Sixties Stones
England’s Newest Hitmakers (1964)
NB: Questo articolo segue il catalogo americano dei Rolling Stones piuttosto che le uscite inglesi, perché la sequenza di album finisce per essere più completa, includendo singoli e altri brani pubblicati solo per il mercato oltreoceano.
“Che senso avrebbe ascoltarci mentre facciamo “I’m A King Bee” quando potreste sentire Slim Harpo?”, dichiarò in un’intervista Mick Jagger, nel 2016, quando sia l’originale del 1957 sia la cover degli Stones del 1964 si erano ormai fusi nella stessa dimensione temporale.
Ho preso l’originale l’ho suonato spalla a spalla con la cover. La prima e più ovvia cosa che si nota è la produzione: naturalmente, gli standard del 1964 dei Regent Studios di Londra fecero in modo che tutti gli strumenti suonassero più nitidi e chiari rispetto a quelli del 1957, a Nashville. Questo, comunque, non è che un vantaggio tecnico. Molto più importante il fatto che i ragazzi avessero capitalizzato il potenziale della canzone. Bill Wyman inchioda il riff di un basso ronzante in modo che suoni ancora più sottile e minaccioso dell’originale, mentre nella pausa strumentale, dopo l’incitante “Well, buzz awhile”, parte un assolo, poi, al culmine di “Sting it babe!”, dove Harpo emetteva solo tre note, Brian Jones fa rimbombare la sua chitarra come un furibondo alveare che ti si scatena addosso. Sciocchezze sono state diffuse a proposito delle “imitazioni blues senza anima dei ragazzi bianchi” della British Invasion, a volte c’è un granello di verità, ma nel caso dei Rolling Stones è un concetto completamente sbagliato. Il fatto è che i primi Stones avevano, fin dall’inizio, un approccio più creativo di quello dei Beatles, il che potrebbe essere anche una delle ragioni per cui impiegarono così tanto a superare la loro timidezza e iniziare a scrivere canzoni originali. Non sentivano il bisogno di scriverne di nuove, perché erano semplicemente soddisfatti di come riuscivano a reinventare gli altri. Ok, ma la voce? Un bluesman della Louisiana suonerà più convincente e autentico di un moccioso ventunenne di Dartford che il Delta del Mississippi non l’ha mai visto. Ma, ancora una volta, questo tipo di logica è valida solo se lavoriamo partendo dal presupposto che Mick Jagger volesse cantare come Slim Harpo e che l’idea fosse quella di dare un’impressione credibile del potere sessuale trasmesso attraverso la musica blues. Se, invece, partiamo dal presupposto che la musica blues fu scelta come espediente di partenza per sfogare la sessualità repressa del giovane inglese, beh, in questo caso, devo dire che Mick ha molto più successo nel raggiungere il suo obiettivo personale di quanto ne abbia avuto Slim Harpo, perché nessuno nell’Inghilterra del 1964 cantava come Mick Jagger. Nessuno, nemmeno un’anima perduta.
Presi uno per uno, Eric Burdon, Roger Daltrey, Paul Jones, Keith Relf, Phil May, senza considerare i Beatles, non c’è nessuno che possa anche solo avvicinarsi a Jagger in termini di un’inequivocabile mistica aggressiva; non era corpulento, era un midnight rambler che suonava acuminato come un coltello e, allo stesso tempo, sogghignante e presuntuoso come il demonio. E sì, più di mezzo secolo dopo, potremmo sorridere dell’immagine pericolosa che fu così accuratamente costruita per lui e gli altri nel 1964, ma il fatto è che questa “I’m A King Bee” suona dannata per l’epoca. Non contano la promozione, le foto, i comportamenti offensivi: i Rolling Stones erano considerati pericolosi perché la loro musica suonava pericolosa. La versione inglese di questo disco, a differenza dell’americana, si apre con la cover di “Route 66” di Chuck Berry, un rock’n’roll in tre accordi che non echeggia diverso da “I Saw Her Standing There” dei Beatles se lo si riduce a nude strutture. “Route 66” e “I Saw Her Standing There” sono energiche aperture per catturare attenzione e devozione; ma, mentre i Beatles usano l’energia del rock’n’roll per stimolare in un adolescente gioia e esuberanza, gli Stones la usano come un ingranaggio voodoo. La canzone, che era un’ode innocente ai viaggi sulle highway americane, qui è trasformata in un gioco mistico: Jagger elenca tutte queste enigmatiche parole, “Amarillo”, “Gallup”, “New Mexico” e “Flagstaff, Arizona” come se facessero parte di un qualche incantesimo di magia nera e lo stesso verso “Would you get hip to this kindly trip/Take that California trip” risuona in questo contesto come drogato. Nel 1964 gli Stones emersero sulla scena come la più tagliente di tutte le nascenti band britanniche. Ancora una volta, ascoltate il modo nel quale interpretano “Route 66” o “Carol” nel contesto dell’epoca, nessuno suonava con la stessa velocità, tenuta, con quell’energia cattiva, esile e concentrata. Uno dei grandi misteri che non sono mai stato in grado di comprendere è come ebbe origine la loro sezione ritmica. Saranno state le fascinazioni jazz di Charlie Watts o la maturità, non solo artistica, di Bill Wyman, ma fin dai primi secondi di “Route 66”, è chiaro quanto fossero un unicum. Quasi tutto qui profuma di creatività ed eccitazione. Per “I Just Want To Make Love To You”, era chiaro che non avrebbero potuto replicare alla spavalderia del dio dell’amore fisico, Muddy Waters, così accelerano a un tempo folle, sottoponendo le loro adolescenti fan a una foga a rotta di collo. Per “Honest I Do”, Jagger non replica la voce sdentata di Jimmy Reed, punta sull’interpretazione, non parla sul serio quando canta “I’ll never place no one above you”, ma è una ragione sufficiente per rifiutare un’avventura di una notte tra bugie e tradimenti? Certamente no. Per “Walking The Dog” di Rufus Thomas, tirano fuori tutte le loro risorse, la performance vocale è reprensibile e Keith si fa esplodere in quell’assolo come se la sua vita, la sua indipendenza dipendessero solo da questo. Dove la band fallisce è su quel materiale che non riesce a trascinare completamente verso il lato oscuro. “Can I Get A Witness” di Marvin Gaye è una cover, ok, ma Jagger sta cercando troppo smaccatamente di farci alzare in piedi e ballare, è un cantante soul senza un retro pensiero, il confronto non regge. In “You Can Make It If You Try”, originariamente di Gene Allison ma probabilmente ascoltata nella versione di Solomon Burke, la voce incute più rispetto di quanto non faccia su “Can I Get A Witness”, sostituendo il soul con la spavalderia, riesce ancora a darti una botta esemplare. L’album contiene un solo originale, “Tell Me”. Mi ha sempre divertito che gli Stones avessero conservato per i loro diritti d’autore una tenera e sentimentale ballata, sebbene tragica, ma che io sia dannato se non è proprio ben scritta, come “From Me To You”; padroneggiano l’arte della costruzione, una strofa dolce, un bridge spaventato e un refrain disperato, sfondando i tre minuti, come se si fossero lasciati trasportare da loro stessi. In breve, c’erano solo due band in cima alle classifiche nel 1964, i Beatles e gli Stones, e se non capite come la creatività artistica e l’immaginazione di “A Hard Day’s Night” potesse essere considerata allo stesso livello delle servili cover blues e rock’n’roll dei Rolling Stones, probabilmente dovrete considerare questo fatto come una dolorosa conseguenza.
12 x 5 (1964)
Nell’anno in cui la Beatlemania conquistò il mondo, in Inghilterra uscì un solo album dei Rolling Stones, ma gli americani, da poco avvezzi alle gioie della British Invasion, furono più fortunati e ottennero questo disco con dodici canzoni: praticamente l’EP “Five By Five” fu imbottito con alcuni singoli e altri brani registrati esclusivamente per il mercato stelle e strisce.
Poteva anche sembrare che il caratteristico declino del secondo anno fosse iniziato, dato che poche furono le sorprese, è lo stesso cocktail di Chicago blues, Chuck Berry, un po’ di R&B e un paio di originali. E ora che lo shock da novità si era esaurito, non sarebbe stato facile cogliere per la seconda volta quel moto di sorpresa. Tuttavia, anche se non ci sono grandi novità stilistiche, tutto scivola perfettamente. Inoltre, stavano espandendosi, rifiutandosi di registrare copie carbone di ciò che avevano già fatto. Le prime due canzoni lo dimostrano: “Around And Around”, sempre Chuck Berry, è un allegro rock da zuffa che mancava su “England’s Newest Hitmakers”, segna l’arrivo di Ian Stewart come pianista in grado di rivaleggiare con Jonnie Johnson e Jerry Lee Lewis e stabilisce di nuovo energicamente quanto Keith Richards fosse l’indiscutibile erede e perfezionatore del ritmo Chuck Berry. Non suona molto, ma ogni nota si rivela più pesante, più grintosa, e, in qualche modo, più pienamente realizzata di come la suonasse Chuck Berry stesso. L’elemento nuovo più importante è Jagger: con la sua voce il verso “But we kept on rockin’, goin’ ‘round and ‘round…” diventa apertamente ribelle, un richiamo appena velato a strappare le poltrone dai teatri. Ogni volta che le confronto, la versione di Berry mi fa venire smania di ballare, quella degli Stones mi fa ribollire il sangue, una combinazione così perfetta di piano, chitarra e voce. Poi c’è quella “Confessin’ The Blues”, con Mick di nuovo in modalità midnight rambler e le due chitarre che lo sostengono con un suono cupo, secco. Sembra teso, ma è questo che rende la canzone così accattivante, diversa dalle versioni di Chuck Berry e Little Walter, che trattavano tutto in modo molto naturale, in gran parte indistinguibile da qualsiasi altro pezzo a dodici battute, Jagger qui fa la differenza e la sua modulazione quasi geometrica è perfetta, ha questo sistema di sottolineare i versi con una forte pressione vocale, “Oh, baby, can I have you for myself?”. Un timbro che fino a dieci anni prima sarebbe stato considerato offensivo e criminale; ma la cosa bella è come fluttua tra diversi stili vocali, trasformando le dodici battute in un viaggio di seduzione che suona inquietante. Non è semplicemente una canzone d’amore e neppure la confessione di uno stalker: c’è qualcosa di deliziosamente satanico, una sfumatura della sabbathiana vibrazione “My name is Lucifer, please take my hand” anche se Ozzy Osbourne non potrà mai avvicinarsi al grado mefistofelico di Jagger. Il singolo “It’s All Over Now”, lo rubano a Bobby Womack & The Valentinos, Mick non potrà mai competere con Bobby a livello tecnico, ma non ci prova nemmeno. Invece, quello che fa è cercare di portare l’enorme potenziale puttanesco della voce a un livello completamente nuovo: ogni verso è sparato fuori senza sosta in un’unica onda timbrica, come l’arringa di un avvocato che va oltre il ragionevole dubbio. Mettici anche l’ispirato break solista di Keith, spezzettato, balbuziente, che se ne esce fuori dal nulla, trovi l’ispirazione che colse Dave Davies per il solo di “You Really Got Me”, registrata poche settimane dopo che “It’s All Over Now” aveva impattato nel mercato. Così recuperi un altro legittimo concorrente per il titolo di prima canzone punk di sempre, anche se il tono del tutto è più misogino che anarchico. Il finale, poi, l’allunga ben oltre i tre minuti, risuonando insolitamente rumorosa per i tempi. Ho sempre amato la tenuta del groove su “Under The Boardwalk”, con buona pace dei Drifters, e come riescano a indurre una tensione di profonda oscurità, i cori “Under the boardwalk, under the boardwalk…” sono tutt’altro che gioiosi, più simili agli spiriti di poveri annegati nei dintorni di un lungomare. “If You Need Me” di Solomon Burke si scuote dentro Jagger come “You Can Make It If You Try”, nessuna tenerezza di sorta, solo contorsioni glottali che producono un’enorme sensazione di arroganza e sicurezza, quella presa magica della voce di Mick. Anche la jam strumentale di “2120 South Michigan Avenue” ha il suo momento di grandezza quando tutti gli strumenti si fermano per qualche battuta, creando un’atmosfera di suspense, e poi le raffiche di armonica di Jagger cominciano a piovere dal cielo e il terribile tono sfocato sul basso di Wyman porta, più di quanto possa sembrare, tutto questo vicino al proto-hard rock. “Susie Q” dovrà ancora attendere qualche anno perché John Fogerty la rendesse immortale, ma anche in questa breve e rigida versione gli Stones eliminano tutta la palude dall’originale di Dale Hawkins e la sostituiscono con la furia del rock’n’roll. Il numero delle composizioni originali aumenta drasticamente, contando sia su Jagger/Richards sia sullo pseudonimo Nanker Phelge, sono cinque, tra le quali “Empty Heart”, un supplichevole e cupo R&B con parti intrecciate tra chitarra, organo e armonica, è probabilmente la migliore: non è tanto una vera e propria canzone quanto una cerimonia sciamanica, un incantesimo magico per attrarre una donna. “Grown Up Wrong”, piuttosto esile con una sola linea di chitarra, e “Good Times Bad Times” è una ballata blues-pop acustica, sono meno impressionanti, ma la prima diverte, mentre, la seconda, ancora una volta, presenta un’armonica esuberante. Il testo è una merda totale, però: “There’s gotta be trust in this world/or it won’t get very far/well trust in someone/or there’s gonna be war” dovrebbe essere considerato un insulto alla Dartford Grammar School, figuriamoci alla London School of Economics. “Congratulations” è una sorta di precursore del pop barocco tipico della band a metà degli anni Sessanta, a giudicare da come le due chitarre creano quegli incastri increspati, la voce di Jagger qui è debole, non è ancora bravo nella sdolcinatura e nella afflizione com’è invece nel ghigno sarcastico. Così, in definitiva, non è una svolta, ma un tranquillo affinamento di talenti, con una maggiore esperienza nel songwriting e un po’ di addestramento con le tecniche di produzione (non guasta nemmeno il fatto che una parte dell’album fu registrata durante la visita ai leggendari Chess Studios di Chicago), e, soprattutto, una potente conferma del fatto che la band avrebbe continuato a soffermarsi sul lato creativo, non contenta di sostenere semplicemente una rigida immagine da bad boy.
Now! (1965)
Uscito sulla scia di “Rolling Stones No. 2”, è essenzialmente una versione modificata di quell’album, omettendo le canzoni che erano già state pubblicate su “12 x 5” e sostituendole con materiale più vecchio come “Mona” di Bo Diddley, originariamente eliminata da “England’s Newest Hitmakers” in favore di “Not Fade Away”, o materiale più recente come “Oh Baby”, che sarebbe arrivato solo in “Out Of Our Heads” e “Surprise, Surprise” uscita solo per il mercato americano. Nel complesso, il disco è del tutto logico e motivato, tranne che per due piccole recriminazioni: primo, nel catalogo americano si perde un’eccellente cover di “I Can’t Be Satisfied” di Muddy Waters con una bella slide di Brian Jones e secondo, ci sono due versioni di “Everybody Needs Somebody To Love”, la demo originale di tre minuti, pubblicata su “Now!” e la versione finale, più lunga, di “Rolling Stones No. 2”. A me piace molto di più la demo che la versione master, quest’ultima si aggrappa troppo fedelmente al tono gaudente di Solomon Burke, mentre la demo è insolitamente molto più scura, più carica di rimbombi, di strane armonie vocali spettrali, e fondamentalmente sembra una versione da Halloween o qualcosa del genere. A me è sempre sembrato che si accordasse meglio nello spirito con la deliziosa cattiveria dei brani successivi. Comunque, dettagli a parte, rispecchia in modo accurato ciò che erano all’inizio del 1965.
