Once We Were The Band
Il primo e l’ultimo valzer
E adesso cosa succederà, Robbie? Ogni volta che gli ponevano questa domanda la lasciava sospesa nell’aria, fluttuante sopra un insolito vuoto. Ok, prendere quella decisione aveva richiesto un prezzo, ma era stata sua l’idea di mettere un punto e l’emozione di quella serata, fotografata dalle cineprese di Martin, rappresentava l’ennesima manifestazione del suo ruolo di leadership che aveva preteso con metodi non sempre del tutto democratici. Da tempo aveva fatto i conti con il fatto che il livello delle sue ambizioni superasse quelle degli altri, ma di ciò non sentiva più la colpa. Le sue aspirazioni erano passate dai basilari desideri da chitarrista rock alla sopravvivenza all’interno di un business che aveva lasciato cicatrici su tutti coloro che lo circondavano; non importava più cosa pensasse il resto del gruppo di questo colpo di scena conclusivo, tutti ne avrebbero beneficiato. Nella vita, altalenanti segnali di fortuna e sfortuna gli avevano fatto credere che ci potesse essere un happy ending e quel concerto descriveva la capacità di cogliere quel senso della fine.
Ogni ospite convenuto al Winterland, l’ex anello di pattinaggio di San Francisco, esprimeva la sua adorazione: l’infinita ricerca del fan di qualcosa in cui credere. Non importava che provenissero dal Minnesota, dal Mississippi, dalla Louisiana, da Chicago o dai sobborghi dell’Inghilterra e dell’Irlanda, tutti, nonostante le differenze, erano stati attirati dalle loro comunanze musicali come il risultato dell’influenza reciproca nel tentativo di dare una spiegazione agli eventi della propria esistenza. Ma su quel palco c’erano anche loro, le cui origini si situavano nelle lontane città dell’Ontario, Toronto, Stratford, Windsor, Blayney e nelle fortezze delle praterie di Elaine nell’Arkansas. La mappatura della loro leggenda musicale era stata di scarsa utilità, avevano preso quello che potevano prendere e si erano costruiti una loro identità, finendo per percorrere sentieri che spesso s’incrociavano o correvano parallelamente, prima di convergere quella sera al Winterland. Anche tra il pubblico alcuni giungevano da simili storie. E così, dopo che fu servito tacchino per il Giorno del ringraziamento, mentre le luci si spegnevano, sventolarono con orgoglio vessilli con foglie d’acero. Era il loro momento. Infine, quando, con un misto di indulgenza e avidità la Band gettò uno sguardo tra le pieghe del sipario, vide un tremito in ognuno di loro e si rese conto che non solo avevano spianato la strada a loro stessi, ma a una folla intera.
Ronnie Hawkins, l’uomo che originariamente li aveva uniti, pavoneggiandosi, si lanciò in una versione di “Who Do You Love” che fece capire perché questi ragazzi racchiudevano qualcosa in più del desiderio di mettersi alla prova in un mondo che sembrava al di là dei loro confini. Ronnie non era miracolosamente atterrato, con il suo occhio da truffatore, per conquistarli. Il suo inciso era destinato a tutti: “Big time Bill, big time…”. I suoi occhi fissavano vanamente quel chitarrista un tempo protetto, in ogni suo movimento, dolorosamente, riconosceva che i successivi minuti probabilmente sarebbero stati non solo la fine del suo vecchio gruppo di supporto, ma del suo sogno a tinte rock’n’roll.
Neil Young salì sul palco, sembrava un veterano del Vietnam, di quelli che vagavano per Mission Street, quasi un infiltrato. Alle narici portava i resti polverosi del backstage, sorrideva, abbracciava la folla adorante con un saluto condiviso: “È uno dei grandi piaceri della mia vita essere sul palco con queste persone stasera”.
Quando fu il turno di Joni Mitchell era come se fosse emersa dalla penombra, come se le luci che la colpivano la facessero brillare nel buio. Si avvicinò a Robbie, lo baciò e gli accarezzò una guancia. Indossava una collana vistosa e una lunga gonna. Esattamente nel momento in cui iniziò a cantare il pubblico alzò lo sguardo verso l’alto, chiedendosi se quella voce venisse dal cielo. Mavis Staples rese “The Weight” imponente. La cinepresa colse la reazione di Robbie, quel canto per lui era ancora straziantemente familiare, era ancora la sua canzone, anche se ormai infestata dal fantasma di se stesso e degli altri.
Tradiva nell’aspetto la sua nativa eredità, la pelle scura, gli zigomi alti e gli occhi incappucciati lo rendevano un uomo attraente. Richard Manuel sembrava un uomo alla deriva vestito di un vistoso abito a quadri, facile bersaglio di regali illeciti che potevano calmargli i nervi o farlo inviperire. Rick Danko, freddo, si comportava come se questo fosse solo l’ennesimo concerto, come se in questo momento di interiorizzazione il mondo fosse scomparso. Garth Hudson, il più introverso di tutti, in un confuso schiamazzo, faceva raccolta di complimenti e congratulazioni per poi tornare a rinchiudersi in se stesso cercando così di rifugiarsi nella sua anima ancora pulita. Levon Helm s’agitava, si sentiva emarginato, come una condizione presente ma con un senso di definitività, risultato e causa delle progressive fasi di atrofizzazione della loro socialità. Rimaneva consapevolmente e con orgoglio distante. E Robertson, un tempo partner fidato di Helm? Si amavano ancora come una famiglia, ma il peso delle loro esperienze condivise li avrebbe divisi per sempre. Il fardello che avevano cantato ogni sera sulla ribalta, non poteva più stare sulla schiena di qualcuno che non era più disposto a sopportarlo.
