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Grand Drifter – Only Child (Subjangle/Sciopero, 2021)

Ci sono giorni nella vita così importanti che li vorresti catalogare. Ogni secondo impresso nella tua memoria. Ogni passo, ogni parola, ogni singola emozione. Potrebbe essere il primo bacio, il primo concerto, un ultimo sguardo, un’opportunità perduta. È quella sensazione del tempo che si ferma.
“Only Child” di Grand Drifter, progetto musicale del piemontese Andrea Calvo, rientra nella proverbiale categoria dei segreti meglio custoditi, se non fosse che oggi l’idea stessa di segreto appaia irrimediabilmente inadeguata. Tutto è mostrato raggiungibile, fruibile. Andrea, con il suo pop in bilico tra songwriting sofisticato e una garbata inquietudine, sa mantenere le distanze oppure afferrarti per la collottola e, se è il caso, spiegazzartela come e quanto meriti.
Le sue canzoni sono proiettate in piena luce, un pezzetto di celluloide ammorbidito da qualche goccia di vinile, a volte in un’oscurità gioconda, come il sole nell’ombra della terra. Sono trascrizioni di momenti perduti, suonano più impalpabili e impenetrabili di quanto non siano, come un labbro sollevato in una smorfia, in un sorriso che cerca di richiamare alla memoria i piaceri di un bacio o una discussione persa tra amanti separati da tempo.
Le singole gioie di questo disco potrei elencarle una a una, ma, se le sperimenterete su voi stessi, riconoscerete immediatamente ciò che vi sta più a cuore.
“A Deal With The Rain”, il brano di apertura, strepita, chitarra e basso che si incastrano insieme mentre il pianoforte richiama il ticchettio della pioggia, “So I climb the stairs in this pouring rain/and I am so high off the ground”. “Bookends” è stretta intorno a una linea di chitarra perfettamente cadenzata. Odore di seta bagnata arriva attraverso gli altoparlanti, “Until I find a clue, a pleasure to remember/Until I find out that/Something might be over now/Something might not be quite right”, ci porta alla deriva con pensieri di occasioni mancate. “Haunted Life” introdotta da un pianoforte è l’egemone scrittura dei Beatles giocata su un impetuoso slancio ascendente della voce. Il sentimento qui potrebbe anche diventare sdolcinato, ma il tutto si mantiene molto ambiguo e raziocinante, ti lascia avvicinare solo per un attimo, “Spring is by my side, for now/Spring is by my side, and I might escape this haunted life”, mentre un basso profondo ti rapisce. “As A Light Farewell”, chissà perché mi ha ricordato quel verso iconico dei primi Belle & Sebastian, “Write a song/I’ll sing along/Are you calm?/Settle down”, è un chiacchiericcio di suoni caldi e ritmi spensierati, e così, “Please, don’t fade away/life’s so hard/And life is so unfair, life’s so unfair”, diventa un monito. Ancora chiaroscuri. “Debris” è il bacio del pop, la prova fisica dell’inafferrabile, perché, in fondo, “The sky is clearer now, it seems/You may say I tried to understand”. “To The Evening Stars” è un atomo di Elliott Smith, fisica quantistica per poeti in equilibrio su una corda tesa tra intimità e distacco che contravvenendo ai Talking Heads ti intima “All my plans to get out/Anywhere unseen/Start making sense/So what might be wrong?”.
Quanto alle sue influenze musicali, alcune sono piuttosto esplicite, i Go-Betweens, i gruppi della Sarah Records, ma, se dovessi coglierne una implicita, mi torna in mente la scrittura di Paul Simon, quella sorta di narrativa musicale tracciata nel vento che ti lascia le risposte nei titoli delle canzoni.

Andrea Calvo

Ho incontrato Andrea in una giornata normale, cadenzata dagli orari di lavoro e dalla pandemia.

WLRR: Ciao Andrea, per iniziare, parlami di Grand Drifter, della genesi e della realizzazione di “Only Child”.