Il R&B è uno dei grandi amori degli Stones, ma anche il loro punto indiscutibilmente più vulnerabile. “Pain In My Heart”, scritta da Allen Toussaint e interpretata da Otis Redding, è l’unico brano dell’album inferiore all’originale, la voce di Jagger è ok, ma l’arrangiamento di chitarra in luogo dei fiati non funziona anche se il basso fuzz di Wyman gli dà una sverniciata. Ma con la cover di “Down Home Girl” di Alvin Robinson, fanno centro. Il ghigno di Jagger è impagabile e il modo con il quale Brian lo imita nel suo “Ha, ha, ha!” ancora di più. È uno di quei momenti in cui anche il difensore più strenuo dei diritti delle donne potrebbe voler gettare il suo femminismo fuori dalla finestra anche se “Down Home Girl” non è propriamente una canzone misogina, semplicemente un’intelligente stoccata al rustico campagnolo che si sta presuntuosamente adattando alla grande città. Per quanto buone siano “Carol” e “Around And Around”, dove raggiungono il top con la loro modernizzazione di Chuck Berry è con “You Can’t Catch Me” e “Down The Road Apiece”. “You Can’t Catch Me” scorre alla massima velocità con Bill e Charlie che fanno da cornice a una performance che emula lo spirito di una corsa automobilistica. Di nuovo l’umorismo di Berry viene eliminato e sostituito da una grintosa energia; in più, c’è quel bizzarro sentore di oscuro e misterioso, ancora una volta esemplificato da uno strano tocco di ripetizione e stillicidio. Quel ping che arriva a intervalli regolari come lo spruzzo d’acqua di un rubinetto. Non so di chi sia stata l’idea, o quale strumento lo stia producendo, ma è meraviglioso sentire qualcosa del genere. “Down The Road Apiece” è meno misteriosa, un vecchio boogie da roadhouse che risale ai tempi del grande Amos Milburn, ma gli Stones, naturalmente, stanno ancora una volta prendendo come riferimento la versione di Chuck Berry, e la stanno elevando a un nuovo grado di eccitazione: non solo la produzione è più densa, ma a Keith viene data libertà, e ne approfitta, allungando la canzone di quasi un minuto, solo per poter dimostrare la sua completa padronanza di ogni singolo solo di Berry, che incolla insieme in una sequenza senza soluzione di continuità. Comincia a svanire solo quando esaurisce la riserva e inizia a ripetersi, impegnandosi in un duello con Ian Stewart, scappando lontano come se non ci fosse un domani. “Little Red Rooster” è tutta di Brian Jones, che si diverte a imitare i versi degli animali con la sua slide, ma la preferita è “What A Shame”, un’altra riscrittura sullo stile di Jimmy Reed dove suonano così ammirabilmente compatti da contribuire tutti a egual livello. Melodie affilate, bisogna amare la linea di basso ascendente di Keith alla fine di ogni strofa e l’intreccio di chitarre con Brian. Di particolare interesse è il testo: sembra un primo, timido tentativo di scrivere qualcosa di socialmente rilevante, in stile proto Gimmie Shelter: “What a shame/They always wanna start a fight/Well it scares me so/I could sleep in the shelter all night”. È la prima volta che usano il potenziale spettrale del loro sound blues-rock per accompagnare un messaggio così inquietante. E poi, nel mezzo di tutto questo, arriva il primo capolavoro originale della band; non è “Off The Hook”, per quanto sia groovy il riff di Richards, la ripetitività della canzone rema contro, forse un altro bridge avrebbe potuto essere migliore dell’infinito “It’s off the hook, it’s off the hook, it’s off the hook”. È, invece, “Heart Of Stone”. Curiosamente, sembra una variazione della già citata “Pain In My Heart”, condividono molte somiglianze nella melodia, nella struttura e nel testo, ma cambiano le carte in tavola e la rendono più complessa. Non si tratta soltanto di una ragazza che spezza il cuore del protagonista, si può sentire il punto di rottura, c’è un ulteriore livello estetico qui: “This heart of stone” è pronunciato da Jagger in un modo tale che si capisce benissimo che rappresenta un’amplificazione, un parossismo. Keith porta un assolo lamentoso come l’uomo impazzito dal dolore, e Mick ci offre la sua prima vera teatralità, la gamma di modulazione su “Heart Of Stone” è impressionante, dalla presunzione di “There’ve been so many girls that I’ve known”, alle intonazioni perplesse su “What’s different about her?, dalla supplica di “Don’t keep on looking”, alla disperata abnegazione di “You’ll never break this heart of stone, oh no”.
E così, forse il disco non era così favoloso da meritare il famigerato claim di Andrew Loog Oldham “See that blind man knock him on the head, steal his wallet and have the loot”, quanto manchi Mr. Loog, ma assolutamente all’avanguardia per l’inizio del 1965. Probabilmente la foggia dei Rolling Stones non era ancora completamente assemblata, ma lo spirito era vibrante e flamboyant. “Now!” resta un disco incredibilmente coerente da cima a fondo.
Out Of Our Heads (1965)
Ancora una volta, la versione americana integra i singoli del 1965 rendendo il disco più incandescente della sua controparte inglese che uscì solo un paio di mesi dopo. D’altra parte, non si può negare che l’americano “Out Of Our Heads” sembri fastidiosamente sconnesso in confronto associando originali e cover che erano precedenti alla metà del 1965.
Quindi osserviamolo come se le tre canzoni più famose – sappiamo tutti quali: “The Last Time”, “(I Can’t Get No) Satisfaction” e “Play with Fire” – non ci fossero. Ciò che rimane potrebbe essere una mezza delusione dopo il quasi perfetto equilibrio di blues, rock’n’roll e R&B che avevamo appena sperimentato con “Now!”. In particolare, c’è una forte inclinazione verso la black music, Don Covay, Marvin Gaye, Otis Redding, Sam Cooke e Solomon Burke sono tutti rappresentati. Così, a “Mercy Mercy” viene dato un volto completamente diverso, con un riff fuzz di Keith che preannuncia quello di “(I Can’t Get No) Satisfaction” in termini di pura cattiveria, e accanto a quel riff, è divertente vedere come Jagger cerchi di associare supplica e minaccia in una sola dose: il suo “I’m gonna make it to the nearest river child and jump overboard and drown” è più un annuncio di ricatto che l’invocazione di un cuore spezzato. Per “Cry To Me”, Brian passa alla chitarra ritmica, e Keith ancora una volta lo aiuta con una parte solista che in realtà è più soul della voce stessa di Mick mentre si contendono il finale tra latrati mitragliati e riff bluesy, rendendo il tutto più selvaggio e folle di quanto l’originale possa mai sperare. Ma non è sempre così: su “Hitch Hike”, “That’s How Strong My Love Is” e “Good Times” gli strumenti passano tutti in secondo piano dietro il vocalist, e c’è poco altro che una tollerabile padronanza per custodire queste versioni, l’imitazione di Jagger di Otis Redding, “Now I’m soft and tremble and weepy/now I’m incensed and energized and screechy” è un po’ buffa, mentre, con Sam Cooke, quando tutto ciò che Keith e Brian fanno è riprodurre gli accordi, torna buono quel “che senso ha ascoltare noi che facciamo “I’m A King Bee” quando potete sentire Slim Harpo farlo?” anzi modifichiamolo pure in “che senso ha ascoltarci mentre suoniamo “Good Times” quando puoi sentire Sam Cooke?”. La cosa peggiore è che, questa volta, un paio di originali sono sottotono, la ripetitiva jam di “Under Assistant West Coast Promotion Man”, la cui unica funzione è quella di sfogare un po’ di frustrazione verso l’allarmante ego in espansione di Andrew Loog Oldham o la fastidiosamente moralistica “One More Try”, la cui unica caratteristica redentrice è un assolo di armonica di Brian. A tratti “Out Of Our Heads” sembra essere in stallo, impantanandoli in cover di difficile decifrazione. Forse era solo uno di quei periodi in cui volevano allontanarsi dall’ideologia dell’it’s only rock’n’roll, ma scusatemi se non riesco a trovare convincente Mick Jagger che canta “Ain’t felt this good since I don’t know when”. Tuttavia ci sono i singoli, “The Last Time” con “Play With Fire” come lato B, e “Keith Richard’s Dream No. 9”. Come possano stare sullo stesso album con “One More Try” mi sfugge un po’, ma la parola transizione è lì per questo; dopo tutto, nel 1965 i Rolling Stones, come la maggior parte dei loro coevi, erano ancora sostanzialmente una band da singoli. “The Last Time” è una pietra miliare, principalmente perché Keith Richards, il mago dei riff, introduce quella semplice, nervosa, indimenticabile sequenza di accordi, probabilmente sviluppata mentre improvvisava intorno al groove di “Everybody Needs Somebody To Love”. A parte questo, è notevole per la sua produzione rimbombante e piena di riverberi (Phil Spector?), i testi sono ancora troppo derivativi, la solista è insoddisfacente, come se né Keith né Brian avessero buone idee in serbo, ma l’umore è incazzato e spedito. La svolta arriva con “Play With Fire”. Il pezzo annuncia un conio completamente nuovo che avrebbe raggiunto il suo apogeo tra il 1966 e il 1967 e poi se ne sarebbe andato per sempre: per la prima volta girano la testa dall’altro lato dell’Atlantico e tornano alle loro coste native. Una cupa ballata acustica, colorata dalle linee barocche del clavicembalo di Jack Nietzsche, con testi che osano menzionare realtà inglesi, sostituendo le poco conosciute Winona, Kingman, Barstow e San Bernardino con le più familiari Saint John’s Wood, Stepney e Knightsbridge. Tutto suona come una minaccia appena velata alle classi superiori e condivide il tema di base, se non i particolari, con “Like A Rolling Stone”, essendo stata registrata e pubblicata mesi prima. Se nel 1964 Mick Jagger cantava come un lascivo vagabondo di mezzanotte, in “Play With Fire” echeggia come di fronte a una minaccia. Tutto quello che deve fare è tenere la voce flebile, un tono severo, ma calmo, a mezza voce: “Well you’ve got your diamonds and you got your pretty clothes”, già il primo verso lascia intendere che questa condizione probabilmente non rimarrà la stessa per molto tempo. Resta semplicemente la prima avventura degli Stones nel pop barocco e la loro prima canzone socialmente consapevole. Su “(I Can’t Get No) Satisfaction”, vorrei tacere, perché “Satisfaction” è “Satisfaction”, e nessuna dissezione critica/analitica della canzone la renderà meno favolosa di quanto sia. Il mio unico momento di esitazione è la voce di apertura, non sono mai stato in grado di decidere se il tono vocale originale, soffiato, stranamente seducente, si adattasse meglio dell’abbaio sogghignante al quale di solito assistiamo nelle performance dal vivo. Immagino che l’abbaio sogghignante possa essere visto come una scelta più logica, dato lo stato mentale del protagonista, ma ho ancora un debole, quasi nostalgico, per l’inizio morbido dell’originale. Invece, permettetemi di dedicare qualche riga al lato B del singolo, la tanto trascurata “The Spider And The Fly”, che è una delle più intelligenti dal punto di vista del testo. La melodia è presa in prestito da Jimmy Reed, ma la rendono pop, addirittura british, concedetemelo, e quel tempo così freddo, calmo e raccolto, la voce sicura di sé, presuntuosa e sorniona, l’intonazione diabolica con cui Jagger pronuncia il saluto “Hi!”, tutto questo ne fa un diretto predecessore di “Sympathy For The Devil”: certo, in scala minore, ma anche Lucifero dovrà aver iniziato da qualche parte.
Nessuna delle critiche espresse impedisce al disco di ottenere un giudizio positivo, per un album con sopra “(I Can’t Get No) Satisfaction” per di più, anche se tutto il resto fossero banali cover di Frankie Avalon, sarebbe un oltraggio dubitarne. Ho sempre trovato divertente vedere come lo sviluppo del proprio talento compositivo possa andare di pari passo con la flessione nella capacità di interpretare brillantemente il materiale altrui e non c’è nulla di meglio che illustri gli Stones della seconda metà del 1965.
December’s Children (And Everybody’s) (1965)
Persino un normale album dei Rolling Stones nel 1965 è ancora più emozionante del 90% della concorrenza; la richiesta obbligatoria di un piccolo extra per il periodo natalizio fece sì che la Decca mettesse insieme questo album, assemblato da estratti dell’edizione inglese di “Out Of Our Heads” (compresa la foto della copertina), singoli dello stesso anno, un paio di canzoni esclusive per il mercato americano e estratti degli EP, “The Rolling Stones” e “Got Live If You Want It!”.
In breve, seppur senza la pretesa di essere un lavoro organico, non è una sorpresa che, nonostante la presenza di classici e gemme minori, contenga anche alcuni dei materiali più deboli degli Stones del primo periodo. Parlo principalmente delle loro incursioni nel folk di canzoni come “The Singer Not The Song” e “Blue Turns To Grey”, nessuna delle quali è mai risultata convincente alle mie orecchie. Sono i Rolling Stones che sconfinano nel territorio dei Beatles, dove, senza un George Martin e senza il dono di Lennon e McCartney di convertire l’anima in melodia, vanno a tentoni. L’“Everywhere you want, I always go” di Jagger in “The Singer Not The Song” fa quasi eco al “You know you made me cry” di Lennon in “Not a Second Time”, ma con un’aura di timida rigidità che li fa passare per discepoli in difficoltà. “Blue Turns To Grey” palesa un livello più alto, il modo col quale fondono insieme strofa e ritornello facendo sovrapporre l’ultimo e il primo verso è ammirevole, ma, ancora una volta, la canzone è seriamente minata dalla performance di Mick, per non parlare del verso “And you know that you must find her, find her” dove si abbandona il refrain senza un espediente adeguato. Vorrei poter scrivere che “As Tears Go By” è la risposta al successo di “Yesterday”, anche se in realtà la canzone è stata scritta un anno prima ma, pur rappresentando la prova definitiva di quanto fossero abili in quel genere, la verità è che non sono mai stato troppo affezionato in questo brano alla voce di Jagger. È una ballata enfatica, ma è così categoricamente anti-Stones nel suo trasmettere l’agitazione di un cuore dilaniato dal dolore senza nemmeno un pizzico di rabbia, collera e paranoia. Era perfetta per Marianne Faithfull, che in quegli anni sembrava il complemento ideale a Mick, versatile, unica come interprete, genuina quando cantava di amori spezzati, laddove Mick mai lo fu. Invece, una canzone come “Tell Me” funziona proprio perché il suo protagonista è in pieno esaurimento nervoso, esasperato all’idea che qualcuno possa aver avuto la faccia tosta di lasciarlo; in “As Tears Go By” non sento la sincerità di quel dolore.
Per farla breve, “December’s Children (And Everybody’s)” è sempre troppo sbilanciato sulle ballate sentimentali e l’aggiunta di brani come la “You Better Move On” di Arthur Alexander, i Beatles fecero un lavoro migliore con “Anna (Go to Him)” e “Gotta Get Away”, un folk-rock scritto maldestramente dove il ritornello sembra piuttosto mal avvitato sulla strofa, non aiuta.