E adesso cosa succederà, Robbie? Era stata una notte infinita colma di drammi, tensione, euforia e droga. Bisognava concluderla, uscendo di scena come avevano iniziato. Quindi, mentre le cineprese giravano indomite e raminghe per la sala, decisero per “Don’t Do It”, quel brano di Marvin Gaye che avevano conosciuto mentre scalava le classifiche più di un decennio fa, quando in un bar di bianchi bisognava suonare il successo di un nero per assicurarsi che la serata finisse bene. Era rimasta con loro, perché il suo swing gospel era così naturale per la persistente supplica del protagonista nel cercare di salvare la sua relazione, “My biggest mistake was loving you too much/And letting you know/Cause now you’ve got me where you want me/And you’re gonna let me go”. Era perfetta. Si accesero un’altra sigaretta, Robbie tolse giacca e sciarpa di seta per indossare una felpa con cappuccio che aveva conosciuto i ricordi del padre quando girava per Toronto. Trovò la forza di annunciare: “Faremo un’altra canzone”, Levon diede il via e Rick stese uno dei suoi marchi di fabbrica, poco prima che gli altri ci saltassero dentro. Sarebbe stata l’ultima volta insieme, “New ya got me where you want me, and you won’t let me go”. Pochi minuti dopo, Robbie ringraziò il pubblico con un semplice “Goodnight, Goodbye”. Da lì una scena sfocata di mani che si stringevano, pacche sulla schiena, colpi di nostalgia esplosi in faccia che potevano consumare una vita intera. Doveva essere una serata sulla magia, doveva essere scritta per sempre, definitivamente.
Music From Big Pink (1968)
La Band nasce e viene battezzata con i “Basement Tapes”, con Dylan come genitore, celebrante e padrino. Prima del 1967, si facevano chiamare Hawks, fondamentalmente un gruppo rock’n’roll senza una guida spirituale. Da questo punto di vista erano, almeno inizialmente, uno spin off dell’azienda del signor Zimmerman. Quindi testi ponderosi, contegni da messia, sequenze di accordi blues, folk, country, un’ibridazione della roots music con approcci modernisti. Almeno fino all’uscita del loro primo album, “Music From Big Pink”.
La Band pose sempre una forte enfasi sugli arrangiamenti e sulla tecnica, mai sul virtuosismo, bensì la massima attenzione sulla questione di mettere ogni strumento al posto giusto e ottenere esattamente quanto richiesto e voluto. Per non parlare del fatto che ogni membro era un cantante e, anche se non eccezionali nelle armonizzazioni, la gamma collettiva di Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm dovrebbe essere considerata un balsamo angelico per curare tutte le nostre ferite. Dove andò per una strada nuova, fu in quel pesante senso di profonda gravosità, e se non lo amate non pensate nemmeno di ascoltare i loro dischi. Presero seriamente la loro attitudine. A differenza di Dylan, non ebbero mai un senso spiccato per l’understatement: un metodo pericoloso di portare avanti le cose, che non ti lascia spazio per ritirarti quando sei schiacciato contro un muro, e l’esito opposto è facile. Possedevano un talento smisurato e nei due anni passati con Bob nella casa rosa avevano fissato una direzione il più possibile precisa e agevole da seguire. In “Music From Big Pink” tutte le undici canzoni sono movimenti separati di una lunga suite, coerente, concettuale, con un solo pensiero e una sola emozione. La suite è fortemente dipendente da una sorta di spirito biblico del quale si nutrivano, da non interpretare come una diretta celebrazione di valori cristiani o giudaici, non più di quanto un anno dopo “The Night They Drove Old Dixie Down” ci stimolerebbe a sventolare le bandiere della Confederazione. Sono per lo più brani lenti, maestosi, passionali, con l’organo di Garth Hudson e il piano di Richard Manuel che dominano sugli assoli di chitarra di Robbie Robertson, canzoni con intonazioni vocali dominanti e la catarsi come effetto voluto. E come funziona? Splendidamente, fin dai primi trenta secondi di “Tears of Rage”, con la chitarra gutturale, lamentosa di Robertson e con il tragico suono di Manuel, “We carried you in our arms on Independence Day/And now you’d throw us all aside and put us all away”. Manuel, a tratti, forse amplifica, supera i normali confini fisici, ma senza fornirci la percezione di un’esagerazione teatrale o, Dio non voglia, commerciale nel suo canto. Su “Tears Of Rage” e su ogni altra canzone, la Band si autoproclama profeta del Vecchio Testamento, un branco di Geremia che piangono nelle loro barbe sui nostri peccati capitali, e lo pensano davvero, ci credono e, alla fine, mi sorprendo quasi a crederci anch’io. Aiuta molto il fatto che, in questa fase, fossero una straordinaria forza collettiva e non soffrissero dell’autorità di una singola persona. Robbie Robertson rivendica il merito del più grande successo del disco e di altre tre canzoni, ma non canta molto e, alla fine, “Music From Big Pink” è questa imponente e grandiosa litania sulla bontà e sulla moralità dell’uomo. Le tre cover di Dylan, “Tears of Rage”, “This Wheel’s on Fire” e “I Shall Be Released” (beh, due, in realtà sono coaccreditate a Bob e alla Band) costituiscono i punti salienti, in particolare “I Shall Be Released”, cantata da Manuel in un falsetto così devastantemente coinvolgente e di totale rottura, che riesce a tagliarmi il fiato ogni volta che l’ascolto. Collocata alla fine del disco, è una goccia di ottimismo spirituale, pura redenzione dietro ogni nostra tormentata e oscura confessione; l’interpretazione di Manuel, la sua pronuncia delle parole, lo rende una sorta di eroe del melodramma sul punto di morire per consunzione. Questa versione di “I Shall Be Released”, al pari della “Mr. Tambourine Man” dei Byrds, prende la bellezza implicita del lavoro di Dylan e la rende esplicita. Anche senza Zimmy, “Music From Big Pink” è straordinario. “The Weight” è un’assurdità vocale, se presa alla lettera, un’oscillazione tra il tremito della sofferenza e il ronzio della salvezza. È autentica, non una finta predica di merda, alla moda, è la canzone simbolo per il sollievo spirituale; io lo sento quando insieme a loro seguo quei potenti accordi di pianoforte che costruiscono una breve scala fino al ritornello, “Take a load off Fanny/Take a load for free/Take a load off Fanny/And… and… and you put the load/You put the load right on me”. Da ascoltatore, lotto per decifrarne il testo, ma non posso fare a meno di pensare a Nazareth in termini biblici, città fatale per il viaggiatore stanco del mondo, e ci sono tutti quei riferimenti a strani personaggi come Carmen, Miss Moses, Luke che sta aspettando il Giorno del Giudizio, Anna Lee, Crazy Chester avvolto dalla nebbia e, naturalmente, a Fanny. Eppure ci sono altre preghiere sul disco. “In A Station” scivola malinconicamente, meditando sulla vita, sull’amore e sulla sostanziale inutilità di entrambi, “Once I climbed up the face of a mountain/And ate the wild fruit there/Fell asleep until the moonlight woke me/And I could taste your hair”. “Caledonia Mission” incarna l’angoscia dell’universo, “Hear me if you’re near me, can I just rearrange it?” è uno dei versi più tristemente intonati che abbia mai sentito. “Long Black Veil” è velocemente rinnovata da “Lonesome Suzie”. Solo “Chest Fever”, con la sua asprezza macinante, sta un po’ in disparte nella sua severità barocca. Più ci penso, più questo disco risulta un’unica entità, un’entità ambiziosa, sì, e forse anche un vilipendio per tutti coloro che pensano che la musica tradizionale non debba essere viziata dall’arsenale della poesia beat o santificata, sacralizzata da un approccio apertamente intellettuale. Come ogni album influente, “Music From Big Pink”, in un certo senso, fu il primo disco che iniziò a trasformare il rock in un’istituzione, certamente uno dei primi che suonava come se fosse stato eretto da saggezza ed esperienza, un mix colossale di Woody Guthrie, Allen Ginsberg, Mosè e Aronne piuttosto che da una fresca, calda, frizzante abbuffata di corpo e anima giovanile.