AC: Grand Drifter è il nome che ho scelto per un progetto musicale che raccogliesse le canzoni che avevo messo da parte nel corso degli anni. Parliamo del 2012-2013. Non ha un particolare significato, vagamente può essere ricondotto ad alcune cose che leggevo sulla Beat Generation, sui vari tipi di vagabondi (quello che vive fisso sulla spiaggia, quello che va di città in città…), ma non c’è un reale collegamento. Ognuno ci vede quello che vuole, ed è bello così. Negli anni ha avuto spesso l’aspetto di una band, ma oltre una certa età anagrafica l’idea di band viene per forza meno. Cambiano le esigenze, cambia il rapporto tra se stessi e gli altri, la ricerca degli altri. Per forza di cose Grand Drifter è un progetto solista, o, comunque, un progetto che ruota attorno a me e alle mie canzoni. “Only Child” l’ho pensato da subito come un capitolo diverso dal mio primo disco “Lost Spring Songs”. Diverso per sonorità, forse più immediato, conciso. Ma sicuramente Pop. La grossa differenza con il primo disco, che era sostanzialmente una raccolta di canzoni, è che “Only Child” ha ruotato maggiormente intorno al realizzare una sequenza precisa di canzoni definite già in partenza, con un suono più elettrico, con più omogeneità. Le registrazioni sono iniziate nella tarda primavera del 2020, proseguite velocemente, ma più volte interrotte dalla pandemia. Per questo disco ho avuto l’onore di avere gli Yo Yo Mundi al completo, nella formazione Grand Drifter. A loro si sono aggiunti molti altri amici, come Michele e Hamilton degli Smile. Sia loro che io siamo usciti con la Subjangle (UK/Sudafrica). Mi piace sottolineare che siamo stati finora tra i pochissimi artisti non di madrelingua inglese pubblicati da questa etichetta. Come per il precedente “Lost Spring Songs” anche “Only Child” è stato prodotto artisticamente da Paolo Enrico Archetti Maestri, e registrato e mixato da Dario Mecca Aleina.

WLRR: La prima volta che ho avuto la fortuna di scambiare qualche parola con te, mi scrivesti del tuo amore per i Go-Betweens. Grant McLennan è stato uno dei più grandi artisti australiani della sua generazione. Il suo approccio romantico non era mai stucchevole, anzi costantemente sorprendente per quel profondo senso della realtà, più profondo della nostalgia stessa. Era un romantico che, con la stessa convinzione, suonava rock’n’roll. In quale modo senti di avvicinarti a tutto ciò?

AC: È vero! Non so perché a volte certe figure ci colpiscono subito più di altre, fino a formare un legame segreto e personale, privato. Forse è la scoperta di qualcosa affine a ciò che si vorrebbe dire, che ti spinge ad immedesimarti. Ho ancora in mente quel pomeriggio in cui ascoltai “Cattle and Cane”. Qualcosa entrò e non se ne andò più. In tutto e per tutto anch’io mi riconosco romantico, in ogni aspetto. Leggerezza, malinconia, semplicità. Un sorriso mozartiano, che nasconde un velo d’ombra, è qualcosa che ho sempre ritrovato in Grant McLennan. Qualcosa che sento essere davvero vicinissimo.

WLRR: Volevo chiederti qualcosa sul tuo processo creativo. A volte è come se scaturisse di fronte a una finestra spalancata. Quanto questo nasce dalle cose che hai letto e ascoltato?

AC: Ma sai che l’immagine della finestra spalancata è qualcosa che utilizzo spesso nei testi. Mi piace osservare. Preferisco il silenzio e l’ascolto, sempre. E tutto nasce da quello che ho letto e sentito. Lo raccolgo, lo elaboro e lo ricompongo. Mi lascio guidare, non ho un processo lucido. Si tratta di partire da un’idea generica e poi di raccogliere tanti frammenti. Si comincia da qualche parte e non si sa cosa si potrà trovare scavando come un archeologo a partire da quel frammento. Magari non trovi niente, o magari invece un grande edificio sepolto.

WLRR: Senti, sarà la suggestione di un titolo come “Bookends”, ma mi sembra di riconoscere  Paul Simon nelle tue canzoni. Quel Paul Simon che, vuoi per il tono, vuoi per la ricchezza delle parole, vuoi per la complessità ritmica, riesce sempre a far emergere melodia, armonia e testualità.