Fortunatamente c’è “She Said Yeah” di Larry Williams, un’esplosione ad alta velocità, ad alto livello di testosterone, forte e sfacciata che, in tutta la sua gloria di un minuto e mezzo, profetizza l’ideologia dei Ramones. Le due performance dal vivo dell’EP “Got Live If You Want It!” sono gli Stones al loro meglio, e “Route ’66” degno supplemento live alla versione in studio, mentre la reinvenzione dello standard country di Hank Snow “I’m Moving On” come un prodigio hard rock dovrebbe essere collocato nella storia del metal se non altro per il basso funky di Wyman che apre e domina il brano suonando come un Lemmy in qualche classico degli Hawkwind o dei Motörhead. Nondimeno, non troverete mai il basso di Lemmy combinato con una slide come fa qui Brian Jones. Sul finale è Brian che scivola via mentre Keith maltratta accordi distorti.
E poi, naturalmente, c’è “Get Off Of My Cloud” e quella “I’m Free”, che non è neanche lontanamente altrettanto buona, ma funziona perfetta in tandem con la prima, due dichiarazioni feroci sulla libertà personale che danno principio alla lunga narrazione dei Rolling Stones in conflitto col sistema. Oggi, alcuni di noi potrebbero simpatizzare con i vicini buttati giù dal letto dal frastuono del rock’n’roll alle tre del mattino, “He says, it’s three a.m., there’s too much noise/Don’t you people ever wanna go to bed?”, persino con i poliziotti che ti multano per divieto di sosta, “And I started to dream/In the morning the parking tickets were just/Like a flag stuck on my window screen”, ma, cristo santo, come non continuare a godere del costante rollio del riff sinistra-destra, destra-sinistra e la cadenza del coro. E mentre il testo rivela qualche influenza di Dylan, il sound è molto britannico, molto Stones, soltanto un po’ assurdo, anche se tutte queste allusioni indirette come “And I sit at home looking out the window/Imagining the world has stopped” potrebbero essere ignorate se volete solo vederla come un gigantesco vaffanculo al sistema.
Quindi, in definitiva, non c’è modo che “December’s Children (And Everybody’s)”, pur essendo il meno centrato dei primi cinque dischi, non occupi un posto d’onore sui vostri scaffali. Considerando il gigantesco balzo in avanti che sarebbe arrivato di lì a pochi mesi di distanza, questo è l’equivalente della raschiatura del fondo di un barile prima di mandarlo al ricompostaggio e farne uscire uno nuovo di pacca.
Aftermath (1966)
Guardare indietro all’epoca in cui la maggior parte delle band iniziava con le cover, e poi lentamente progrediva verso un proprio stile, una propria immagine e una propria griffe di scrittura, è molto più appagante di osservare un artista diciottenne completamente immaturo e insicuro che entri in studio, con le mani tremanti e tutto il resto, e se ne esca con il suo set di crediti come autore. Quindi, quei primi due anni, li aiutarono a elaborare una solida base, e quando fu chiaro che avrebbero dovuto scrivere il loro materiale, Jagger e Richards erano pronti a trastullarsi col gioco dei Beatles con tutto il coraggio che avevano in corpo.
Registrato agli RCA Studios di Hollywood tra la fine del 1965 e l’inizio del 1966, “Aftermath” non contiene altro che brani originali di Jagger/Richards e pone saldamente la coppia ai primi posti tra i songwriter inglesi del periodo. Le loro ambizioni artistiche rimasero fedeli ai loro spiriti interiori, non stavano cercando di superare i Beatles scrivendo confessioni dolorose come “Help!”, dilettandosi nel territorio cosmico-psichedelico di “Nowhere Man”. Presero spunto dall’atteggiamento sprezzante di Dylan e dalla chirurgia psicologica di Ray Davies, “Aftermath” è il ritratto penetrante, sarcastico e, a giudicare dagli standard moderni, deliziosamente offensivo della vita di un giovane annoiato nell’Inghilterra a loro contemporanea, la forma blues americana al servizio di Sua Maestà. “Aftermath” avrà sempre, per definizione, un appeal minore rispetto a “Rubber Soul” o “Revolver”, ma ciò non significa che non possieda qualità intricate e punti di forza che non troverete mai in nessun album dei Beatles o dei Beach Boys.
Le continue discrepanze tra le uscite inglesi e americane cominciano a far male: “Aftermath” era la prima pugnalata intenzionale degli Stones a una certa concettualità, e la decisione degli americani di togliere “Mother’s Little Helper” e sostituirlo con il singolo “Paint It Black”, sebbene comprensibile da una prospettiva puramente commerciale, sembra simile alla decisione di sostituire il movimento di un concerto di Mozart e cambiarlo con la serenata in Sol maggiore K 525. Pensarono che la durata di 50 minuti fosse troppo rivoluzionaria, solo dei pazzi come Bob Dylan potevano cavarsela con una cosa del genere, e tolsero “Take It Or Leave It”, “What To Do” e “Out Of Time”, un tipo di brano molto omogeneo a “Aftermath”; il fatto che siano poi finite su “Flowers” non giustifica la scelta. Tuttavia, una volta che lo schema è stato stabilito, possiamo discutere a vita di come “Aftermath” inizi con un inno universalista di desolazione e oscurità piuttosto che con un’amara osservazione sociologica sulla vita depressa delle casalinghe inglesi. “Paint It Black” non offre ancora gli Stones all’apice dei loro poteri apocalittici, è più leggera di quello, è difficile prendere troppo sul serio i testi e la voce di Jagger. Ciò che davvero rende la canzone è la rabbia, lo Sturm-und-Drang che inizia con il pattern di percussioni di Charlie Watts e culmina nel cambio di tonalità a metà della strofa: quando passa dalla depressione di un “I see a red door and I want it painted black” all’abbaiare di un “I see the girls walk by dressed in their summer clothes”, è chiaro non sarà un’altra insoddisfacente finzione alla “Blue Turns To Grey”, si tratta più di rabbia, di sbattimento, di annegare nelle proprie lacrime. Da questo punto di vista, l’introduzione di sitar da parte di Brian è, in un certo senso, anche più rivoluzionaria di quella di George Harrison su “Norwegian Wood”; qui, per la prima volta, il sitar è effettivamente usato come uno strumento rock, suonando un drone ritmico e rockeggiante che spacca il culo piuttosto che mistificare in qualche modo pseudo induismi. Wyman getta densi bassi, in particolare alla fine, facendo scorrere le dita sulle corde come se stesse figurativamente spruzzando grasse macchie di vernice nera sulla porta rossa di Jagger, e l’interpretazione aggressiva della canzone è completa: puoi distruggere tutto con i suoni marziali di “Paint It Black” con la stessa efficacia con cui potresti farlo con “The Last Time” o “Satisfaction”. È questa insolita combinazione di prevedibile e imprevedibile, forme familiari e non, che fa sì che “Aftermath” suoni ancora così fresco e unico dopo tutti questi anni. Voglio dire, quando ti siedi e dai un’occhiata da vicino ai testi di “Lady Jane”, scopri che il messaggio generale non è così lontano da quello di “Yesterday’s Papers”, “Seems very hard to have just one girl/when there’s a million in the world”. Questa non è tanto una serenata d’amore cortese quanto il fatto di scaricare un amore in favore di un altro, il tutto è permeato da una spessa ironia, sia nelle parole che nel finto accento che le pronuncia. Questo contrasta nettamente con Brian Jones e il suo dulcimer, e, naturalmente, a livello di struttura, la canzone ha un’aria elisabettiana, ma funziona solo perché mescola galanteria e derisione altrimenti, sarebbero stati i predecessori degli Amazing Blondel, e Dio ce ne scampi.
Forse l’unico difetto di “Aftermath” e la ragione per cui l’album non troverà mai tanto consenso nei circoli degli esteti del pop, è che, a differenza dei Beatles o di Brian Wilson, gli Stones non mostrano interesse nell’esplorare le possibilità tecniche dello studio di registrazione. Le canzoni suonano relativamente scarne, con poche sovraincisioni tranne che per gli strumenti esotici di Brian; gli esperimenti, gli effetti speciali sono tenuti al minimo assoluto; e tutte le canzoni sono basate sulla chitarra, con i dulcimer, i sitar e le marimbe di Brian a fare da ciliegina sulla torta. D’altra parte, diamo a Keith Richards ciò che gli spetta: è perfettamente disposto, ove necessario, a lavorare sullo sfondo e a fornire solo la pasta per le guarnizioni di Brian, “Aftermath” non è un album da riff, anche su una canzone come “Under My Thumb” si canticchia con le marimbe, e Keith se la cava piuttosto con la forza degli assoli, aprendo lecitamente il cosiddetto periodo pop degli Stones.
“Paint It Black” e “Under My Thumb” sono i punti salienti, forse anche “Lady Jane”, che fu pubblicato come singolo, ma in realtà l’album contiene una buona quantità di classici dormienti che gli stessi Stones avrebbero successivamente, immeritatamente, evitato in concerto. Quasi tutto è orecchiabile in un modo o nell’altro, anche se a volte troppo ripetitivo, “Flight 505”, per esempio, stabilisce un eccellente groove mid-tempo, ma una volta stabilito, succede molto poco nelle sue lunghe strofe e nella pausa strumentale, e ci si comincia a chiedere se la musica non sia stata costruita intorno alla macabra storia di Jagger di un incidente aereo piuttosto che il contrario. Soprattutto, quasi tutto racconta una storia, che si tratti dell’assassinio del personaggio femminile di “Stupid Girl” o di “Under My Thumb”, la misoginia di Jagger, per la quale oggi sarebbe arrostito vivo (anche se le ragazze stupide e i ragazzi crudeli sono una realtà nel 2022 tanto quanto lo erano nel 1966), della contemplazione della solitudine e balordaggine in “It’s Not Easy”, della strana allegoria dell’aereo di “Flight 505”. Non ho intenzione di insistere sul fatto che gli Stones fossero abili nell’arte della narrazione come i Kinks di “Face To Face” o “Somethin’ Else”, dato che troppe di queste canzoni sono incentrate sulle relazioni del protagonista con le sue numerose Lady Jane e Lady Ann e Sweet Marie, ma anche così, la portata dei sentimenti di Jagger fa girare la testa. Nel solo lato B, ha tempo per incolpare la sua donna per averlo scaricato perché “She found out it was money I was after!”, incolpare se stesso per essere rimasto senza una donna, “It’s Not Easy”, esprimere una speranza astratta che alla fine tutto si risolverà, “I Am Waiting”, gioire di cuore per la prospettiva di tornare a casa a vedere il suo bambino come se fosse solo un disinvolto Sonny Boy Williamson di ritorno da una dura giornata di lavoro in fabbrica, “Goin’ Home”.
La cosa che l’edizione americana di “Aftermath” ha assolutamente azzeccato è stata attaccare la jam di undici minuti di “Goin’ Home” alla fine del disco. È più facile staccarvi se amate i suoi meandri, ma disegna una fine più naturale e in qualche modo inquietante e saccente rispetto alla serie di riempitivi (“Think”, “What To Do”) che chiudevano la versione inglese. E io sono sempre stato affascinato da “Goin’ Home”. Quello che fa quel brano è prendere un vecchio e polveroso cliché blues, “Goin’ home to see my baby”, di solito espresso in chiave ottimistica dal bluesman e, non appena inizia la jam, lo capovolge. La musica assume rapidamente un’aria pericolosa, con armoniche e chitarre inquietanti e le improvvisazioni di Jagger sono l’esatto opposto di un Otis Redding, che si infiamma sul palco, pazzo d’amore. Qui lancia infiniti “I’m goin’ home” e “I’m gettin’ out” e “Early in the morning” e “In the middle of the night” con l’allarmante allegria di uno psicopatico piuttosto che di un dolce uomo innamorato. Posso immaginare un’ambientazione in qualche inquietante parte della Londra notturna, con Mick che scivola e si dimena sui marciapiedi mentre Keith e Brian appaiono occasionalmente con sorrisi malvagi. Potrebbe essere più inquietante di “Too Much Blood”, con un piccolo sforzo. Specialmente quel finale “Touch one more time… come on little girl… you may look sweet… but I know you ain’t”. Questo è Mick lo Squartatore. Puoi scommetterci il culo che quando la notte passa e i primi raggi del sole nascente mettono fine alla canzone, quello che rimane non è un quadro così incantevole.
Questo è un modo affascinante di interpretare le cose, ma se non sposo questo sentire, non ho modo di spiegare la strana magia di “Aftermath” che mi ha tenuto in pugno per così tanti anni. Sì, è l’album che dà inizio a un periodo relativamente dolce per gli Stones, un periodo che sarebbe stato ufficialmente rifiutato solo con l’avvento di “Jumpin’ Jack Flash” due anni dopo, ma anche quella dolcezza era sempre mescolata a oscurità e provocazione. “Aftermath” sa passare dalla tenerezza alla crudeltà, dalla sincerità all’ironia, dall’accennato ottimismo alla cupa suspense, senza sospendere la fede in nessuno dei due, grazie, innanzitutto, al talento nascente di Richards, un arrangiatore ispirato come Jones e un impareggiabile showman all’apice dei suoi poteri. Forse, canzone per canzone, non è il più consistente insieme di brani che abbiano mai prodotto (non includerei mai “Doncha Bother Me” o “What To Do” nella mia top delle canzoni degli Stones), ma in termini di punti salienti, unità concettuale e rinnovamento, gli undici minuti di “Goin’ Home” da soli valgono qualcosa. “Aftermath” è uno dei migliori album dei Rolling Stones che si possa trovare. Non ti chiede di spegnere la mente, rilassarti e fluttuare a valle, ti dice, senza mezzi termini, come ci si sente ad essere come un rolling stone, in dylanesco, s’intende.
Got Live If You Want It! (1966)
Quando questo album dal vivo fu pubblicato, molti, compresi gli stessi membri della band, lo considerarono una farsa, affetto da una qualità del suono atroce e con una scaletta decisamente strana in cui in qualche modo riuscirono a inserire brani che non furono suonati dal vivo, uno dei quali registrato addirittura nel 1963. Ancora oggi, se questo fosse in potere di Mick e Keith, avrebbero probabilmente preferito cancellarlo del tutto dal catalogo. Eppure, “Got Live If You Want It!” rimane quello che è: un inestimabile documento storico del suono live dei Rolling Stones nel loro primo periodo, con un Brian Jones ancora efficiente e un Mick Jagger sicuro di sé che aveva perso le ultime scaglie di timidezza, ed era entrato in modalità rock star, senza ancora ubriacarsi con quella celebrità.
Naturalmente, ci sono innumerevoli bootleg del biennio 1965-66, se si vuole capitalizzare a fondo quella cosa dell’autenticità, ma significa dover sopportare un suono ancora peggiore, e da quando il disco ha subito un adeguato processo di rimasterizzazione intorno al 2002, è diventato sufficientemente ascoltabile. Sì, non c’è modo di evitare che gli strumenti e le voci siano parzialmente sommerse dalle incessanti urla delle ragazze inglesi – la maggior parte dei brani sono stati tratti da un paio di spettacoli a Bristol e Newcastle nell’ottobre del 1966 – ma il nuovo mix fa del suo meglio, cosicché dopo un paio di ascolti si potrebbe anche cominciare a discernere chiaramente tra le chitarre di Keith e quelle di Brian; e, inoltre, il mondo ha bisogno di un album dal vivo dei Rolling Stones che affoghi in urla selvagge, se non altro per ricordare che i Rolling Stones erano un prodotto da screaming sixties, piuttosto che dell’era relativamente più tranquilla, più glamour, più decadente del rock da stadio.