The Band (1969)
Se ha un senso discutere su quale sia il migliore tra “Music From Big Pink” e “The Band” è perché questi due dischi tra loro costituiscono la spina dorsale dell’eredità della Band. Così diversi da far ammettere apertamente a Robert Christgau la sua antipatia per il primo e l’inaspettata profonda passione per il secondo. “The Band” segna l’inizio del dominio costante di Robbie Robertson come direttore creativo e mente principale del gruppo, proprio come Paul McCartney con i Beatles dal 1967. Come sappiamo, l’operosità di un uomo può facilmente essere l’autoritarismo di un altro uomo. Delle dodici canzoni, otto sono accreditate a Robertson, tre a Robertson/Manuel: “When You Awake”, “Whispering Pines” e “Jawbone”, una a Robertson/Helm: “Jemima Surrender”. È generalmente più veloce, più esuberante, più rock rispetto a “Music From Big Pink” e, probabilmente, l’unica canzone che porta avanti lo spirito solenne del predecessore è la ballata “Whispering Pines”, non a caso, scritta, come dicevamo, con Richard Manuel. L’album non gira intorno all’idea di musica sulla storia americana, semplicemente ci si tuffa dentro, testa e piedi. Non c’è nemmeno bisogno di andare oltre i titoli delle canzoni, con tutti i riferimenti a Old Dixie, Cripple Creek, Cleveland, pini e sedie a dondolo sulla veranda. Aggiungeteci il cantato autentico di Manuel e Levon Helm, le sequenze di accordi e la strumentazione che derivano in modo sempre più trasparente da jugband, bluegrass, dancehall e vaudeville, e tutto ciò che rimane per concludere è il colore marrone della copertina dell’album con quei torvi volti da angeli irrequieti, consumati dal tempo, ma in qualche modo gratificati, dei cinque.
Con “Music From Big Pink” e la sua sottile, ma perfetta sintesi di tradizione, innovazione, Dylan e non-Dylan, erano pervenuti a qualcosa di favolosamente universalista, un percorso che la Band bloccò, indirizzandosi verso luoghi meno rischiosi, più umili, ma altrettanto universalmente attraenti. Se mai dovessi indugiare tra “Caledonia Mission” e “Up On Cripple Creek”, sceglierei la prima: l’atmosfera di “Up On Cripple Creek” è molto più elementare da assimilare e spiegare rispetto alla mistica lamentosa di “Caledonia Mission”. Sono canzoni che si bloccano e si incasellano da sole, portandosi dietro l’intera carriera successiva della band. Ma come sempre accade con i gruppi di talento che stabiliscono una formula ben definita, la prima volta è sempre la migliore; la stessa Band deve averlo concepito come un disco reboot colto e mirato. Non si può negare né la sincerità né la dedizione dell’approccio, né la melodicità, l’orecchiabilità, né l’inventiva e né la grande cura degli arrangiamenti. Il lato A è una infinita sequenza di successi; mentre il lato B è una promessa di quelle espresse da un artista quando desidera virare verso qualcosa di dimenticato e segretamente favoloso.
Robertson è molto attento al suo immaginario lirico, evitando accuratamente tutte le questioni più scomode, ma “The Night They Drove Old Dixie Down” è una canzone tragica sulla caduta della fierezza del Sud, che lo si voglia o no, eppure la sua popolarità si diffuse rapidamente a livello nazionale; gli Yankees intonavano “Na, na, la, na, na, la” in coro, indipendentemente dalle loro convinzioni. C’è voluta tutta l’autenticità, l’umiltà di una canzone che striscia a passo di lumaca per trasformarsi in un seducente incanto. Per scrivere “Night They Drove Old Dixie Down”, Robertson aveva studiato la storia della guerra civile americana e la scrisse perché voleva che la cantasse Levon Helm, come avrebbe fatto con “Up On Cripple Creek” e “Rag Mama Rag”. Helm interpretò il ruolo di Virgil Caine, un agricoltore del Tennessee, soldato confederato nei giorni finali del conflitto, “Virgil Caine is the name, and I served on the Danville train/’Til Stoneman’s cavalry came and tore up the tracks again/In the winter of ‘65, we were hungry, just barely alive/By May the tenth, Richmond had fell/It’s a time I remember, oh so well”. Il ritornello con la sua successione di na, na, la, na, na, la, na, na trasforma la canzone in un inno, “Like my father before me, I will work the land/Like my brother above me, who took a rebel stand/He was just eighteen, proud and brave/But a Yankee laid him in his grave/I swear by the mud below my feet/You can’t raise a Caine back up when he’s in defeat”. “Up On Cripple Creek”, lʼaltro dei due grandi successi cantati da Helm è una sorta di risposta ottimistica, terrena e brevilinea alla pesante sofferenza di “The Weight”, con la quale più o meno allo stesso ritmo precipita. Non sarebbe memorabile se non fosse per l’inventiva di Garth Hudson, quella parte di clavinet guidata dal wah-wah, come un’arpa, specialmente durante il trionfale assolo alla fine di ogni verso che aggiunge vivacità a quello che sarebbe altrimenti un arrangiamento blues-rock piuttosto levigato. Possiede quella divertente ripetitività del ritornello, il triplo cazzotto di “She sends me”, “She mends me” e “She defends me” rende l’esperienza indimenticabile, e c’è qualcosa nel canto di Helm qui che delinea l’intera canzone, come la quintessenza dell’incarnazione dello spirito della strada, rivaleggiando in quell’ambito con la “Ramblin’ Man” dell’Allman Brothers Band, sebbene il testo di “Ramblin’ Man” cada molto più frequentemente sui cliché del genere. Forse il vero eroe di questo album non è Robertson, ma Garth Hudson, sempre attento che gli arrangiamenti elevino i brani dalla loro indeterminatezza. Non solo non ci sarebbe “Up On Cripple Creek” senza il suo clavinet, ma neanche “Across The Great Divide” senza le parti di quel trombone slide, che presta spalla amichevole, solidale e muscolosa alla vocalità da eroe snervato di Manuel, e non ci sarebbe “When You Awake” senza quell’organo innevato e quella fisarmonica a rinforzare un canto sofferente. Poi c’è il violino di Rick Danko su “Rag Mama Rag” che prende origine da un’antica melodia blues, “Shag mama shag, now what’s come over you” e il Richard Manuel che soffia un mesto sax su “The Unfaithful Servant”. Su “Jawbone” sperimentano il sei quarti, ma il risultato, a tratti, sembra goffo, e forse “Jemima Surrender” è un po’ troppo grumosa e diretta nella sua brutalità pub-rock, ma il potere