AC: Mi colpisce molto questa tua affermazione, perché hai citato un autore che amo tantissimo, ma di cui non mi capita quasi mai di parlare. Mi piace la sua attenzione ai dettagli, ad ogni aspetto della canzone, senza essere mai lezioso o pedante. Parla di se stesso, per raggiungere cose infinitamente più grandi. La sua eleganza è racchiusa nella apparente semplicità. Se dovessi dirti cosa mi trasmette ogni volta Paul Simon è il concetto che se scrivi una canzone deve essere elegante. La ricerca dell’eleganza, della bellezza, ti direi è il primo aspetto che cerco quando provo a scrivere. Il mio metro di giudizio.

WLRR: Anche nei testi, penso al primo verso di “I Am A Rock”: “A winter’s day/In a deep and dark December/I am alone/Gazing from my window to the streets below/On a freshly fallen silent shroud of snow/I am a rock I am an island”. Ti ritrovi nel suo concetto di testualità, ovvero nell’articolare più in chiave narrativa che poetica?

AC: Credo di sì. Mi ritrovo molto nell’articolare una canzone con una narrazione per immagini, per frasi, accostate a brevissime descrizioni di tempo e luogo. Mi trovo distante però dalla narrazione vera e propria. Non scrivo vere e proprie storie, non descrivo esattamente qualcosa. Mi piace di più lasciare suggestioni che delineare trame precise, preferisco lasciare sempre dello spazio vuoto perché poi può essere colmato dalla fantasia dell’ascoltatore. Così ognuno scrive la sua di storia, diversa dalle altre. In fondo questo è più poetico che strettamente narrativo. “Paintings you can listen to”, come diceva Robyn Hitchcock.

WLRR: Quale valore dai al senso, al significato della malinconia in musica? E come rifuggi dalla tentazione di drammatizzarla?

AC: La malinconia è inevitabile. È qualcosa di adulto, ma anche un certo sguardo personale. Una forma di gentilezza verso la propria vita, una maggiore profondità. Non ne puoi fare a meno. Non drammatizzo mai, perché non ricerco mai niente a priori, se non emozioni a dire il vero. Per me quella che può essere chiamata malinconia probabilmente è qualcosa di intimamente caratteriale, legato a come sono io realmente, e magari per questo è più frequente. Ma è naturale. O inevitabile, come ti dicevo. Qualcosa che mi trasmette maturità.

WLRR: Lasciami concludere con un piccolo gioco. Qual è il primo album che hai comprato?

AC: Il doppio blu dei Beatles, era il 1993.

WLRR: L’album che, ascoltandolo, ti sfida a migliorarti sempre?

AC: Difficile, sono molti gli album che rinnovano in me il loro stupore. Quello che mi sento di dire è che bisogna riferirsi a proprio modo solo ai grandissimi, più che ai modelli di modelli di modelli… “Andare dritti alla fonte” diceva Lou Reed. E bisogna andarci in solitudine. Così ne nasce un dialogo personale e bellissimo, se ci pensi. È come immedesimarsi in un certo senso.

WLRR: La canzone che ha legittimato il tuo amore per il pop?

AC: Qualsiasi canzone dei Beatles.

WLRR: L’album che, per te, manifesta che la melodia, in un disco, è l’aspetto più importante?

AC: “Pet Sounds” dei Beach Boys.

WLRR: L’album che hai sempre avuto al tuo fianco?

AC: Ne ho sempre almeno uno scatolone!

WLRR: La canzone che più ami per il fatto di essere ancora oggi conseguente alle sue intenzioni?

AC: “The Sound of Silence”.

I migliori piani strategici a volte falliscono, ma il potere dei sogni non muore mai.
Ho letto molte recensioni di “Only Child” e, ogni volta, ritorna denso il concetto di malinconia autunnale. Si sente il tentativo di appigliarsi all’autunno come se fosse in tensione dialettica con le altre stagioni, il tramonto prima della morte invernale, il controcanto alla primavera. Spiego meglio, ascoltando le canzoni di “Only Child” è fortissimo il senso stagionale della musica, come se questa fosse l’unico strumento che ci permette di orientarci nel caos e nel mistero del trascorrere del tempo così come una pendola rumorosa in una stanza silenziosa. Tanto la primavera sarà sempre dalla mia parte.

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"