Il processo di rimasterizzazione introdusse alcuni importanti cambiamenti, vale per “Under My Thumb”, così come forse per uno o due altri brani, c’è meno dissing sul palco e meno pause. Ci sono anche fonti che menzionano sovraincisioni in studio post-produzione, la maggior parte delle quali riguardano le voci di Mick e Keith (curioso che, pur odiando l’album, siano andati avanti con le modifiche), quindi un po’ di lavoro investigativo è necessario per capire quali parti del disco siano veramente dal vivo e quali no. Ma dato che non è mai stato considerato un Santo Graal, il ritocco non è una questione molto importante.
Il punto importante è che anche con tutte le urla e tutte le imperfezioni, gli Stones riescono ancora a stordire, il volume e l’energia sono una cosa, ma dobbiamo ringraziare la fedele sezione ritmica: con il martello pneumatico di Charlie che apre “Under My Thumb”, non c’è modo che la canzone possa cadere a pezzi, a meno che Charlie stesso non crolli per sfinimento. Ancora più sorprendentemente, su quelle canzoni che effettivamente richiedono che lo faccia (non sto parlando di “Get Off Of My Cloud”, evidentemente), Jagger canta davvero; un’abilità che, in parte, avrebbe completamente sacrificato nei primi anni Settanta, recuperato brevemente negli anni Novanta, e poi ancora una volta rifiutato nel nostro secolo. Anche su “Get Yer Ya-Ya’s Out”, con gli Stones in tutta la loro gloria strumentale, la voce di Mick è già, se non un impedimento, almeno un elemento secondario dello spettacolo, ma su “Got Live If You Want It!”, è sempre al centro delle cose. Potrebbe essere solo un trucco del nuovo mix, ma in ogni caso il risultato finale presenta il tutto come lo show di Mick Jagger con un gruppo di fidati aiutanti. E non suona molto diverso se ci si affida a uno dei migliori bootleg dell’epoca, per esempio lo show di Honolulu del 28 luglio 1966, che va sotto il titolo stupidamente beatlesiano di “So Much Younger Than Today”.
È, naturalmente, proficuo che Keith preferisca attenersi a una rigida autodisciplina sul palco, sfornando riff senza andare mai fuori registro e che Brian Jones pur non essendo un grande insider dal vivo tiri fuori il suo dulcimer per eseguire “Lady Jane”, ma il suono è rozzo e rauco rispetto al sottile arrangiamento in studio. Quindi, essenzialmente, questo è lo show di Mick e Keith, con Charlie che fornisce l’impenetrabile muro di percussioni e Bill che occasionalmente si prende il suo astro scintillante con fenomenali strisce di basso, “I’m Alright”, ancora una volta, è il suo momento stellare, la versione qui è ancora più intensa e disperata del vecchio arrangiamento su “Out Of Our Heads”. Brani come “Under My Thumb”, “The Last Time”, il singolo “19th Nervous Breakdown”, e, naturalmente, “Satisfaction” dominano, e sono tutti suonati un po’ più velocemente, un po’ più grezzi, un po’ più punk che in studio, anche se “Satisfaction” era ancora molto lontana dal divenire “la” canzone dei Rolling Stones. Adoro il caos selvaggio di feedback all’inizio di “Have You Seen Your Mother, Baby”, il nuovo mix rivela le qualità bestiali di quel suono, più pesante persino degli Who, del tutto simile agli Stooges, anche solo per pochi secondi. Per quanto riguarda i due falsi brani dal vivo, se si può perdonare la loro ambiguità, sono entrambi godibili: la vecchia “Fortune Teller” accelera, s’irrigidisce e rinnega, l’originale di Benny Spellman, e in qualche modo Mick riesce a fare l’impossibile su “I’ve Been Loving You” e quasi rubarla a Otis Redding, donando un’interpretazione molto personale, dolorosa, vulnerabile dove il suo sudato sforzo aiuta, canta come se stesse scalando una montagna, specialmente quando arriva agli “Oh, oh”, e io tiro un sospiro di sollievo quando finalmente raggiunge la cima sano e salvo. Detto questo, naturalmente, nessuno dei due brani ha un posto legittimo sull’album e, per lo meno, sulla nuova rimasterizzazione avrebbero potuto tagliare la finzione e metterli semplicemente come bonus senza i rumori della folla.
Comunque, indipendentemente dai sentimenti della band, continuo a dare all’album un giudizio positivo oltre alla sua importanza storica, ha questi piccoli, ma importanti pezzi di figaggine sparsi un po’ dappertutto, che vanno dal Jagger che fa lo scat nella sezione strumentale di “Lady Jane” all’impressionante feedback su “Have You Seen Your Mother” al basso a bomba su “I’m Alright”. Anche se, come sostengono alcuni detrattori, è il peggior album dal vivo degli Stones, ma non lo è, davvero, è un disco unico e, per lo meno, è molto più godibile di “Live At The Hollywood Bowl”, l’equivalente dei Beatles nello stesso periodo.
Between The Buttons (1967)
Il seguito di “Aftermath”, “Between The Buttons”, fu registrato nello stesso periodo di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles e “Something Else” dei Kinks – e, non sorprendentemente per i tempi ma curiosamente da un punto di vista retrospettivo – suona come un incrocio scomodo ma affascinante tra i due. Né Mick né Keith ebbero parole gentili: Mick, in particolare, si lamentò della produzione, liquidandola come eccessiva, eccentrica e corrotta dall’atmosfera psichedelica dell’epoca. Senza contare il singolo di successo che fu piazzato nella versione americana dell’album, non eseguirono quasi mai dal vivo nessuna di queste canzoni dopo il 1967 e anche negli anni successivi, quando gli Stones resuscitarono gran parte del loro vecchio catalogo, credo che “Connection” fu l’unico brano di “Between The Buttons” che accettarono di portare sul palco. E, naturalmente, questo concorda anche con l’opinione convenzionale e, francamente errata, secondo cui l’età dell’oro degli Stones non inizia fino a quando non ebbero ripulito il loro impianto creativo dall’influenza di Brian Jones.
Nonostante tutto questo, da quando il pop più artistico è diventato una predilezione degli appassionati di musica, una ventina d’anni fa o giù di lì, “Between The Buttons” è riuscito a rafforzare la propria posizione e oggi è praticamente diventato il vessillo attorno al quale si sono raccolti tutti quelli che dicono cose del tipo “i Rolling Stones sono o, almeno, erano molto più di una generica rock band”. Vabbè, in effetti, non poche persone sono pronte a valutare la fase del gruppo in questo periodo come del tutto uguale a quella dei Beatles e dei Kinks, anche se, naturalmente, fortemente infettata dalla solita cattiveria e sberleffo, che le conferiscono un fascino teppistico tutto suo. In qualche modo mi sembra che i cattivi pensieri di Mick rispetto a questo disco abbiano più a che fare con l’atmosfera tesa di quel periodo di transizione, quando il deterioramento delle condizioni fisiche di Brian Jones, il comportamento piuttosto erratico di Andrew Oldham e le imminenti retate per droga avrebbero trasformato la loro summer of love nel periodo più miserabile nella loro vita pubblica e privata. “Between The Buttons” sembra in qualche modo un disco incanalato. I testi di Jagger qui pullulano di riferimenti alla realtà britannica, sia collettiva che personale, almeno due, se non di più, delle canzoni sembrano scritte direttamente su Marianne Faithfull, e le influenze musicali della band includono il music hall, il vaudeville, ma il fatto è che erano un gruppo di ragazzi inglesi, e avevano tutto quello che serviva, nel loro sangue, per sovvertirle e usarle correttamente. Ha molto meno senso deridere gli Stones per essere diventati dei dandy, o per criticarli per il sapore falso country di “Dead Flowers”, gli Stones usavano l’idioma country per i loro scopi, piuttosto che cercare di diventarne legittimi divulgatori.
Prima di procedere con le canzoni, bisognerebbe preoccuparsi del solito dilemma tra stampa americana e inglese: l’edizione statunitense, come già detto, toglie due canzoni dal disco (“Please Go Home” e “Backstreet Girl”) e le sostituisce con “Let’s Spend The Night Together” e “Ruby Tuesday”. A differenza di “Aftermath”, questa decisione non influenza troppo seriamente i risultati: la malinconia barocca di “Ruby Tuesday” è un sostituto accettabile per la serenata dolcemente cattiva di “Backstreet Girl”, e “Let’s Spend The Night Together” è superiore a “Please Go Home”, anche se la sua facciata spavalda sembra essere un po’ fuori contesto. Come minimo, avrebbero potuto conservare “Yesterday’s Papers” come opener, il suo spirito è molto più vicino a quello generale dell’album.
Dato che le stesse due canzoni sarebbero state riciclate su “Flowers”, ne parleremo più avanti, qui, cercheremo di concentrarci su ciò che rende “Between The Buttons” così, beh, unico. “Yesterday’s Papers” stabilisce il tono, combinando la brutalità, nelle vesti della chitarra distorta di Keith e della pesante linea di basso di Bill con la dolcezza rappresentata dal vibrafono di Brian e dal clavicembalo di Jack Nitzsche, ma ciò che rende davvero speciale la canzone è la voce di Jagger. La canzone racconta la sua rottura con Chrissie Shrimpton, l’eroina di “Stupid Girl” e “Under My Thumb”, ma se in quelle due canzoni suonava intenzionalmente il più cattivo e odioso possibile, in “Yesterday’s Papers” suona triste: nonostante le solite acrimonie “Who wants yesterday’s papers, who wants yesterday’s girl?”, c’è dolore nella sua voce, ed è quasi come se stesse cercando di convincere se stesso a crederci. È ironico, vero? Da un lato, sappiamo che “Seems very hard to have just one girl/When there’s a million in the world” è praticamente, per Jagger, lo slogan definitivo, eppure, dall’altro lato, questi versi sono pronunciati senza nemmeno la più piccola dispersione di lussuria, al contrario, c’è un’eco di disperazione, amplificata dal falsetto preoccupato dei cori. In qualche modo, l’insicurezza e persino la paura sono entrate nel contesto, un netto contrasto con lo spirito presuntuoso e sicuro di sé di “Aftermath”. Ciò significa un passo in più nella scala della profondità psicologica, e in effetti, le molteplici immagini femminili che la band dipinge in questo disco, sia musicalmente che liricamente, rappresentano un genuino progresso artistico rispetto all’immaginario più piatto di “Aftermath”. Non sorprende che, se “Aftermath” era l’album di Chrissie Shrimpton, allora “Between The Buttons” è quello di Marianne Faithfull, e Marianne, nelle sue stesse parole, è “very complicated”, perché anche se è vero che “She knows just how to please her man, softer than a baby lamb”, è anche moderatamente “educated, doesn’t give a damn” e, per la prima volta, l’eroe è pronto ad ammettere la propria inferiorità: “She’s sophisticated, my head’s fit to bust”. “Complicated” è una delle tante gemme sottovalutate di questo disco, combinando un ritmo bayou in stile “Susie Q” con un sentimentalismo da music hall, riesce a presentarci un protagonista profondamente confuso, il ritratto di un ragazzo relativamente semplice che non è del tutto sicuro di cosa fare con una donna inaspettatamente sovra-intellettualizzata che gli è caduta tra le mani direttamente dal cielo. Non è né una serenata amorosa, né una censura misogina, ma una canzone di genuino smarrimento, forse una delle più oneste canzoni di Mick sulle donne. Altrove, c’è la serenata, “She Smiled Sweetly” è la più bella e originale dichiarazione d’amore del gruppo fino a quel punto. Una canzone nella quale lo strumento principale è l’organo Hammond, suonato da Jack Nitzsche, che le conferisce un’atmosfera quasi religiosa, e in secondo luogo c’è la batteria di Charlie che qui duetta con Jagger, preparando la scena per ogni suo intervento vocale, e la compagna è considerata l’unica cosa che possa lenire e calmare quelle insicurezze e paure che continuano a perseguitare l’eroe maschile. È l’equivalente dei Rolling Stones di “Here, There And Everywhere”, solo al contrario: dove McCartney proietta la propria dolcezza, come nuvola avvolgente sulla sua amante immaginaria, Jagger si nutre della sua dolcezza per salvarsi dai brutti sogni e dai brutti risvegli. Il che fa di McCartney un cavaliere coraggioso che si sacrifica e di Jagger un bastardo egoista o di McCartney un narcisista, accondiscendente e di Jagger un onesto amante riconoscente.
Non mancano un paio di caricature, “Cool, Calm & Collected”, posta all’inizio, e “Miss Amanda Jones”. La prima è gli Stones in competizione con Ray Davies in quella sua modalità alla “Dedicated Follower Of Fashion” e “Dandy”, solamente che loro preferiscono cantare di un signore piuttosto che di un damerino, e gli ficcano in testa quei buoni vecchi valori, accelerando freneticamente il tempo verso la fine, finché tutto non crolla in maniera decisamente calma e raccolta. C’è anche una dimensione simbolica, la canzone potrebbe essere interpretata come rappresentazione della mondanità, che vortica sempre più velocemente. Ma che tipo di simbolismo potrebbe essere legato ai bizzarri accordi che Brian suona col dulcimer, introducendo ogni nuova strofa con una danza celtica ubriaca e fuori dalle righe? Non ne ho assolutamente idea, ma è così totalmente figo che ci sta, comunque. Ci sono elementi di ricorsività anche su “Miss Amanda Jones”, adoro come le chitarre si agganciano al “Down and down she goes” di Jagger, al “On and on she goes”, al “Up and up she goes”, e come la canzone, nei suoi tre minuti, diventi ancora più di “Cool, Calm & Collected”, un caos. Quando arriviamo alla conclusione carnevalesca di “Something Happened To Me Yesterday”, siamo pronti a darne almeno due interpretazioni, è l’equivalente del protagonista che si sveglia dopo un trip da acido, ma figurativamente è anche un risveglio dalla confusione psicotica del resto dell’album con il suo arrangiamento relativamente scarno, ravvivato da un forte, ma molto terreno supporto dei fiati, sembra davvero “ok, è ora di tirarsi su e tornare a casa!”; e, tra l’altro, dà inizio a tutta una serie di finali di album straordinari, polvere e morte potremmo dire, dove potevi essere scosso, stressato, pietra rotolata, preso a calci e sballottato tutto il tempo, ma l’ultimo brano (“Salt Of The Earth”, “You Can’t Always Get What You Want”e “Moonlight Mile”) ti lascia sempre con, se non un barlume di ottimismo, almeno una goccia di sanità mentale. Dite quello che volete sull’immagine da cattivi ragazzi ma, in realtà, fin dal 1967, si sono inconsciamente considerati i guardiani della vostra sanità mentale, della vostra moralità. Voglio dire, la mia reazione istintiva a “Something Happened To Me Yesterday” è sempre stata “cazzo, questi ragazzi sanno davvero come diventare i miei amici”. Questo prima che mi prendessi il tempo di studiarne il testo e comprendere che, in realtà, mi stavano incitando a buttar giù dell’acido.
