco come rinnegati. Mark era un palo, fisso e immobile come l’asta del suo microfono. Affinarono quel mash-up unico di suono classico e moderno, lo stesso clima di Minneapolis, di band come Replacements, Soul Asylum e Hüsker Dü. La filosofia stracciona del fai da te: fai un disco, sali sul furgone e vai in tour. Il romanticismo. Tutto accadde con semplicità. Basta soffermarsi su canzoni come “Cold Rain” (da “Even If And Especially When”), “Ivy” (da “Invisible Lantern”) o la meravigliosa tripletta di “Buzz Factory”, “Where The Twain Shall Meet”, “Black Sun Morning” e “End Of The Universe”. L’ EP “Change Has Come” fu il classico disco ponte che denotava la maturazione di un suono. Solido dall’inizio alla fine, l’EP rappresentò il presagio del potenziale creativo che gli alberi urlanti avrebbero plasmato nelle successive uscite.
Lanegan iniziò a scrivere molto materiale, portò le sue canzoni alla Sub Pop e, con sua grande sorpresa, l’etichetta lo incoraggiò a incidere un album. “The Winding Sheet” fu registrato in tre giorni e mixato in altri tre. La cover di Leadbelly “Where Did You Sleep Last Night” è un’interpretazione ossessionante. Kurt Cobain e la sua versione unplagged arrivarono dopo.
Del 1991 è il primo album con la A&M. “Uncle Anesthesia” non guadagnò mai i riconoscimenti della critica come fecero altri dischi del periodo, “Badmotorfinger” dei Soundgarden, “Nevermind” dei Nirvana e “Ten” dei Pearl Jam. Tuttavia, mostrò il conseguimento di un picco creativo. “Before We Arise”, che spesso apriva i loro concerti mi scuote ancora ogni volta che la sento. La voce di Lanegan è il punto focale di uno scarno arrangiamento, sembra provenire dalle profondità di una caverna in quel suo oscuro incipit che recita maniacalmente: “Blackness all around… Can you wake me?”. Alla fine del 1992 uscì il film di Cameron Crowe “Singles”, la colonna sonora era un benefit per tutti quelli saliti sul carro dei Pearl Jam, ma sepolta sul secondo lato c’era “Nearly Lost You” degli Screaming Trees. Sarebbe stata l’apripista di “Sweet Oblivion”. Dall’apertura di “Shadow Of The Season”, “Said Lord please give me what I need/He said there’s pain and misery/Oh sweet oblivion feels alright”, “Sweet Oblivion” si configurava oscuro nei testi e nell’indole. La voce di Lanegan si innalzava sopra chitarre eccitate e una batteria catartica, a dispetto, o forse, a causa di una totale assenza di luce. Stavano tagliando in profondità le radici del suono americano. “Dollar Bill” era un incanto, mentre in “For Celebrations Past” Lanegan come un Jim Morrison dei giorni nostri incanalava uno spirito antico e magico.
Nel frattempo, pubblicò il suo secondo lavoro da solista “Whiskey For The Holy Ghost” (1994), sempre su Sub Pop. Gli avrebbe concesso la possibilità di esplorare qualcosa di diverso. Un disco di intensa bellezza. I testi, densi di metafore sulla morte, prendono vita dal suo contegno sfocato che fluttua dalle voragini di un subconscio ossessionato. Un delizioso compagno per l’ultima chiamata in purgatorio, come scrissero sull’Entertainment Weekly. Lanegan collauda racconti ubriachi di dolore e sconfitta con una voce che sussurra tra archi e chitarre acustiche, ma pesanti, mentre canzoni come “Pendulum” rivelano un narratore con una portata solo accennata in precedenza.
Mentre lottavano per mettere insieme il dopo “Sweet Oblivion”, registrò e suonò dal vivo con i Mad Season, il progetto del chitarrista dei Pearl Jam, Mike McCready, del cantante degli Alice In Chains, Layne Staley, del bassista John Baker Saunders e del batterista degli stessi Trees, Barrett Martin. Nel 1995 pubblicarono “Above”, su due brani spiccava la voce di Lanegan, “I’m Above” e “Long Gone Day”.