essenziale di queste canzoni sta nel fatto di essere godibili in tutta la loro esecuzione. L’unica qui che è sempre sembrata un purosangue è messa in fondo, “King Harvest (Has Surely Come)” ha un effetto bizzarro, con la strofa legata a modelli blues-rock standard, anche se un po’ funkeggianti, e il ritornello che rasenta un dark folk senza compromessi. È il dialogo tra un povero contadino, doppiato da Manuel, e le fredde, impetuose forze della natura che gravano sulle stagioni, “Scarecrow and a yellow moon/And pretty soon a carnival on the edge of town/King Harvest has surely come”. È il combattimento predeterminato e inviolabile con la voce di Richard che resiste fino a quando può e poi un assolo penetrante e isterico di Robbie prende il sopravvento per emettere l’ultimo vagito. Il tutto alla fine si lega coerentemente. Tutto troppo pesantemente intellettualizzato, per non essere veramente autentico. Robbie e compagni non stanno cercando qui di mettersi nei panni dei loro eroi, stanno cercando di colmare il divario tra questi eroi e la loro arte, un po’ come faceva Dylan nei suoi primi album, o in “John Wesley Harding”. Quelli che pensano che l’intera idea sia solo un mucchio di stronzate faranno meglio a conformarsi ai Creedence Clearwater Revival, che hanno fatto la stessa cosa, ma senza un solo afflato di pretesa. Invece quelli che pensano che non ci sia ragione per cui il modernismo e il tradizionalismo non dovrebbero mai provare a dormire nello stesso letto, si sentano liberi di unirsi a qualunque melodia che catturi il loro orecchio interiore.
Stage Fright (1970)
Il giudizio comune su “Stage Fright” è che si allontani da quel mondo di american Bible, scavi in questioni più personali e rifletta il travagliato stato d’animo di Robertson sulla scia del successo e della transizione dagli anni sessanta ai settanta, con l’esaurimento dell’idealismo hippie e tutto il resto. Poiché il connubio sincerità/onestà di un uomo può essere l’egomania di un altro, “Stage Fright” divide gli ascoltatori e i critici, a seconda di quanto siano disposti a spingersi nei loro sentimenti verso il signor Robertson. La title track è un esempio di come questa divisione, in realtà, funzioni. Da una parte, è innegabilmente orecchiabile, energica, ben arrangiata; quel supporto di organo stridulo di Hudson, penetrante e leggermente paranoico, la rende sincera come non mai. La scelta delle voci è ideale. Rick Danko, meglio di Richard Manuel quando si trova in brani lenti ed estesi o di Levon Helm stesso, i cui manierismi sarebbero fuori luogo, qui, nel liberare confessioni estatiche e sanguinanti su ritmi veloci. Ma d’altra parte, non riesco mai a riscattarmi dalla sensazione che Rick e Robbie, a volte, esagerino; il testo, il tempo a balzi, le note isteriche, tutto questo è un po’ troppo per un brano che, essenzialmente, tratta solo di una fobia. Voglio dire, cantare sulla fottuta paura del palcoscenico? Il Vietnam, Altamont, le morti di Hendrix e Joplin, e questi ragazzi fanno una tragedia shakesperiana sulla paura del palcoscenico? Mi è sempre sembrato inadeguato, anche se sono d’accordo nel prendere tutto come una metafora per qualcosa di più grande. Sentimenti simili si applicano al secondo classico dell’album, “The Shape I’m In”, una canzone che, curiosamente, è anche elevata allo status di non-ti-scordar-di-me grazie all’ispirazione e al duro lavoro di Hudson, che sbuffa e soffia dietro l’organo, stratificando passaggi predominantemente magici su una struttura marziale e generica. Questa volta, è più su un senso generale di paura e disperazione, “Out of nine lives I spent seven/Now, how in the world do you get to Heaven?/Oh, you don’t know the shape I’m in” e Manuel gli dà quel tocco più terreno, più facilmente credibile del Danko della title track. Fondamentalmente, quello che sto cercando di dire è che non mi importa molto dei tentativi di Robertson di trasformare la Band in una valvola di sfogo della sua frustrazione personale: è una visione molto più ristretta di quella che aveva mostrato solo un anno prima, e la chiara ragione per cui “Stage Fright” è l’inizio della scivolata della Band verso un’irreversibile trascurabilità, almeno se guardiamo la curva nella sua interezza. Seduto lì tutto solo, “Stage Fright” è ancora un disco essenzialmente irreprensibile, soprattutto perché gli altri membri stanno ancora sostenendo Robbie con entusiasmo e fornendo buon supporto creativo. Persino una generica apertura country-blues come “Strawberry Wine” si distingue per gentile concessione della voce nasale di Levon Helm e la parte di fisarmonica di Hudson. “The W. S. Walcott Medicine Show” è uno dei brani più sarcastici sullo show business mai scritti e, probabilmente, il miglior tentativo della Band nel riesumare il music hall, il brano più seducente dell’album. “Time To Kill” non è inferiore, semplicemente non martella i suoi riff nel cervello con brutalità muscolare, ma il suono di chitarra gli dà una risonanza deliziosa, quasi power-pop: se avete presente “September Gurls” dei Big Star, la sensazione qui è simile. Alcuni brani sono più dylaniani di qualsiasi altra cosa su “The Band”: in particolare “All La Glory”, dove il fraseggio e la cadenza di Levon Helm sembrano intenzionalmente modellati su Dylan, una canzone da godersi in un qualche pigro pomeriggio autunnale quando i sogni non sono mai abbastanza, gli ostacoli sempre troppi ed esageratamente grandi. La maggior parte dei versi di “The Rumor” suonano come se fossero stati presi dirittamente dai “Basement Tapes”, “Big men little men turn into dust/Maybe it was all in fun, didn’t mean to ruin no one/Could there be someone among this crowd/Who’s been accused had his name so misused and his privacy refused”. Non c’è da stupirsi, ora che hanno dismesso le uniformi della Guerra Civile, continuano inconsciamente a tornare all’uomo che, volenti o nolenti, insegnò loro a scrivere canzoni. Anche se “Stage Fright” non è un capolavoro, funziona come un greatest hits alternativo per quelli stufi della doppia corona di “Music From Big Pink” e “The Band”, e comunque sia, di sicuro non è indolente, il livello qui rimane splendidamente autentico. Il loro roots rock è ancora del tutto fornito di steli e rami e le foglie son fatte a cuore, acute.