Saremmo quasi pronti ad affermare che l’album è migliore di “Aftermath”, per la diversità stilistica e la complessità musicale, ma è la mano invisibile di Mick Jagger a fermarmi all’ultimo momento, indicando che, dopo tutto, “Aftermath” è una rappresentazione più chiara e genuina della band in quel momento. Entrambi i dischi sono grandiosi in modo diverso, e l’unica ragione per incitare una tale disputa sarebbe quella di completare la restaurazione di “Between The Buttons” alla posizione di un disco classico a pieno titolo e, una volta per tutte, demolire la tradizione retrograda che dice “I Rolling Stones non erano davvero troppo Rolling Stones nel 1967, quindi quegli album hanno i loro momenti giusti, ma lasciate il pop ai Kinks, e la psichedelia ai Beatles”. Shit.
Flowers (1967)
Più che altro jail flowers, considerando che tre giorni dopo l’uscita dell’album, Mick e Keith scontarono il carcere e sebbene sia quasi certamente solo una coincidenza, tutti e cinque sulla copertina dell’album sembrano guardarci dall’isolamento. La storia di Brian Jones che è l’unico totalmente privo di foglie è anche leggendaria e abbastanza premeditata. La parte più importante, naturalmente, è il disegno psichedelico nella parte inferiore, che indica la disponibilità del gruppo, almeno sulla carta, di giocare al gioco del flower power; tuttavia solo alcune canzoni, comunque parzialmente, potrebbero essere considerate psichedeliche, era un chiaro caso di aggiornamento dell’immagine che andava oltre gli aspetti musicali. Infatti, anche se l’album uscì nel giugno del 1967 e quindi, tecnicamente, fu questo disco, piuttosto che “Their Satanic Majesties Request”, che poteva essere visto dal pubblico come la risposta della band a “Sgt. Pepper”, tutte le canzoni erano state registrate dal dicembre ’65 al dicembre ’66, e selezionate per l’ennesimo pacchetto di stranezze per il mercato americano. Aveva tutte le possibilità di diventare il sequel di “December’s Children” se non fosse stato per il fatto che nel 1966 gli Stones erano diventati songwriter così straordinari che anche i loro odds and ends erano di gran lunga superiori a quasi tutto il resto. Inoltre, solo alcuni di questi brani, come “My Girl”, erano di fatto outtake; per la maggior parte, si trattava ancora di fornire agli americani brani che il pubblico inglese aveva già conosciuto.
Così, quello che abbiamo è un gruppo di canzoni incluse nelle edizioni inglesi di “Aftermath” e “Between The Buttons”, “Mother’s Little Helper”, “Take It Or Leave It”, “Backstreet Girl”, “Please Go Home” e una versione scorrettamente tronca di “Out Of Time”; il singolo “Have You Seen Your Mother”; tre canzoni registrate nel 1965 e rimaste nei caveau americani “My Girl”, “Ride On Baby”, “Sittin’ On A Fence”; tre brani che erano già presenti sulle edizioni statunitensi di “Aftermath” e “Between The Buttons”, “Ruby Tuesday”, “Let’s Spend The Night Together” e “Lady Jane”.
“Ruby Tuesday” funziona bene come apertura. Non ci vuole molto di più del profondo “She would never say where she came from” di Mick per stabilire un’atmosfera di mistero romantico, e non ci vuole molto di più dell’arrangiamento barocco della canzone per far dire, “Wow, stanno davvero viaggiando a tutta velocità su quel treno!”. Crea perfettamente l’atmosfera, al punto che plasma la mia percezione dei Rolling Stones come un gruppo di pop sensibile e psicologico, una percezione che, come si è scoperto, è stata cruciale nel valutare tutte le sottili sfumature delle loro registrazioni blues-rock e country-rock. Dal punto di vista della qualità e della coerenza, “Flowers” è praticamente il disco numero uno di quel periodo. La gente spesso si lamenta dell’inclusione di “Take It Or Leave It”, sembra un po’ rigida e monotona e il coro “Oh la-la-la-ta” pare elementare, ma ho sempre avuto un debole per la scala a chiocciola di una melodia vocale, che ricorda quello che i Beatles facevano su “If I Fell”, e il suo tono generale di morbido rimprovero piuttosto che di condiscendente condanna. Qualcuno si lamenta anche della cover di “My Girl” di Smokey Robinson che, non a caso, è la registrazione più vecchia di tutte, ma gli Stones investono una tonnellata di sforzi, e ne esce più rigida e meccanicamente robotica di qualsiasi versione di un classico soul. A volte abbiamo bisogno di prove che Mick Jagger e i suoi siano in grado di esprimere la semplice, quintessenziale gioia di essere semplicemente innamorati.
Ma “My Girl” a parte, “Flowers” è ancora gli Stones al loro picco misogino, è quello di “Let’s Spend The Night Together”, si tratta di chiederle di “Ride On, Baby”, o almeno di “Please Go Home”, perché chi vorrebbe davvero tenere una “Backstreet Girl” che è permanentemente “Out Of Time”? E alcune di queste sono davvero “Backstreet Girl” cattive, in un certo senso, potrebbe essere la cosa più cattiva che Jagger abbia mai scritto, semplicemente perché non si sa mai quanto di questo “Don’t want you out in my world, just you be my backstreet girl” sia recitazione e quanto sia un atteggiamento sincero, considerando l’enorme numero di backstreet girls che l’uomo ha mantenuto in giro per il mondo. La cosa veramente perversa è, naturalmente, quanto tenera e graziosa sia la melodia, fa quasi intravedere una Joan Baez, con l’accordeon che aggiunge un po’ di atmosfera francese, ah, ces Gaulois, les rois d’adultère!
Forse l’atteggiamento aspro dei testi è costantemente ammorbidito dal lato melodico così, le accuse infuocate dell’ex partner del protagonista in “Ride On Baby” è temperato dal clavicembalo e dalle marimbe di Brian, creando un’atmosfera giocosa e gentile; e “Out Of Time”, con più marimbe e una linea di basso a tre note simile al tempo di un tango che sembra provenire dallo stesso campo di battaglia di “My Girl”, suona come un lento, sensuale e sexy, con una partner piuttosto che la colonna sonora appropriata per un doloroso rifiuto. In altre parole, gli Stones qui giocano una sorta di intrattenimento dei cinquanta modi per lasciare il tuo amante, a patto che ognuna delle vie sia lastricata di galanti manierismi musicali. Persino “Please Go Home” con quel ritmo alla Bo Diddley e la batteria più schiantata di sempre di Charlie, è quasi psichedelica e Brian suona con un oscillatore ancora impostato per ingannarti con un headbanging per farti saltare la testa senza permetterti di notare quanto siano crudeli le parole.
Ma non facciamo l’errore di farci travolgere troppo dal politically correct e continuiamo a ricordare che la grandezza di “Flowers” sta negli istinti melodici di Jagger e Richards, negli istinti sonori di Brian Jones, e nell’atmosfera generale dell’epoca, che in qualche modo apriva alle peculiarità più inventive e sperimentali, o ancora nell’anima di sideman come Ian Stewart o Jack Nitzsche. Non ci sono due canzoni su questo album che suonino allo stesso modo, i riff sono esplosioni di feedback, fanfare di fiati, fioriture di clavicembalo, rulli di marimbe, e persino modelli in acustico come Keith e Brian dimostrano nella gemma quasi dimenticata di “Sittin’ On A Fence”, una brillante vetrina per tecniche di tessitura che non credo abbiano mai ripetuto altrove. Tutto questo fa di “Flowers” il più grande album dei Rolling Stones che non è mai stato pensato per essere un album dei Rolling Stones.
Their Satanic Majesties Request (1967)
Mi sento sempre a disagio nell’unirmi al coro e a battezzare “Their Satanic Majesties Request” l’album insolito degli Stones. Implicherebbe, in qualche modo, che ci sono cose tipicamente attese cose inequivocabilmente inaspettate. Sarebbe ridicolo giudicare i Rolling Stones del 1967 con gli standard, diciamo, del 1976. È il solito problema delle valutazioni ex-post. Sarebbe più strano se non fossero diventati psichedelici nel 1967 e vedere Mick Jagger e Keith Richards in caftano non era, dopo tutto, più strano che vedere Eric Clapton con i capelli crespi, o gli Hollies che brandivano sitar.
Ci sono due ragioni per cui, quando si parla dell’età dell’oro degli Stones (1966-72), non si dovrebbe mai fare eccezione per la loro suite psichedelica “Their Satanic Majesties Request”. Uno: nonostante tutti i problemi personali che ebbero in quell’anno, Jagger e Richards avevano solo raggiunto l’apice del loro songwriting, e questo non lo perdi tanto facilmente una volta ottenuto. Due: le affermazioni che stessero scimmiottando i Beatles sono ridicolmente semplicistiche. Gli Stones abbracciano la psichedelia, ma ci mettono il loro timbro e quello di nessun altro. Mentre scorro velocemente nella mia mente la solita gamma di classici dell’epoca (“Sgt. Pepper”, “Are You Experienced”, “Psychedelic Sounds Of 13th Floor Elevators”, “Piper At The Gates Of Dawn”, “Days Of Future Passed”…), non ce n’è uno solo che possa essere un modello per “Their Satanic Majesties Request”. Perché questo non è un “Ehi, lasciamo perdere tutto quello che abbiamo fatto prima e andiamo a suonare qualche sitar!”. Si tratta di prendere tutto quello che avevano imparato nei tre anni precedenti, l’oscurità, la cattiveria, l’arte dei riff, e applicarlo al nuovo idioma musicale emergente: una sintesi senza precedenti.
Contrariamente all’opinione diffusa che “Their Satanic Majesties Request” fosse in gran parte frutto della mente di Brian Jones (perché chi altro poteva spingere gli Stones verso la psichedelia più estrema se non colui che originariamente aveva portato sitar, marimbe e dulcimer?), Mick e Keith furono responsabili del cambiamento tanto quanto Brian. Keith, forse, in seguito, se ne sarebbe pentito esplicitamente, ma Mick, sempre alla ricerca di una metamorfosi, sembra aver conservato più amore per questo album che per “Between The Buttons”. In ogni caso, tutti i crediti per le canzoni sono di Jagger/Richards, con l’aggiunta di Bill Wyman per “In Another Land”, e non c’è uno straccio di prova che suggerisca che uno dei due non si sia divertito a registrarlo nonostante tutte le riserve del caso, i loro processi per droga e le condanne che incombevano su di loro per gran parte di quell’anno.
Quella tensione nervosa e quella, non ingiustificata, aura di paranoia sono spesso citate come lo spirito che pervade “Their Satanic Majesties Request”, e avrebbe un senso chiedersi se l’album sarebbe stato meno oscuro senza tutto ciò, ma la storia non conosce se: in primo luogo, nel 1967, furono prevedibilmente scelti come capri espiatori, con la loro immagine pubblica pericolosa, e in secondo luogo, chi poteva davvero aspettarsi che stessero seduti lì con sorrisi felici, noncuranti, con le fossette sul volto e cantassero la splendida beatitudine del flower power? Chi potrebbe anche solo immaginare un Mick Jagger idealista si unisse all’esuberante cameratismo e applaudisse e cantasse cose come “All you need is love, love is all you need” come se non ci fosse un domani?
Comunque, speculazioni e scenari alternativi a parte, il fatto rimane: “Their Satanic Majesties Request” ci dà una impronta ancora più oscura, più scomoda, più psicologicamente disturbante. Condivide una certa conflittualità con “Sgt. Pepper” nei termini di essere una cornice avvolgente. Mi piace pensarlo come un viaggio onirico, dove le cose prendono piede dalla vita reale, “Sing This All Together” come un inno di festa o un finto rituale sciamanico, conducono il protagonista in una trance da incubo, quando, come una versione adulta di Alice, passa attraverso un’alternanza di visioni surrealiste di mistero, bellezza e pericolo, per poi infine risvegliarlo nella cruda e triste realtà del trambusto della vita, “On With The Show”. Ma il mondo fantastico dei Rolling Stones è molto meno piacevole di quello dei Beatles. Lì ci sono circhi itineranti, Lucy con diamanti e adorabili Rita, qui i tuoi compagni saranno tipi strani come 2000 Man o Gomper, ammantati di incomprensibilità e minaccia e per gran parte del tempo, non avrai nemmeno una compagnia, trovandoti a duemila anni luce da casa. Ci si sente molto soli.
In realtà, la cosa del nessun divertimento inizia proprio con un titolo come “Sing This All Together” implicherebbe un’atmosfera di allegria collegiale, ma non c’è niente del genere. Invece, la canzone si accorda molto bene con testi del tipo “Pictures of us beating on our drum/Never stopping till the rain has come”, suona come una preghiera collettiva leggermente scomposta per la pioggia, una seduta spiritica dove nessuno può essere veramente sicuro del possibile risultato. Il suono insolito e spumeggiante della melodia, che enfatizza il ritmo tribalistico sull’armonia, con tutti gli strumenti coinvolti, è ulteriormente rafforzato nella pausa strumentale, che ti rende l’impressione che siamo ora tutti trascinati sott’acqua o, almeno, di traverso a una viola foschia, un’esperienza che potrebbe portare all’illuminazione o rivelarsi letale. Quando emergiamo da questa nella ripresa del refrain, è come respirare a pieni polmoni, ma manca poco che la vita reale, con un ultimo soffio della sezione fiati, ancora una volta ti porti dalla parte dell’incubo, e questa volta, ti lascia quasi fino alla fine.
Quello che succede dopo è una sequenza di eventi così strani, così smarriti, eppure così significativi che non è chiaro da dove cominciare. Quindi perché non iniziare con una delle mie preferite, una canzone che raramente viene elencata come un apice del disco, ma che mi è sempre sembrata contenere la chiave dell’intero album. “The Lantern” è uno di quei brani “shine-a-light-in-the-dark” a cui fare ricorso nei momenti bui, e la cui brillantezza compositiva è da ammirare. Lontani rintocchi di campane suggeriscono qualcosa di luttuoso poi battute di una melodia funerea in chiave minore ti invitano alla forza d’animo e ancora una strana, balbuziente soavità, confezionata da una chitarra acustica, alla ricerca del giusto groove, e uno strano suono spezzato che non sono mai riuscito a decifrare. Chitarra? Organo? Mellotron? Qualunque cosa sia, in poche battute crea l’atmosfera di un’anima persa e terrorizzata che si fa strada attraverso una caverna nera come la pece. Sul finire, in lontananza, con un morbido, ma severo schiocco di batteria, arrivano quei vocalizzi che danno speranza: “Weeeeeee… In our present life…”. Questa cosa da sola basterebbe, ma la parte culminante è il verso con cui Mick conta con forza le battute su “That if you are the first to go/You’ll leave a sign to let me know/Tell me so”, ogni sillaba pesantemente accentuata per aumentare la tensione. Per quanto mi riguarda, questa è la prima delle sue performance vocali, quelle che più tardi avrebbero centrato il bersaglio su “Moonlight Mile”, “Shine A Light” e “Winter”, quelle che in qualche modo legano insieme terra e cielo combinando sarcasmo, decadenza e ferocia, da un lato, con un appello alla speranza, all’ottimismo e alla salvezza, dall’altro. Si potrebbe dare alla canzone un’interpretazione letterale, uno spirito defunto torna di notte all’amante, preparandolo per la strada da percorrere, ma io preferisco un’interpretazione più astratta: una canzone su un faro di speranza nell’oscurità? Dannazione se conosco una metafora musicale più bella di questa, che apre una tradizione ancora sottovalutata sull’umanesimo spezza cuori della loro carriera.