E ci vollero quattro anni per il seguito di “Sweet Oblivion”. “Dust” uscì nel 1996. Leggermente più rifinito, ma altrettanto epico. C’è un’asfissiante abbondanza di blues in gran parte del disco, il prodotto di una band con una presa costante sulle dinamiche del rock, i sapori orientali di “Halo Of Ashes” e la squillante “Dying Days” ne sono una prova inconfutabile. Il gruppo non si scioglierà fino al 2000, ma “Dust” si dimostrò un appropriato commiato.
Si prese altro tempo per affrontare i suoi abusi, alcol e eroina. Si diresse al Joshua Tree con Mike Johnson e una serie di altri musicisti, J. Mascis e Tad Doyle, il ciccione, per registrare “Scraps At Midnight”. Era il 1998. Dieci canzoni meravigliosamente malinconiche, “Scraps At Midnight” proseguiva l’inclinazione a pubblicare dischi struggenti, aveva un’atmosfera unica, il suo baritono crepuscolare ed evocativo ricordava Leonard Cohen, ma il suo cupo romanticismo suonava con un’autenticità irraggiungibile. In canzoni come “Waiting on a Train” e “Hotel” persistono i sommessi vagabondaggi dei dischi precedenti, ma la redenzione viene dagli accenni di rassegnazione in brani come “Last One in the World” e “Because of This””.
Lanegan e Johnson nel 1999 pubblicarono l’album di cover “I’ll Take Care Of You”. Sulla title track di Brook Benton, è un’anima tormentata che farfuglia promesse di un domani migliore all’ultimo cuore spezzato, ma le interpretazioni di “Consider Me” di Eddie Floyd e “Together Again” di Buck Owens, insieme alla spacconeria di “Boogie Boogie” di Tim Rose, ti lasciano il suo codice morale inciso sulla pelle, la sua padronanza del pathos.
Nel 2000, quando i Queens Of The Stone Age uscirono con “Rated R”, la voce di Lanegan era presente su “In The Fade”, “Auto Pilot” e “I Think I Lost My Headache”, tanto da finire in tour con loro nel 2002 e nel disco “Songs For The Deaf” dello stesso anno. Porta una strana spensieratezza nella stramberia biblica di “God Is In The Radio”, mentre in “Hangin’ Tree” gronda di malvagità appena nascosta.
Il 2001 è l’anno di “Field Songs”. Fu pubblicizzato sulla stampa come un disco più rock dei precedenti, ma non rappresentava un significativo cambiamento. Qualche chitarra elettrica in più non faceva la differenza. Etichette a parte, “Field Songs” è l’ultimo momento di luminosità prima di andare alla deriva. Ci sono canzoni di grazia onirica, come “Field Song”, che suona come Leonard Cohen fino a quando non sfuma in una inconsueta chitarra e canzoni cariche di elettricità, come la psichedelia contorta di “No Easy Action”. Nel 2004 “Bubblegum” per Beggars Banquet. È un disco che oscilla stilisticamente tra ballate acustiche e elettriche. Duetta con PJ Harvey su “Come To Me”, Izzy Stradlin e Duff McKagan aggiungono zavorra alla meravigliosamente stanca “Strange Religion” e Josh Homme infila rabbia nel rock sferragliante di “Methamphetamine Blues”. Queste canzoni redentrici di lussuria, desiderio e psicosi da droga sono graffiate e malinconiche, altre volte spaventose. Ma il momento più toccante dell’album è il canto a due voci che esegue con la ex intitolato “Wedding Dress”. Nel testo un fugace, confuso riferimento a Johnny Cash: “We got buried in a fever”. Cash e June Carter cantavano in “Jackson”, “We got married in a fever”. Un ragazzo tossico poteva fare più male dell’Uomo in Nero. “Bubblegum” è una vera e propria rinascita.