Cahoots (1971)
“Cahoots” è uno “Stage Fright” senza la scintilla, che completa la trasformazione della Band da qualcosa di profondamente straordinario a qualcosa di più ordinario. Se “The Band” era un’impresa epica, mascherata da album rock, e “Stage Fright” un disco rock che conservava tracce di epicità, allora “Cahoots” è semplicemente un disco rock, punto. Rappresenta l’inizio della definitiva egemonia di Robertson all’interno del gruppo. Solo “Life Is A Carnival” è accreditata Danko/Helm, mentre le altre due sono, una cover di Dylan, “When I Paint My Masterpiece” e l’ospitata di Van Morrison in “4% Pantomime”.
Tutte le canzoni sono buone, ti rimangono addosso fino alla fine della giornata, e forse non potremmo aspettarci qualcosa di meglio da una band che ebbe il coraggio di porsi standard così incredibilmente alti. In particolare, sembra mancare coinvolgimento, sembra quasi che l’idea di portare Allen Toussaint a dirigere ottoni su “Life Is A Carnival” abbia messo fuori gioco il resto dei ragazzi, in particolare Garth Hudson, che non tira fuori nemmeno una melodia eccezionale. Su ogni canzone suona diligentemente i suoi spartiti, d’organo, fisarmonica e sax, e il resto della band ne segue l’esempio. Ma ci sono ancora buone canzoni. Tristi, intelligenti, ciniche, ironiche, scritte nell’anima. I rock mid-tempo come “Shoot Out In Chinatown”, “Smoke Signal” e “Volcano”, sono pigri, bradipi indolenti che formalmente adempiono al loro scopo: farti cantare nel coro allegro di “Shoot out in Chinatown, they lined ‘em up against the wall”, nel coro minaccioso di “Smoke signal, hear the drums drumming”, o in quello arrabbiato di “Volcano, I’m about to blow!”. “4% Pantomime”, a metà strada, si trasforma in un selvaggio confronto tra Van The Man e tutti i membri della Band, che a malapena riescono a superare la gola più resistente d’Irlanda, abituata alla mancanza di convenzionalità e all’enfasi improvvisativa. Se “Cahoots” ha un cuore, è sepolto nelle ballate di “Last Of The Blacksmiths”, con una dose medicinale del dolore universale di Manuel, l’unico brano che sarebbe stato bene su “The Band” e “Where Do We Go From Here”, un titolo semplice, ma rilevante, e Rick Danko canta in modo così doloroso che quasi ti affligge, “Where do we go from here? And I asked my woman/”Where do we go from here? Oh woman, my woman/Na, na, na, na, na, na, na, na, na/And she said, nowhere”. “Thinkin’ Out Loud” è un esercizio di tranquilla disperazione. Sono tutte canzoni profondamente emotive, non arrivano mai a una vera e propria magia, ma sfruttano al meglio il talento di questi ragazzi, nonostante la produzione sia così così: per quanto ci possa provare, “Last Of The Blacksmiths” non può battere la maestosità di una “Unfaithful Servant”. Alla luce di tutto questo, è molto ironico che “Cahoots” inizi in modo così ingannevole, con la “Life Is A Carnival” guidata da Toussaint. Toussaint è il latore dell’attitudine da Mardi Gras della New Orleans più allegra e disinvolta, mentre questi ragazzi sono zoticoni canadesi severi, privi di humour, possono solo cercare di utilizzare quell’atmosfera per scopi sarcastici, cosa che innegabilmente fanno. Alla fine, tutti questi allegri ottoni vanno via un po’ sprecati, anche se la canzone è ben scritta e notevole. Forse fu un errore includerla come apertura dell’album, gettò una ventata di confusione; niente ti influenza, in un disco, tanto quanto la prima canzone.
In sostanza “Cahoots” funziona meglio come un insieme che come una somma delle sue singole parti, il che implica che ogni singola canzone dal vivo potrebbe impallidire accanto al loro precedente repertorio. Il resto sono solo divagazioni per adepti.