Ci sono altri brani di luce e bellezza, naturalmente, il più logico dei quali è “She’s A Rainbow”, che appartiene a Nicky Hopkins e al suo piano mozartiano, per non parlare di uno squisito arrangiamento d’archi di John Paul Jones, ed è solitamente lodata anche dai detrattori dell’album come una delle più splendenti ballate degli Stones. È praticamente impossibile avvertire sottili accenni a un lato più oscuro, a parte, forse, negli strani accordi di chitarra distorta che generano una coda imprevedibilmente inquietante, anche al più tetro degli incubi può essere concesso di avere momenti di tregua, ed essere così orlato su tutti i lati dall’inquietudine aiuta solo ad accentuare ulteriormente l’eleganza barocca della canzone. Questa è l’unica volta nella loro carriera ove intonano un inno alla bellezza astratta, è splendida col suo mix di piano, archi e fiati che persino un Brian Wilson avrebbe potuto invidiarli. Ma “She’s A Rainbow”, a parte, quello che abbiamo è un’esperienza inquietante dopo l’altra. C’è il trambusto fantascientifico, proto Hawkwind, di una pericolosa città del futuro costruita su colline di cemento di “The Citadel”, una canzone che presenta un mostruoso riff hard-rock di Keith, ma che in realtà è molto più di un solo riff, il clavicembalo, il mellotron, una batteria infernale, una voce senza pace e, soprattutto, quello strano suono, squillante, quello che dà l’impressione di gocce di oro fuso che stillano ripetutamente da un enorme rubinetto posto in cielo. C’è “In Another Land” di Wyman, che è una sequenza onirica, quel clavicembalo non ha mai suonato così freddo senza i venti invernali che gli ululano intorno, e non riusciamo nemmeno a capire cosa sia meglio: essere coinvolti in un sogno come quello o svegliarsi per scoprire che era tutto uno scherzo. C’è “2000 Man”, una mini-suite quasi progressive che contiene tre parti melodiche ugualmente orecchiabili, ma totalmente distinte, e funziona anche come un’intelligente previsione sul progresso tecnologico: “Oh daddy, your brain’s still flashing/Like it did when you were young/Or did you come down crashin’/Seein’ all the things you’ve done/Oh, it’s a big put on”. Oggi, a noi, sembra risuonare dolorosamente.
E poi, “2000 Light Years From Home” è una gemma assoluta. I Pink Floyd ci avevano già detto che “Stars can frighten”, ma se dovessi fare una scelta tra la stranezza compositiva e sonora di “Astronomy Domine” e il suono un po’ più convenzionale di “2000 Light Years From Home”, sceglierei comunque la seconda. “Astronomy Domine” è un dipinto sonoro, una rappresentazione musicale della grandezza, complessità e casualità dell’universo, ma, talvolta, spersonalizzato, l’artista è uno spettatore poco coinvolto, forse incollato al suo telescopio o a qualcosa del genere. “2000 Light Years From Home” non guarda le meraviglie del cosmo, è un’impressione profondamente personale di quanto sia terrificante essere soli in una galassia lontana, e per galassia si potrebbe benissimo intendere un trip da acido o una cella solitaria in una prigione di Londra. Tutto nella canzone è oscuro, freddo, repellente, spaventoso, inclusi i primi quaranta secondi di piano atonale, che probabilmente delineano quanto di più vicino abbiano mai composto in termini d’avanguardia; o l’incredibile assolo di chitarra, tutto suonato nella gamma più bassa, che suona come il processo di assimilazione di qualche enorme creatura spaziale, il basso costruisce la suspense, il mellotron accresce il mistero, e Mick canta fuori da una camera criogenica. “2000 Light Years From Home” potrebbe echeggiare terrificante e questo anche prima di capisaldi come “Space Oddity” o “Rocket Man”, nessuna di queste ci indurrebbe al puro terrore psichico attraverso la musica. Il disco pecca di qualche eccesso, come l’interminabile psycho jam di “Sing This All Together (See What Happens)” e il drone orientale di “Gomper”. Sono improvvisazioni molto più godibili in un disco dei Grateful Dead, ma gli Stones sono puro istinto. “Sing This All Together (See What Happens)” è introdotta da un’innocua, ma perspicace domanda “Where’s that joint?”, è come la colonna sonora di un viaggio teleguidato da un qualche freak show surrealista, manca solo l’occhio tagliato di Salvador Dalì, e “Gomper” è l’interpretazione tipicamente Stones di un raga indiano. Immaginate Ravi Shankar con un attacco di panico nel bel mezzo di un concerto, ecco, questo è “Gomper”. Nel momento stesso in cui riemergiamo nella conclusione di “On With The Show”, ci cogliamo come sollevati, scossi da un laido, ma indimenticabile sogno che ti ha appena indicato il rovescio della medaglia di “Lucy In The Sky With Diamonds”. Non lasciatevi ingannare dal preconcetto che, “Their Satanic Majesties Request” abbia a che fare con la glorificazione della psichedelia e i piaceri della mind expanded: non c’è nulla del genere, è un’opera d’arte musicale astuta, intelligentemente progettata e completamente autosufficiente, con alcune delle liriche, melodiche e testuali più interessanti della band, e con alcune qualità analitiche proprie; in effetti, arriverei a dire che, a tratti, possiede una natura molto più intellettuale di “Sgt. Pepper”, e che la sua uscita, alla fine di quel magico anno, lo rende perfetto nel delimitare eccessi e contenere antidoti. Persino la copertina, vista da questa prospettiva, sembra una risposta ironica a “Sgt. Pepper” e se anche non lo fosse, amo ancora i suoi colori furiosi.
“Their Satanic Majesties Request”, dopo essere stato per molto tempo considerato il più grande abbaglio della band, ha cominciato a guadagnarsi un culto piuttosto ampio, in particolare tra quegli hipster che amano dichiararsi annoiati dal tipico blues-rock degli Stones pre-1966/post-1967. Non ho nessuna aspirazione a cantare le lodi di “Their Satanic Majesties Request” a spese di “Beggars Banquet” o viceversa. Il fatto è che la grandezza degli Stones, e la loro capacità di reggere il confronto con i Beatles, sta precisamente nella loro capacità di far uscire un disco come “Their Satanic Majesties Request”, e poi di farlo seguire da un disco come “Beggars Banquet”. Solo un gruppo cresciuto nel blues avrebbe potuto fare un album oscuro e psichedelico come “Their Satanic Majesties Request” e solo un gruppo che aveva appena costruito un disco oscuro e psichedelico come questo poteva iniettare un po’ di quell’oscurità e di quella pretesa artistica nel suo successivo compromesso artistico. Ognuno non esiste senza l’altro, in breve, come dicono gli stessi Stones, “Open your heads, let the pictures come”.
Beggars Banquet (1968)
“We were starting to find the Rolling Stones”, disse Keith Richards sul periodo durante le realizzazioni di “Beggars Banquet”, un’osservazione che per certi aspetti, riesce a buttare a mare persino “Satisfaction”. Tuttavia, se si prende alla lettera questa osservazione, potrebbe davvero significare “stavamo iniziando a scolpire nella pietra la nostra immagine”. Quando, nel 1969, tornarono in giro dopo anni di riscatto dai loro problemi e dopo aver drammaticamente accantonato il dilemma Brian Jones, con l’eccezione di due o tre vecchie canzoni, tutta quella psichedelia, tutta quella vibrazione inglese completamente irrilevante per il loro sviluppo, l’equivalente di simpatici esperimenti adolescenziali di scrittura, finirono in soffitta per sempre.
Ironicamente, mentre nel 1969 concentrare i loro live su materiale recente era chiaramente inteso a presentare una band ringiovanita, lo stesso identico repertorio alla fine divenne quella sorta di macigno al collo, canzoni come “Jumpin’ Jack Flash”, “Sympathy For The Devil”, “Street Fighting Man”, “Gimme Shelter”, “You Can’t Always Get What You Want”, “Honky Tonk Women” divennero capisaldi radicati, perni intoccabili attorno ai quali avrebbero fatto ruotare non solo i loro spettacoli, ma anche la percezione da parte della critica.
All’inizio del 1968 diversi fattori convergevano per dimostrare quella transizione.
Primo, la musica si stava evolvendo, e gli Stones, Mick Jagger in particolare, erano avvolti dall’inquietudine di perdere quelle preziose inclinazioni che avrebbero assicurato la loro stabilità. L’englishness alla Ray Davies no: i Kinks stavano cominciando a perdere appeal commerciale, e la cultura mod stava cominciando a dissiparsi. La faccenda del flower power, dopo aver raggiunto l’apice, subì lo stesso destino, soprattutto dopo che divenne evidente che il mondo non sarebbe cambiato imbarcandosi in misteriosi magici tour. D’altra parte, il roots revival, di Dylan e dei Byrds, sembrava prendere il sopravvento; e una volta che gli Who aprirono le cateratte della chitarra elettrica, cominciarono ad affluire artisti da una sensibilità più hard. Non ci volle molto perché gli Stones imparassero da che parte soffiasse il vento e, inevitabilmente, diventassero rootsy e heavy.
Secondo, e più personale, nel 1968 Brian Jones non era più una presenza vitale nella band: le droghe unite a problemi psicologici individuali lo avevano ridotto al fantasma di se stesso, anche se Keith, il cui problema con la droga era soltanto meno grave, trovava ancora abbastanza forza interiore e disciplina per tenere il timone. Anche se non mi spingerei così lontano, come fanno alcuni, affermando che nel 1966-67 Brian era il cuore della musica del gruppo, anche se ci sono pochi dubbi che Mick e Keith lo abbiano turlupinato svariate volte, fu un progettista cruciale del suono del gruppo. Senza la sua partecipazione attiva, difficilmente ci si poteva aspettare sitar, dulcimer, theremin o quant’altro, il motto di Keith era, “se va bene per Muddy Waters e Chuck Berry, va bene per me”. Ci si poteva comunque attendere che continuasse a cercare quel suono di chitarra definitivo, quello che trasmettesse in modo appropriato tutta la sua burberità da cuore ruvido, spaventoso, ma nobile, un suono che si poteva trovare nelle sue accordature aperte, così come in certi semplici imbellettamenti produttivi, come le tracce acustiche registrate a parte su “Parachute Woman” e “Street Fighting Man”.
Ci sono ancora elementi di legati a Brian Jones su “Beggars Banquet”, sarebbe sbagliato attribuire tutto il suo fascino sonoro a Keith. “No Expectations” sarebbe stata insipida senza la slide di Brian; “Parachute Woman” meno ossessionante senza la sua armonica; “Street Fighting Man” meno tesa e minacciosa senza il suo sitar; “Jig-Saw Puzzle” noiosa senza il suo mellotron. Tutti questi elementi offrono collegamenti vitali con il loro recente passato, trasformando “Beggars Banquet” in qualcosa di più grande di un semplice album roots-rock e aggiungendo sufficientemente mistero e ambiguità da suggerire che forse non era troppo tardi per riaffermare il suo posto nella band.
Tuttavia, sarebbe anche un errore affermare che il 1968 vide gli Stones abbracciare un generico blues-rock, un’affermazione che li sminuirebbe al livello di gruppi come i Grand Funk Railroad o gli Steppenwolf e ci lascerebbe ciechi di fronte a tutta l’eccitazione per la loro golden age. Certo, avevano iniziato come ammiratori del blues elettrico americano, convertendolo quasi accidentalmente in blues elettrico inglese per adolescenti depressi, ma nel 1968 emulare semplicemente le convenzioni e i cliché era la cosa più lontana dalla loro mente. Questa volta avevano una missione, alimentata dalla loro continua battaglia col sistema, una complessa relazione con le droghe, un intellettualismo indotto da Marianne Faithfull e, soprattutto, un perfezionismo furioso. Usciti dal turbine del 1967 volevano essere di nuovo in cima, cancellare la loro agenda, diventare la più grande rock’n’roll band del mondo, non solo a parole, come prometteva Andrew Loog Oldham.
Quindi cominciamo con “Parachute Woman”, un apparentemente semplice blues in 12 battute con una struttura di versi AAB del tutto convenzionale. Il tipo di brano che, nel 1968, avresti potuto trovare su centinaia di album. Ma niente allora possedeva il marchio di quella chitarra acustica, una specie di conversione da lo-fi a hi-fi, ottenuta registrando prima la parte ritmica su cassetta, in una doppia traccia e poi trasferendola a un otto tracce. Si potrebbe battezzare un’imitazione a buon mercato di Leadbelly o di Robert Johnson, ma non è così. È più profondo, più ombreggiato, più echeggiante, e quando s’arricchisce di un’elettrica distorta che tritura accordi aperti, crea un’atmosfera arcigna, alla quale Jagger aggiunge la sua voce. E questa non è solo un’emulazione: ciò che conta non è quanto suoni britannico, americano o finto-americano, ma come sia capace di usare tutto il potenziale fisico della sua gola, in tutti quei “parachute woman”, canta direttamente dalla faringe, convulsionando e contorcendo la voce come un pazzo, a volte passando dal più profondo aaah al più acuto eeeh nel giro di un secondo. Anche se dal punto di vista compositivo, “Parachute Woman” non ha particolari attrattive, dal punto di vista stilistico, ci offre un blues-rock completamente rinnovato, mirato a solleticare le giuste terminazioni nervose. È come una canzone di Howlin’ Wolf con una mentalità distinta, se fosse solo un po’ meno intensa, sarebbe noiosa e inoffensiva, ma così com’è, resta minacciosa ed esilarante allo stesso tempo. Anche il colpo di armonica finale, soffiato da Mick non da Brian, che suona le parti di accompagnamento, è estremo, come un segnale di allarme. E questa è solo una di quelle che solitamente viene omessa dalle recensioni; eppure, preferisco concentrarmi di più su quei brani che non sui classici come “Sympathy For The Devil” o “Street Fighting Man”.