Del 2006 il primo degli album nati dalla collaborazione con Isobel Campbell, “Ballad Of The Broken Seas”. Il cocktail tra il ringhio di Lanegan e la voce eterea della Campbell funziona a meraviglia. Sono improbabili, ma lui è un coriaceo Lee Hazlewood e lei fa le fusa come Nancy Sinatra. Combinare il twee pop con il country più nerboruto, cantando di sesso orale e redenzione per amore, o rifare “Ramblin’ Man” di Hank Williams, usando una frusta come strumento di percussione, potrebbe sembrare pacchiano, ma “Deus Ibi Est”, con il suo raschiare prosciugato, ti porta in un viaggio squallido e annerito dal tempo. Il giusto equilibrio tra angelo e diavolo, nonostante il fragile contralto dell’ex Belle & Sebastian, si rivela più di una promessa che si rinnoverà per altri due dischi “Sunday At Devil Dirt” (2008) e “Hawk” (2010) dove canzoni ricoperte di polvere e arrangiamenti emozionanti forniscono il veicolo ideale per il vissuto di Lanegan, che si tratti del blues acustico di “You Won’t Let Me Down Again”, di “Time Of The Season” o della forza guascona di “Get Behind Me”.
Nel 2008 i legami profondi con l’ex Afghan Whigs, Greg Dulli, lo portano al progetto Gutter Twins. “Saturnalia” è il disco di sedicenti e satanici Everly Brothers, gloriosamente post-grunge e dolorosamente profondi, alimentati dal piacere condiviso per il frutto proibito della vita. Lanegan eccelle sull’inno “Idle Hands” e sulla rumorosa “Bête Noire”, in cui geme alla luna come un licantropo perso sopra un ritmo intimidatorio.
È inarrestabile, fin dai tempi degli Screaming Trees, è stato l’aedo di un angolo oscuro e polveroso del paesaggio musicale americano, i dischi con la Mark Lanegan Band, “Blues Funeral” del 2012, “Phantom Radio” del 2014 fino a “Gargoyle” del 2017 e “Somebody’s Knocking” del 2019 ne sono testimonianza. Dalla profonda, scampanellante chitarra gotica di “Harvest Home” ai gelidi synth di “Floor Of The Ocean” che convogliano Joy Division e Echo And The Bunnymen nel loro momento più cupo.
Resta il solista “Imitations” del 2013 e i dischi con Duke Garwood “With Animals” e “Mescalito” del 2018 che chiudono un’irrefrenabile e sterminata discografia qui appena accennata. “Imitations” è un altro disco di cover con una superba interpretazione di “Solitaire” di Andy Williams e un brillante arrangiamento in stile Bacharach di “I’m Not the Loving Kind” di John Cale, mentre “Brompton Oratory” di Nick Cave è trasformata in un corposo brano jazz lounge.
Del Lanegan scrittore degli ultimi anni è presto detto. “Sing Backwards and Weep”, il suo memoir del 2020, è il racconto di un adolescente, delinquente e alcolizzato, che si disintossica, ma che trova pace effimera solo dall’abuso di eroina. Un veterano della violenza, sul palco, nella grande città come nella campagna, nei parcheggi, nelle sale da biliardo e nei vicoli più bui, un duro viaggio descritto con umorismo nero come il carbone, come nella fatidica citazione “I could see [Gallagher] as a kid in short pants on a bright sunny day, gleefully jacking his minuscule dick while frying ants under a magnifying glass” e rosso di sangue vivo. L’ultimo disco “Straight Songs of Sorrow” non è diverso nella sua nuda e cruda onestà. La sua bellezza è la continua commutazione tra luce e oscurità che a volte sembrano forze opposte come nell’epica e stridente “At Zero Below” con Greg Dulli e Warren Ellis.
Pochi hanno suonato come Mark Lanegan. Nonostante le terribili punizioni che ha dovuto subire nel corso della sua carriera, è stato uno degli artisti più prolifici della sua generazione. Più scarno era l’arrangiamento, migliore era il risultato, proprio come il Johnny Cash di “American Recordings”. Proprio come il suo libro, un’onesta, personale immersione nella psiche di un artista che lottava sempre contro gli altri e contro se stesso. E in mezzo al tono crudo e confessionale un infinito tremito esistenziale che tutto permeava seppur soffocato da una speranza ormai irreparabilmente ferita.