Rock of Ages (1972)
Non tutti avrebbero osato schiaffare un titolo come “Rock Of Ages” su un album dal vivo. I live album doppi (e tripli) erano di gran moda nei primi anni Settanta, ma la Band riuscì comunque a distinguersi, pubblicando un disco per nulla appesantito da orpelli progressive. L’ascolto di “Rock Of Ages” mette a tacere questa incertezza. Sono così manipolatori con la loro maestosità quanto lo sarebbero stati nel loro ultimo spettacolo. Registrato negli ultimi giorni di dicembre a New York, in un luogo, non a caso denominato Academy of Music, “Rock Of Ages” è uno spettacolo, con gran parte del materiale estratto dai loro primi tre album intervallato da una solitaria “Life Is A Carnival” presa da “Cahoots” e qualche cover R&B qua e là per esibire un collegamento con il passato. Il cameo di Dylan che fu registrato nelle prime ore del mattino del 1 gennaio 1972 è il climax dello show. Dopo che gli umili servitori si sono fatti il culo per due ore, esce il Profeta e concede la sua benedizione. Quattro per l’esattezza. Allen Toussaint, fresco del lavoro su “Life Is A Carnival”, fu reclutato per scrivere gli arrangiamenti dei fiati. Contrariamente alle aspettative, questo non fornisce alla musica un autentico sapore R&B, ma aggiunge ulteriore carnalità al suono, da buttare giù senza masticare. Le canzoni stesse, in realtà, sono suonate senza improvvisazioni perché, per citare un immaginario Robbie Robertson: “perché manomettere la perfezione?”. Tolti gli ottoni e un occasionale espediente elettronico di Garth Hudson, la musica è trasposta fedelmente. Se c’è qualcosa qui che travolge, è semplicemente la realizzazione di quanti brani dannatamente grandi avessero scritto, solo un’ondata su un flutto di inarrestabile grandezza. Le cover non pungono. Né “Don’t Do It” di Marvin Gaye, che apre lo show, né “Hang Up My Rock’n’Roll Shoes” di Chuck Willis, che lo chiude, reggono davvero il confronto con i loro originali. Non perché non siano rispettabili R&B, lo sono pienamente, ma l’idea qui è di assicurare in qualche modo un collegamento tra il vecchio e il nuovo, di costruire un ponte tra i vecchi Hawks, ancora accreditati ai reverendi maestri, e la nuova Band, i maestri del presente. Non funziona. “Don’t Do It” batte un groove, ma la band sembra quasi aver paura di entrarci, e per quanto riguarda il brano di Chuck Willis, beh, sembra che non vogliano proprio farlo, che abbiano appeso da tempo le scarpe al chiodo, perché questo qui non è rock’n’roll, davvero, è blando, generico pub boogie, e nessun Toussaint è in grado di trasformarlo nella celebrazione che dovrebbe essere. In un certo senso, questi due cover anticipano i difetti di “Moondog Matinee”.
Ciò che funziona meglio è quando va nella direzione opposta, in profondità, con Hudson che mostra la sua routine di classe, J. S. Bach che scopre il potere dell’elettricità, su “The Genetic Method”, un lungo strumentale per organo cresciuto sull’introduzione di “Chest Fever”. E quando inizi a pensare di averne avuto abbastanza, l’orologio segna le dodici e si lancia in “Auld Lang Syne” e il pubblico fa whoooh. Un momento commovente, davvero. Il Dylan guest è davvero una bella conclusione, ma un po’ superflua se conoscete già “Before The Flood”, registrato due anni dopo, ma che imposta più o meno lo stesso percorso e con Bob nella stessa forma, urlante. La selezione delle canzoni è piuttosto curiosa, però, con due riprese dai “Basement Tapes”, all’epoca non ancora pubblicato ufficialmente. Bob resta in disparte, concentrato, piuttosto che trasformarli di nuovo nel suo gruppo di supporto. Ma poi, sì, sono ancora sul palco per i fan, a suonare “Like A Rolling Stone”. Nel complesso, su “Rock Of Ages”, la Band allestisce la sua eredità in favore dell’immortalità. L’album è più importante come il ricordo di un evento, una collezione di canzoni formidabili, un elogio autocelebrativo, che qualcosa che vorrete ascoltare più e più volte. Possono sembrare narcisisti, ma finché suonano grandi canzoni, è un piacere vederli così orgiastici. Se, a tratti, su “The Last Waltz”, l’ego potrebbe essere sfuggito di mano, su “Rock Of Ages”, è ostentato al punto giusto.
Moondog Matinee (1973)
A quanto pare, un giorno Robbie Robertson si svegliò e decise che, almeno per un breve periodo, la Band non sarebbe stata più The Band, ma sarebbe tornata ad essere The Hawks, il gruppo che suonava per Ronnie Hawkins cover nei locali nei primi giorni della “Swinging Toronto”. Oppure fu una decisione collettiva, ma chi può dirlo? Non siamo più nel 1973, e, comunque, nelle autobiografie mentono tutti. Gli album di cover non erano esattamente di gran moda, l’altro esempio ben noto nello stesso anno è “Pin Ups” di David Bowie, e con “Moondog Matinee”, la Band finì per giocare un ruolo serio in quella sfida. Dato che, in qualsiasi momento della loro esistenza post “Basement Tapes”, il nostro gruppo di barbuti intellettuali sarebbe stato in grado di istituzionalizzare l’intrattenimento leggero sul quale erano originariamente cresciuti. La scelta del materiale è raffinata. Invece di santificare, alla Bowie, il primo garage rock – il che sarebbe stato sorprendente e li avrebbe fatti sembrare un gruppo della British Invasion, o il blues di Chicago, che li avrebbe fatti diventare una Butterfield Blues Band di seconda categoria – scelsero una selezione varia che includeva rockabilly, ma generalmente soul old school, R&B e gospel. Semmai, “Moondog Matinee” è inestimabile per il suo valore propedeutico e educativo. Potresti desiderare di scoprire qualcosa su Clarence “Frogman” Henry e sul suo gracchiare di gola, o sui Platters o su LaVern Baker o semplicemente potresti voler cambiar genere e andare a vedere “Il Terzo Uomo” di Orson Welles. A dirla tutta, è un buon album. Onestamente riuscire a non “bandificare” gli originali, nel 1973, è impossibile, erano già così compresi nel loro stile che non avrebbero potuto tornare indietro neanche se avessero voluto, rendendo questo, come minimo, un’intrigante modernizzazione di classici appena dissotterrati. Tuttavia, questo è anche il nocciolo del problema: alcune di queste canzoni si consegnano malvolentieri alla “bandificazione”, alcune si ribellano e si trasformano in scomode piccole risacche di imbarazzo. Prendete gli standard rock’n’roll – durante uno dei suoi monologhi sull’arte in “Last Waltz” di Martin Scorsese, Robbie Robertson diceva a proposito degli inizi qualcosa del tipo “c’ero, l’ho suonato il rock’n’roll, potrei rifarlo, ma mi annoiava e sono andato oltre” e l’ascolto di queste tiepide, languide interpretazioni di “Promised Land” di Chuck Berry e “I’m Ready” di Fats Domino conferma quell’atteggiamento. In realtà, il primo colpevole qui non è Robertson, ma la sezione ritmica di Helm e Danko, un chiaro caso di appesantimento: non contenti di suonare semplici quattro quarti e minimali accordi boogie, danno a entrambi quel tocco swing che li priva completamente della loro essenza. Cenere