“Stray Cat Blues”, ad esempio, è uno dei più controversi del repertorio degli Stones a causa dell’incauta inclusione da parte di Mick dell’età della sua donna (la versione originale dice “I can see you’re just fifteen years old”, la versione live di “Get Yer Ya Ya’s Out” lo cambia in “I can see you’re just thirteen years old”, mentre nei remaster dei primi anni 2000, fu corretta in “Sixteen years old”). Naturalmente, si potrebbe replicare che la canzone è una parodia di tali atteggiamenti, ma dato quello che sappiamo sui gruppi rock e del loro rapporto con le groupie, non c’è il minimo dubbio che Mr. Jagger lo intenda concretamente quando dice “It’s no capital crime”, non moralmente, almeno. Indipendentemente da ciò, è la canzone non il cantante che conta, e, musicalmente, è un capolavoro sonoro, insieme a “Helter Skelter” uno dei due più densi di quell’anno. Entrambi ambiscono a creare un’atmosfera da incubo con molteplici sovraincisioni, ma “Helter Skelter” è meno inquietante, forse più rabbiosa. “Stray Cat Blues” è totalmente costruita su Mick, i cui gemiti, lamenti e bo-bom-bo-bom-bom-cha sono maniacali, e su Keith, che trasforma la coda della canzone in una discesa realistica nelle più calde viscere dell’inferno, quel riff che entra a 3:30 suona come nient’altro, come una scala mobile irreversibile che scende verso le fosse. Aborrirlo come una glorificazione del male o ammirarlo come un gioco sarcastico, non è importante: la tela musicale creata in quella canzone è la cosa più vicina all’inferno di qualsiasi altra cosa all’epoca. Forse gli Stooges di “Funhouse” la supereranno in termini di pura potenza brutale, ma gli Stones non sono mai veramente brutali in quanto tali eccetto che per quel riff stridente, tutte le parti strumentali qui sono esili, sia il piano di Nicky Hopkins che le rimanenti sovraincisioni di Keith. Il loro Satana, lo squallido seduttore di ragazze quindicenni, non è un pazzo furioso, è furbo come loro, e preferisce stordire le sue vittime con una forza orgiastica di proporzioni carnevalesche piuttosto che bloccarle al muro con un morboso attacco hard rock. Una visionaria metafora musicale del secondo cerchio dell’inferno. Niente potrebbe essere più lontano da ciò del pulito e ordinato paesaggio sonoro di “Jig-Saw Puzzle”, una canzone sulla quale il muschio del tempo sembra essere cresciuto con particolare piacere. La ragione per cui non fu mai eseguita dal vivo sembra abbastanza chiara, il suo debito lirico verso Dylan rasenta l’adulazione da scolaretto. Leggerne il testo ti fa sentire a disagio, è come se Jagger fosse quasi fisicamente bloccato nel suo sforzo di diventare Dylan, mentre dipinge quadri verbali che sembrano surrealisti ma non ci riescono, culminando nell’ammissione che tutte queste immagini sono parte di un puzzle in carne e ossa piuttosto che di un universo parallelo; e poi, quando le cose cominciano ad avvicinarsi all’inevitabile fallimento completo, se ne esce con la strofa sulle ventimila nonne e la Regina, Bob scriverebbe mai un verso come “She blessed all those grandmas who with their dying breaths screamed ʽthanksʼ”? Testo a parte, musicalmente è perfetta. Keith suona alcune delle parti di slide più raffinate e, oserei dire, sottilmente psichedeliche di tutta la sua carriera e Brian ci confonde tra mellotron e theremin. Ascoltate bene il finale, non è meno denso di quello di “Stray Cat Blues”, solo che qui le chitarre, il piano di Nicky e il mellotron di Brian creano un paesaggio sonoro paradisiaco, con accenni che scivolano avanti e indietro come piccoli angeli esuberanti.
È importante notare che, anche se Keith è il capobanda, la grande forza di “Beggars Banquet” sta nel suo magnifico pool di talenti. Per la prima volta, nella storia dei Rolling Stones, la band è benedetta da un vero produttore, Jimmy Miller, che, l’anno prima, aveva realizzato mirabilia con i Traffic, che insieme a Glyn Johns, garantiscono che ogni canzone suoni come una gloriosa somma delle sue parti e che non una singola parte si perda senza volto nella folla. Al piano, confermano Nicky Hopkins, che aveva già suonato in “She’s A Rainbow” e ora convoglia beatitudine su “No Expectations” e “Salt Of The Earth”. Per “Factory Girl” arruolano al violino Ric Grech dei Family poi Blind Faith e Traffic. E con Brian ancora in qualche modo efficiente, quello che abbiamo è un caso perfetto di transizione musicale, un album di melodie roots con fioriture artistiche. Avete presente l’assolo di Keith su “Sympathy For The Devil”? È assolutamente determinato nella ricerca di spremere dalla sua chitarra i suoni più strozzati, striduli rispecchiando la stessa fermezza nella voce di Jagger a raggiungere gli ultimi scricchiolii abrasivi.
La cosa più discussa nei tabloid del tempo fu il presunto tentativo politico sociale di canzoni come “Street Fighting Man” (con il suo presunto appello alla rivoluzione), “Factory Girl” (in contrasto con “Lady Jane” o tutti quei ritratti femminili sbiaditi e moralmente corrotti), e “Salt Of The Earth”, “We drink to the hard working people”. I Rolling Stones, non sono mai stati una band da power to the people e uno sguardo severo a tutte queste canzoni mostrerà che “Street Fighting Man” è una canzone su un singolo individuo, “Factory Girl” è dedicata a una donna per cui Mick aveva una cotta (potrebbe anche essere liquor store girl) e “Salt Of The Earth” seppellisce intenzionalmente ogni sensibilità politica quando arriva al bridge. Ma nessuna di queste contingenze le sminuisce: “Street Fighting Man” è trionfante e chiassosa, “Factory Girl” è fascinosamente affabile, e “Salt Of The Earth” ha questi intriganti strati di ambiguità, così che non si può mai dire se vuole essere inno glorificante o terrificante storia horror. “Dear Doctor” è uno dei primi esempi del trattamento parodistico del genere country, cerca di essere divertente ma non riesce, non è “Rocky Raccoon”, e l’imitazione in falsetto della voce della sposa è fastidiosa. La cover di “Prodigal Son” di Robert Wilkins è divertente, ma probabilmente un brano in cui il talento collettivo dei Rolling Stones è in qualche modo sprecato: divertente e ben suonato, ma inessenziale, a meno che non lo si voglia vedere come una testimonianza degli Stones che mandano sacrilegamente in onda il Nuovo Testamento. “Salt Of The Earth” è il finale glorioso, ragionevolmente adatto all’album, anche se qui non hanno ancora completamente padroneggiato ciò che serve per un finale veramente tale: il Watts Street Gospel Choir non è all’altezza del London Bach Choir su “You Can’t Always Get What You Want”, o degli epici arrangiamenti orchestrali di Paul Buckmaster su “Moonlight Mile”. Little mistakes, quando abbiamo questi standard epici, non si può discutere le differenze tra “Beggars Banquet”, “Let It Bleed”, o “Sticky Fingers” a qualcosa di diverso dal livello di little mistakes.
Quindi, per favore, permetteteci di presentarci siamo i Rolling Stones per la generazione post-1967, quella a cui piace più scuro, più grezzo e più pazzo e con un po’ di cocaina a parte. Ancora una volta, nessun paragone con i Beatles, con le stelle ancora una volta allineate a favore dei Fab Four: il disco avrebbe dovuto uscire nell’estate del 1968, diversi mesi prima del “White Album”, ma una disputa con la casa discografica sulla controversa copertina ritardò l’uscita al 6 dicembre, quando il “White Album” era fuori da due settimane e, aggiungendo il danno alla beffa, la Decca aveva sostituito la copertina con una semplice copertina tutta bianca. Ma, strane coincidenze a parte, ovviamente, il “White Album” e “Beggars Banquet” condividono una somiglianza non casuale, rappresentano una strategia back-to-roots, spesso descritta in retrospettiva come una sorta di antidoto conservatore contro la sbornia psichedelica della fine del 1967 (descritta rispettivamente da “Magical Mystery Tour” e “Their Satanic Majesties Request”). Qualcuno potrebbe sostenere, tuttavia, che per gli Stones questa particolare strategia funzioni anche meglio dato che sono sempre stati molto più radicali nella loro essenza. Ma se così fosse, funzionerebbe perché nessuno più di loro riuscì a fondere bellezza trascendentale e bruttura grottesca in un pacchetto più coerente e, come si è dopo scoperto, avevano appena iniziato.
Let It Bleed (1969)
Keith Richards. La maggior parte di noi lo ama, la sua miscela di brutalità e tenerezza, imperfezione e bellezza, durezza e vulnerabilità, serietà e umorismo potrebbe essere la più perfettamente equilibrata di tutta la cultura pop. Per questo, possiamo anche riconoscere e perdonare i suoi difetti come una certa ostinazione quando si tratta di espandere i propri orizzonti musicali e, forse, una certa trascuratezza della musicalità a favore dell’esibizione (un processo che, ironicamente, è iniziato pressappoco nello stesso periodo in cui l’uomo ha iniziato a ripulirsi dalle droghe). Ma c’è stato un breve momento, nel 1969, in cui Keith Richards è stato più di Keith Richards: oserei dire che per un breve periodo è diventato l’incarnazione della musica. Il più grande album guitar oriented del 1969 non è stato fatto da Jimi Hendrix, dagli Who, dai Led Zeppelin: è stato creato, quasi nella sua interezza, da quest’unico uomo, Keith Richards.
Come guitar oriented intendo, ovviamente, non solo che le canzoni siano scritte, guidate da chitarre elettriche e acustiche (da questo punto di vista, “Abbey Road” conterebbe altrettanto), ma che il suono, i toni, gli effetti, il mix, la tessitura, l’attenta selezione degli accordi appropriati per le contro-melodie e gli stacchi strumentali, contino più delle strutture scheletriche delle canzoni stesse. Qui sta il grande equivoco che spesso ho con le persone che si stupiscono di come sia possibile citare un disco come “Let It Bleed” nella stessa frase con “Abbey Road” o “Pet Sounds”: e in effetti, dal punto di vista compositivo l’album mostra poco ampliamento rispetto a “Beggars Banquet”, e forse anche una certa regressione rispetto al periodo 1966-67. Eppure qui non stiamo parlando di Mozart o Beethoven: stiamo parlando di un mezzo nettamente diverso dove una nota può a volte contare più di una frase musicale splendidamente risolta, a patto di trovare il giusto strumento, la giusta intonazione, il giusto effetto. E sono ancora stupito di quanti momenti perfetti sono sparsi nel materiale di “Let It Bleed”.
Keith era ancora in gran parte pulito all’epoca, non ancora vittima dell’eroina che, se ben ricordo, prese piede dopo Altamont e mentre l’oscuro viaggio di Brian accelerava smisuratamente verso la fine del 1968, divenne responsabilità di Keith assicurare la sopravvivenza degli Stones. Anche se “Let It Bleed” lo accredita come chitarrista (per le congas su “Midnight Rambler” e l’autoharp su “You Got The Silver”) e il suo sostituto, Mick Taylor arrivò giusto in tempo per suonare su “Country Honk” e “Live With Me”, la maggioranza delle parti di chitarra che si sentono sono Keith, Keith in acustico, Keith in elettrico, Keith in slide, persino Keith al basso! Naturalmente, c’era anche Mick, ma “Let It Bleed” manca di quelle personificazioni di personaggi iconici, teatrali e sopra le righe che avevamo sentito l’anno prima su “Sympathy For The Devil” e “Stray Cat Blues”: la scelta più ovvia sarebbe stata “Midnight Rambler”, ma la versione in studio presenta una performance inaspettatamente sobria e il carattere della canzone non sarebbe davvero esploso fino a quando non la portarono on stage.
Come “Beggars Banquet”, anche “Let It Bleed” è concepito nel paradigma dello shock rock, e dato che la posta in gioco doveva essere raddoppiata ogni anno, si passò da Lucifero alla fine del mondo (“Gimme Shelter”), a donne paracadute che fanno saltare Mick per aria, a serial killer che corrono nella notte (“Midnight Rambler”), e persino la buona vecchia psichedelia solare si è ormai trasformata in qualcosa di molto più disturbante e potenzialmente pericoloso (“Monkey Man”). Per quanto dozzinale possa essere sembrato all’epoca, direi che in retrospettiva “Let It Bleed” rimane l’ultimo album degli Stones completamente privo di qualsiasi evidente caduta di gusto, una linea che sarebbe stata superata, a livello di testi e di atteggiamento, con “Sticky Fingers”, e a livello musicale con “Goats’ Head Soup”. Qui, i testi di Mick rimangono saldamente legati a metafore e insinuazioni sporche, ma inventive; e la musica di Keith fa sì che anche i soggetti più raccapriccianti prendano vita in modalità dimenticate nel decennio successivo.
Non hanno mai più fatto qualcosa che si avvicinasse anche solo lontanamente al terrore presuntuoso di “Gimme Shelter”. Ricordo il mio primo ascolto, la reazione iniziale fu: “Ehi, non possono essere gli Stones! Non la fanno mai così! Ma erano proprio loro e ancora non ho capito. C’è una specie di eco, è un basso che traballa, copre l’intera canzone in una nuvola scura e spaventosa; e c’è una specie di effetto installato che la fa sembrare veramente come un toro impazzito che ha perso la strada per Pamplona, e poi, naturalmente, c’è la voce di Merry Clayton che buttarono giù dal letto a tarda notte e che, nel giro di mezz’ora in studio di registrazione, si è consegnata alla storia più di quanto non abbia fatto nel resto della sua carriera.
Voglio dire, legioni di persone hanno cantato su stupri e omicidi nel corso degli anni – non è difficile da fare – ma quanto è difficile scrivere una canzone su stupri e omicidi che può ancora raggelarti dopo decenni di ascolto? “Gimme Shelter” è il raro tipo di canzone che accidentalmente (di nuovo, tutta la vera grandezza è in qualche misura il risultato di un fortunato incidente) colpisce un nervo particolare ed è destinata a rimanere rilevante e vitale per tutto il tempo in cui l’umanità continuerà nella sua folle corsa verso lo sterminio: suonatela nell’era del Vietnam, suonatela dopo l’11 settembre, suonatela in un mondo fatto a pezzi da pazzi sia da destra che da sinistra, quell’alito di drago, quel backing vocal walkiriano, quei riff affilati come rasoi della chitarra solista di Keith, e persino quel tentativo di mostrarvi all’ultimo momento una via d’uscita, “Love is just a kiss away” come “Murder is just a shot” mantengono il loro potere e significato in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza.
Keith rimane un convinto sostenitore delle possibilità del sottofondo acustico, come nella title track dove la sensazione ponderosa e aggressiva non è generata da fuzz o distorsioni, ma semplicemente da un ritmo acustico accompagnato da una batteria rumorosa e da alcune note di slide accuratamente selezionate. Infatti non inizia a culminare finché non entra con il suo break di chitarra, forse il migliore break che abbia mai suonato in vita sua. Alcuni brutali accordi, a ciascuno dei quali viene dato il tempo necessario per dissiparsi e avere un impatto più profondo e poi l’appiccicosa cosa rossa comincia a scorrere, lentamente e in modo goffo, mentre il solista, con l’efficacia e la precisione di un barbiere ben addestrato, la raccoglie nella sua bacinella fino all’ultima goccia. Adoro il modo con cui Charlie entra così profondamente nel processo, verso la fine della canzone, sta martellando i piatti come un pazzo. Ahimè, nessuna di queste cose poteva essere riprodotta dal vivo, quando divenne un brano country-rock abbastanza ordinario. Cosa che è, se si presta attenzione solo alla base acustica e alle melodie vocali, ma sono le piccole cose che lo rendono molto di più, una sorta di racconto freudiano di sottintesi sessuali e vizi soppressi.
Un altro contrasto giorno e notte tra l’incarnazione in studio e la realizzazione sul palco è “Midnight Rambler”, adeguatamente notturna, con chitarre sospettosamente dissonanti, cinguettanti, echi, sussurri, sublimazioni. Mick sta davvero cantando di un assassino psicopatico, o sta semplicemente usando l’immagine come metafora dei suoi sempre crescenti appetiti sessuali? Puoi agguantarla in entrambi i modi o inventarne una terza, una quarta interpretazione. O semplicemente dimenticarle tutte e godere dei due o tre momenti in cui Keith intreccia estese sezioni strumentali. E come, di grazia? Semplice, trasforma la jam in una specie di gioco musicale, dove s’inizia a velocità regolare, per poi accelerare fino a portare tutto a un arresto per nascondersi e riportare tutto a casa. Hanno fatto molta strada da “Goin’ Home”, sostituendo l’improvvisazione ispirata ma rischiosa con un dramma musicale che si sviluppa gradualmente in movimenti diversi.