alla cenere, funk al funky, semmai, Chuck Berry dovrebbe essere lasciato ai Rolling Stones, e Fats Domino, beh Fats può prendersi cura di se stesso. Migliore il lavoro con “Mystery Train” di Junior Parker che viene seriamente funkyficata senza perdere l’atmosfera dell’originale anzi trasformata in un parco giochi per Hudson, che dipana una piccola sinfonia elettronica sullo sfondo mentre Robertson e i ragazzi picchiano allegramente. Allo stesso modo, tutto il resto è colpito e affondato. Un brano in levare può giungere al giusto compromesso con la giusta quantità di ironia, come nella “Ain’t Got No Home” di Clarence “Frogman” Henry, un altro può essere una timida reinvenzione molto più energica e travolgente, la “Saved” di LaVern Baker, ma sarebbe stato meglio se qualcuno gli avesse intimato di stare lontani dalle chiese degli afro-americani. Una ballata cantata da Manuel può essere dolce e toccante come la “Share Your Love With Me” di Bobby “Blue” Bland, un’altra può azzardare la sua libera interpretazione in un rigido arrangiamento doo-wop nel quale fin dall’attacco perde il focus come in “The Great Pretender”. Una chiusura trasversale poteva essere il riarrangiamento in pigra polka del tema del “Terzo Uomo” di Orson Welles, un’altra una commovente “A Change Is Gonna Come” di Sam Cooke, uno di quei brani che sono così unici e personali, che dovresti davvero viverli prima di aggiungerli al tuo repertorio. Non ci sono ragioni per dubitare della sincerità di Rick Danko, ma qui non li sta vivendo, sta solo rendendo un omaggio a Sam. Quindi, non è tutto senza appello, ma mai definirei “Moondog Matinee” un capolavoro, certamente no, se l’obiettivo era quello di aggiornare gli originali, né se fosse quello di dimostrare lo status autentico della Band. Sono “The Weight” e “The Night They Drove Old Dixie Down” che affermano la loro singolarità ed eredità più validamente di quanto un milione di cover di Chuck Berry e Sam Cooke potranno mai fare.
Northern Lights – Southern Cross (1975)
“Northern Lights – Southern Cross” è il primo album originale in quattro anni, “Islands” sarebbe stato registrato due anni dopo per adempiere ad obblighi contrattuali. Questa volta Robbie non si tira indietro: ogni cosa, ogni singolo cambio di accordo e ogni parola è accreditata solo a lui, definendo il coup de théâtre per la sua autoglorificazione in “The Last Waltz”. Eppure, è ancora un disco firmato dalla Band nella sua interezza, la batteria di Levon Helm, i rituali magici di Garth Hudson dietro le tastiere, il canto di Richard Manuel e Rick Danko qui contano tanto quanto il songwriting di Robertson. A pensarci bene, contano più del songwriting di Robertson, perché, francamente parlando, giunti a questo punto, era poco interessato dal lato tecnico musicale del business. Non una sola canzone mostra l’inventiva di una “King Harvest” o anche di una “Up On Cripple Creek”, in gran parte, è roots-rock piuttosto standard e brani come su un milione di miliardi di altri dischi usciti prima e dopo il novembre 1975. Quindi ciò che fa la differenza è il trattamento col quale la Band rende meno convenzionale questo genere musicale. “Northern Lights – Southern Cross” non nasconde neanche lontanamente l’ambizione di un “Music From Big Pink”, ma non si lancia mai in quegli assalti ed epiche altezze. Invece, incanala il lato emotivo, depresso e sfinito del gruppo in rivoli più ridotti e maschera sottilmente tutta quest’oscurità con ritmi giocosi e danzanti (“Ophelia”, “Rags & Bones”) o almeno con cori orecchiabili (“Jupiter Hollow”). Ma, in realtà, rimane il disco più triste e amaro che abbiano mai fatto in tutta la loro carriera. Dal punto di vista sonoro, ci sono due importanti cambiamenti. Primo, il disco riflette la ritrovata passione di Hudson per i sintetizzatori: ci sono un sacco di texture synth, generate con senso e gusto tale da non risultare a un orecchio moderno ridicolmente datate e che contribuiscono all’effetto gelido dell’album. Secondo, Robertson trova finalmente un modo per compensare la sua carenza vocale, sviluppando nuovi assoli, enfatici, scattosi, laceranti e agonizzanti che potrebbero sembrare vanagloriosi, ma sono eseguiti con grazia e armonia, “Forbidden Fruit” e “It Makes No Difference” sono due chiari esempi di questo nuovo stile. Liricamente, “It Makes No Difference” è una delle più essenziali canzoni della Band, un vecchio lamento d’amor perduto, il punto culminante dell’album, forse la migliore performance vocale di Danko: un ragazzo non riesce a dimenticare la persona che non potrà mai amare, con Robbie alla chitarra e Garth a un sax lunatico come perfetto contrappunto. Lenta e suggestiva, è priva di qualsiasi teatralità, ma è eccessiva, in particolare nelle sporche, ma contenute armonie del coro, “And the sun don’t shine anymore/And the rains fall down on my door”. “Acadian Driftwood” è la parte centrale dell’album, la più lunga, la più epica e l’unica ontologicamente americana, anche perché tutti e tre i cantanti condividono a turno la voce solista, pensate a “The Weight”, ma la malinconia non è meno emozionante. Tuttavia, a differenza di “It Makes No Difference” non si compiace, ma ci spinge verso una sorta di auto educazione ai limiti delle esperienze possibili grazie alla sospensione del giudizio etico, “Acadian driftwood, Gypsy tailwind/They call my home, The land of snow/Canadian cold front, Movin’ in/What a way to ride, Oh what a way to go”. Byron Berline suona un violino perfetto e Garth Hudson lo trovi ovunque con fisarmoniche e flauti dolci, alla fine tutto suona alla grande. Per il resto, la Band tira fuori favolosi groove, “Ring Your Bell” gioca con il funk e il R&B, ma non in modo convulso: gli interventi delle tastiere e degli ottoni rappresentano esattamente quel tipo di soluzione. “Ophelia” è rock blues nella sua forma più semplice e radicale, ma in qualche modo, ancora una volta, gli arrangiamenti uniti alla parlata tagliente di Levon rendono il tutto teso e scattante. In un certo senso, “Northern Lights – Southern Cross” è la ”Abbey Road” della Band, non in termini di somiglianze di stile o di importanza, quanto in termini di canto del cigno, un cigno saggio, ancora consapevole di sé, ancora pienamente energico, (la differenza probabilmente è che i Beatles sapevano bene che sarebbe stato il loro ultimo disco, mentre Robbie non aveva ancora pensato di tagliare la corda per sempre). Non vuole dimostrare nulla, è solo un accatastamento di canzoni unite da un comune sentimento di solitudine e abbandono, avvolto da una patina di matura saggezza e professionalità. Il merito di tutto ciò è loro, se Robbie Robertson avesse ingaggiato gli Eagles o i Black Oak Arkansas per registrare l’album, il risultato sarebbe stato probabilmente disorientante. Ma alla fine, è tutto un affare tra Robbie e i suoi ex amici e mi piace quell’elegante copertina col falò, dove Robertson sta in alto, era, comunque, il capo di questa banda di fuorilegge.