Forse non c’è esempio migliore per mostrare il livello a cui questi ragazzi avevano elevato il blues della loro cover di “Love In Vain” di Robert Johnson. Keith si è sempre meravigliato della bellezza spoglia e solitaria dell’originale di Johnson, ma la verità è che quell’arrangiamento nudo e minimalista in realtà accenna solo al suo potenziale piuttosto che rivelarlo all’ascoltatore, il genio degli Stones è che vanno oltre, lo rendono accessibile a tutti. La cosa non è fatta nella solita forma, ma non ha nemmeno nulla in comune con l’insipido stile reverenziale con cui i blues del Delta e di Chicago vennero spesso ripresi da educati interpreti bianchi, questa qui è reverenza con un tocco di stile, volta a mettere a nudo tutto il dolore che è rimasto implicito nel vecchio blues di Johnson. I tre ingredienti chiave sono: il riff acustico di Keith, pizzicato in modo da poter assaporare il suono di ogni singola corda (complimenti a Glyn Johns per aver ingegnerizzato quel suono) e che ha più cose in comune con il soul e il doo-wop che con il blues del Delta, ma che introduce anche uno spezzettamento alla fine di ogni strofa che è tutto puro Keith; questo è il respiro del protagonista, interrotto da un occasionale soffio; le sovraincisioni di slide, sempre di Keith, la parte più eterea e trascendentale della canzone, una raffica di gocce e slanci emotivi che potrebbero competere, in termini di accenti armonici, con il miglior lavoro di George Harrison; questi sono gli spasimi di disperazione, o le silenziose soppressioni di un dolore insopportabile da parte del protagonista; il break del mandolino di Ry Cooder, la perfetta ciliegina sulla torta per delineare lo scoppio di un pianto sommesso. Aggiungete la voce di Mick, che evita intenzionalmente ogni accenno di sentimentalismo ma cerca di trasmettere quella sensazione di abbandono e rottura attraverso una sorta di intonazione autonoma, e avrete quella che potrebbe essere la canzone più bella in modo non convenzionale del catalogo degli Stones.
La perfezione delle altre canzoni sarà commentata solo brevemente, per non trasformare questa recensione in un romanzo, ma andiamo: “Live With Me”, la linea di basso più memorabile della storia degli Stones (suonata da Keith), tiene insieme l’intera canzone e fornisce a lui e a Mick Taylor l’opportunità di intrecciare l’uno con l’altro assoli dal canale destro e al sinistro, oltre a presentare il testo più esilarante dell’album, che satireggia la nobiltà britannica, “And the meat I eat for dinner/Must be hung up for a week”; “You Got The Silver”, la prima e più grande delle ballate country di Keith, se non altro perché all’epoca conservava ancora un buon senso della forma e della struttura che si sarebbe poi rivelato incompatibile con l’eroina; “Monkey Man”, la fioritura di piano iniziale di Nicky Hopkins basterebbe da sola a proclamarla un classico, ma continua a presentare non uno, ma due dei più grandi riff di chitarra dell’album, mentre dal punto di vista del testo, si potrebbe interpretare come la risposta di Mick a “I Am The Walrus”, con l’eroe che sguazza allegramente nella sua assiomatizzazione. Anche “Country Honk”, la visione originale di “Honky Tonk Women” prima che Mick Taylor la portasse in una direzione molto più familiare, è riscattata dall’inimitabile fiddle di Byron Berline, è molto più divertente di “Dear Doctor”, c’è sempre bisogno di un intermezzo di spensierato divertimento in un disco pesante come questo.
E così, niente di meglio che il London Bach Choir per concludere i migliori quarantacinque minuti in studio dei Rolling Stones. “You Can’t Always Get What You Want” potrebbe rischiare di essere una conclusione fin troppo epica tipo “Hey Jude” (personalmente, non mi è mai piaciuto molto il verso sul misterioso Mr. Jimmy e non ho mai capito perché fosse così importante sapere che lui e Mick avevano deciso di farsi una bibita), ma il pregio principale della canzone sta nel modo in cui cuce insieme senza soluzione di continuità l’euforia gospel con la solita terribile amarezza e cinismo, lati che sono già simbolicamente rappresentati nell’assolo di corno francese in apertura, suonato da Al Kooper, che prima va in alto verso il cielo e poi ripiomba sulla terra. E poi tutti insieme nell’infinito refrain che inizia cinicamente “You can’t always get what you want” e termina con una promessa di speranza “But if you try sometimes”. Nel complesso, un finale più edificante di “Salt Of The Earth”, anche se tecnicamente, entrambe finiscono allo stesso modo, con l’intera band che galoppa via a tutta velocità, con Nicky Hopkins temporaneo comandante al piano; ma la tonalità del finale di “Salt Of The Earth” è ambigua, mescolando esuberanza e ansia, mentre “You Can’t Always Get What You Want” ci convince che, dopo che tutto il nostro amore è stato vano, dopo che tutte le tempeste e gli incendi hanno spazzato le nostre strade, dopo che tutti i vagabondi di mezzanotte e gli uomini scimmia hanno occupato i nostri sporchi subconsci, c’è ancora una formidabile speranza davanti a noi.
E, tornando al tema iniziale: sembra un po’ ironico che il miglior (secondo me, ovviamente) album degli Stones di sempre sia l’unico album degli Stones che ha come protagonista un solo chitarrista, visto che il gruppo è sempre stato così dipendente dall’interplay chitarristico. Ma c’è, forse, una certa logica interna anche in questo: il miglior partner per Keith che ci sia mai stato è Keith stesso. L’unica condizione aggiuntiva necessaria è quella di mantenere la tua mente aperta a suggerimenti e prospettive e nessun momento fu più propizio del 1968-1969, quando la non-ancora-più-grande rock’n’roll band del mondo aveva qualcosa da dimostrare.
E ancora più importante che palesare il loro status di divinità e la loro benevolenza a conquistare il mondo nell’era nascente delle deità del rock, degli aerei personali e dei coca-party, dovevano provare quanto amassero lo spirito stesso della musica. Forse ci sono dischi degli Stones che presentano, in maniera puramente quantitativa, un maggior numero di grandi canzoni, da “Between The Buttons” fino a “Sticky Fingers”, ma nessun singolo album degli Stones rende una sensazione più succosa, vellutata, sonicamente seducente di “Let It Bleed”, con gli istinti di Keith aguzzi ai massimi storici. Nessuna chitarra elettrica ha mai suonato più sinistra di quella di “Midnight Rambler”; e nessuna chitarra acustica ha mai suonato più intima di quella di “Love In Vain”!. Va bene, questa è un’opinione personale che potete prendere o lasciare, ma dovreste almeno tenerne nota se siete arrivati fin qui. Quindi lasciatevi sanguinare addosso mentre venite lentamente intimiditi nel concordare che questo è uno dei tre o quattro più grandi dischi rock di tutti i tempi. Voglio dire, come potrebbe non esserlo, con quella fantastica copertina e tutto il resto? It’s only rock’n’roll.
Altamont, you can’t always get what you want
“E sul palco gli Stones cantavano Under My Thumb, una canzone che parla di come mettere in riga la tua ragazza, mentre gli Angels sacrificavano la loro vittima.
La sacrificavano alla cultura.
I ragazzi avevano messo al mondo una cosa nuova, ma non avevano ancora pagato il prezzo.
C’era un prezzo che andava pagato.
I Rolling Stones volarono via su un elicottero e ci lasciarono in mezzo al deserto.
Noi trovammo la strada per tornare alle macchine e ce ne andammo a casa”
Colson Whitehead. John Henry Festival
Woodstock e Altamont. Due festival musicali a meno di quattro mesi l’uno dall’altro ci evocano immagini molto distinte: il primo, l’apoteosi di una generazione; il secondo, la morte della controcultura, l’archetipo della perdita dell’innocenza. Come ha riassunto il giornalista Michael Lydon in un suo articolo su “Ramparts”: “Il dicembre di Altamont ringhiò la sua risposta alla gioia d’agosto di Woodstock”. Altamont ebbe luogo il 6 dicembre del 1969 ed è ricordato con infamia non solo perché vi morirono quattro persone, anche a Woodstock morirono delle persone, ma anche perché una di loro morì con grande dolore. Da una prospettiva sociologica, Altamont fu il momento in cui la controcultura aggredì se stessa. Fu una guerra civile controculturale.
Quel 1969 fu l’anno del Bloody Thursday, a Berkeley, delle rivolte studentesche a Harvard, dei moti di Stonewall, dei disordini alla convention del Partito Democratico, a Chicago, e la violenza aveva attraversato anche altri festival rock, dal Denver Pop al Newport Jazz Festival. Il grande successo di Woodstock fu nell’esibire che un tale evento poteva verificarsi in relativa pace.
Altamont, salutato come il Woodstock della costa ovest, sarebbe stato tutt’altro. E mentre la maggior parte degli scontri nei precedenti festival si erano verificati tra pubblico e polizia, l’assenza di forze dell’ordine trasformò Altamont in illegalità. Quella folla che aveva sventolato i vessilli di pace, stava dirigendosi non più contro i maestri della guerra, ma l’un contro l’altro.
Per spiegare come in un ambiente spontaneo si verificarono un accoltellamento mortale, tre vittime accidentali e 850 feriti, alcuni commentatori hanno indicato tali ragioni: l’uso diffuso di droghe, la presenza degli Hell’s Angels e che tutto iniziò quando i Rolling Stones si affannarono a spostare la sistemazione all’Altamont Speedway, rifiutando le alternative del Golden Gate Park e del Sears Point Raceway. Ma anche a Woodstock c’era droga (tanta) e gli Hell’s Angels. E anche quel festival fu velocemente organizzato dopo essere stato cacciato dall’omonimo villaggio e da Wallkill. A Woodstock, Michael Lang e la sua squadra, coinvolti anche nell’organizzazione di Altamont, non ebbero neppure il tempo di completare la recinzione.
Quindi cosa andò storto ad Altamont?
Parte del problema era nella logistica. In contrasto con il mondo lussureggiante di Bethel, le aride colline dell’Altamont Speedway, all’inizio di dicembre, assomigliavano più all’incubo di un artista concettuale. David Dalton ha descritto la scena come apocalittica, un Vietnam di spazzatura e rottami d’auto. Spencer Dryden dei Jefferson Airplane disse: “Era un’orribile pattumiera rosa dipinta da Hieronymus Bosch, non un albero, solo un buco infernale. Era l’inizio della fine. No, non l’inizio, era la fine”. Non era un luogo felice.
Anche la scenografia non aiutava. “Un concerto è come il proscenio di un teatro. È una scusa per riunirsi”, aveva dichiarato Mick Jagger alla vigilia. E si riunirono. I membri dell’organizzazione, il pubblico e gli Angels che circondavano i musicisti durante i loro set creando un senso di pandemonio. Ma mentre l’anfiteatro naturale e il palco, lassù in alto, a Woodstock aveva protetto gli artisti dalla folla, la ribalta insufficiente di Altamont praticamente invitò la folla ad agognare di arrivare addosso ai musicisti.
L’atmosfera era diversa, più sinistra. In contrasto con la please force della Hog Farm, qui tutto era sorvegliato dall’Hell’s Angels Motorcycle Club. Mentre il presentatore non ufficiale di Woodstock, Chip Monck, lanciava moniti gentili sull’acido cattivo che girava, il road manager degli Stones, Sam Cutler, disse sottovoce a un collaboratore preoccupato: “Tira una brutta aria”.
Sam Cutler e i Rolling Stones pagarono gli Hell’s Angels con cinquecento dollari in birra? In realtà, la domanda è irrilevante, dato che gli fu, comunque, permesso, di cingere il palco e usare la forza. “C’è bisogno di gente come gli Angels per tenervi in riga”, urlò Grace Slick dal palco, un attimo prima che Marty Balin, saltando in buca per fermare una rissa, fosse messo al tappeto dagli stessi Angels. Stanley Goldstein, collaboratore alla realizzazione del documentario di Albert e David Maysles “Gimme Shelter”, ha ricordato come la sicurezza, di moto vestita, occupava tutti gli ambienti intorno alle attrezzature tecniche e ai generatori di corrente, avevano deciso di essere ovunque.
La musica era quella dei Jefferson Airplane, di Santana, dei Flying Burrito Brothers e di Crosby, Stills, Nash & Young, ma, nonostante la presenza di queste straordinarie band, la Woodstock del west era, fondamentalmente, un concerto dei Rolling Stones. Sarebbe stato il loro primo tour negli Stati Uniti dopo tre anni e la richiesta di biglietti per quello che Robert Christgau avrebbe descritto come “il primo tour di rock and roll della storia” era elevata. Il giornalista Stanley Booth fece una considerazione: “Fino ad allora le loro esibizioni negli Stati Uniti erano state brevi, incandescenti esplosioni di dissacrazione, frequentate quasi esclusivamente da adolescenti urlanti”. Ma nel 1969, i fan erano cresciuti e la musica era più arrabbiata. “As Tears Go By” e “Ruby Tuesday” avevano lasciato il posto a “Street Fighting Man” e “Sympathy For The Devil”. Booth racconta il tour, siamo al Madison Square Garden appena una settimana prima: “C’era una calca enorme. Iniziò subito con una carica e poi, semplicemente, tutto crebbe”. “Nell’America del ’69”, ricordò più tardi Keith Richards, “avevamo la sensazione che volessero risucchiarci”.
Il pubblico non si accontentò più di essere spettatore passivo e urlante, ma, ad Altamont, il fatto che gli Hell’s Angels guidassero attraverso la folla e posizionassero le loro lucide Harley-Davidson tra il palco e la folla di strafatti, non fu d’aiuto. Stanley Goldstein teorizzò anche che gli Angels si fossero presentati per primi. Erano ubriachi, armati di bastoni e coltelli, come documentato nel libro del giornalista Nick Schou, “Orange Sunshine”, sciroppavano inconsapevolmente vino rosso drogato con pessimo acido diffuso dalla cosiddetta Hippie Mafia di Laguna Beach.
Questa era l’equazione allora: Angels, hippie, Stones, alcool e droga imballati in un ambiente che abbozzava alla fine del mondo, un ambiente infiammabile. E, a farne le spese, fu il nero Meredith Hunter, durante una rissa, estrasse una pistola e fu accoltellato nella schiena dall’Angel Alan Passaro mentre la sua ragazza, Patty Bredahoff, guardava con orrore. Portava un vestito lavorato all’uncinetto. Due giorni prima, Fred Hampton e Mark Clark, leader delle Black Panthers erano morti nel corso di un controverso raid a Chicago, e mentre la nazione stava iniziando a conoscere Charles Manson, la morte di Hunter risuonò con struggenti sfumature razziali.
Scrisse il Berkeley Tribe: “Ad Altamont, la generazione delle locuste venne a consumare le ultime briciole dalle mani di un’industria dell’intrattenimento che aveva aiutato a creare, tutti si nutrirono di paura”. I giornalisti e gli storici del rock si nutrirono di paura e contribuirono a formare l’infamia di Altamont. In un articolo intitolato “Rock & Roll’s Worst Day”, “Rolling Stone” avrebbe conferito sfumature demoniache all’incidente, riportando che Hunter fosse stato ucciso durante l’esecuzione di “Sympathy For The Devil”. La descrizione della scena trasformava il contesto in una cerimonia medievale, un autodafé: “Sagome tremolanti di persone che cercavano di trovare calore intorno a una pira infuocata, in una danza della morte”. Sempre nel suo articolo su “Ramparts”, Lydon concludeva: “Sembravamo tutti al di là della legge, tutti e 300.000, gli Stones e gli Angels inclusi, da soli”.
Lasciata sola, alla fine degli anni sessanta, radunata alla fine del mondo, la congregazione di Altamont si trovò a cavallo della linea tra libertà e anarchia e sperimentò il lato peggiore del sogno collettivo di una generazione.