Islands (1977)
Se “Northern Lights – Southern Cross” è la ”Abbey Road” della Band, allora, “Islands” è il loro “Let It Be”. Definirlo album è un po’ improprio, visto che è principalmente composto da outtakes e vecchie registrazioni, cronologicamente sparse in un ampio periodo e pubblicato principalmente per soddisfare gli obblighi formali con la loro etichetta discografica, in modo di scappare definitivamente dalla Capitol ed essere liberi di pubblicare “The Last Waltz” per la Warner Bros. L’analogia non è perfetta, “Let It Be” era più coeso, mentre “Islands” non doveva necessariamente essere la fine, ma in termini generali di status e qualità, ha una sua logica. Potrebbe classificarsi sui livelli di “Cahoots”, pur rimanendo un regalo minore per i fan: nessuna nuova intuizione o scoperta. Il brano, risaputo punto culminante, non è nemmeno una composizione originale, piuttosto un riconoscimento del genio vocale di Richard Manuel, per come tiri fuori una perfetta interpretazione della “Georgia On My Mind” di Ray Charles, registrata nel 1976 per appoggiare la campagna presidenziale di Jimmy Carter. Tuttavia, non è una nuova lettura o qualcosa del genere, più che altro un riuscito e sentito omaggio a una loro grande influenza, un tributo a Ray Charles piuttosto che qualcosa di più serio. Il supporto del sintetizzatore di Garth Hudson, a tratti, infastidisce, un semplice pianoforte sarebbe stato più efficace. Curiosamente, c’è poco Levon Helm come voce solista, giusto un paio di tracce, una superficiale e meccanica cover del vecchio standard blues “Ain’t That A Lot Of Love”, quella col riff di “Gimme Some Lovin” già interpretata da Taj Mahal, e la breve e vivace chiusura di “Livin’ In A Dream”. Il resto è per lo più gestito da Danko e Manuel e i loro contributi sono in qualche modo simili, con una buona resa, ma un po’ monotoni. Quello di cui “Islands” avrebbe davvero bisogno è un paio di robusti rock, in stile “Ophelia”, per non risultare un album liscio come la superficie del mare sulla copertina dell’album. Questa levigatezza funziona bene per le prime due canzoni, “Right As Rain” è unʼintroduzione elegante e riposante con Manuel che fornisce la sua solita maestosità trattenuta e, da parte di Danko, una “Street Walker” altrettanto convincente, con una lunatica armonia e un fresco interplay piano/ottoni piuttosto pesantemente derivativo da “Stage Fright”. Il tutto comincia a diventare stancante nel momento in cui arriva “Let The Night Fall”, e il resto è, nel migliore dei casi, solo un piacevole sottofondo, a cominciare dalla danza strumentale della title track (perché la chiamano “Islands” se l’atmosfera è così pastorale…), finendo con “The Saga Of Pepote Rouge”, che è per lo più Robertson che indulge nelle sue fantasie mitologiche. “Knockin’ Lost John”, è famosa per essere una delle poche canzoni della Band in cui Robbie si prende la voce solista, mentre “Christmas Must Be Tonight”, presumibilmente scritta dallo stesso per la nascita del figlio, dimostra quanto l’uomo pensi in grande se l’analogia è con Gesù, suppongo che Levon, Richard, Rick, e Garth stiano, senza rendersene conto, facendo la parte dei pastori. Il testo è piuttosto sdolcinato, considerando gli standard di Robertson, “How a little baby boy bring the people so much joy/Son of a carpenter, Mary carried the light/This must be Christmas, must be tonight?”. Eppure, l’obbligo contrattuale doveva essere rispettato, quindi è un po’ inutile castigare la Band per non averci fornito un altro capolavoro, al contrario, dovremmo riconoscere in “Islands” un’altra dimostrazione della loro grandezza: anche un disco chiaramente pieno di filler e senza ispirazione è ancora decisamente ascoltabile e, in alcuni punti, affascinante. Si tratta di isole sparse, sulle quali ci si può imbattere in una terribile desolazione o in una bellezza paradisiaca. In un certo senso, nella sua imprevedibilità anche questo è eccitante.
The Last Waltz (1978)
Non c’è bisogno di introdurre “The Last Waltz”, uno dei progetti musicali più noti e di successo nella storia dello show business. Con Martin Scorsese e Robbie Robertson al timone, divenne rapidamente molto più di un semplice concerto d’addio: più probabilmente, il “concerto d’addio”, The Greatest Goodbye & Thanks For All The Good Times Ever Bidden In The History Of Mankind. Ok? Secondo la leggenda, i membri della Band furono piuttosto sorpresi dalla proposta, nessuno, tranne Robertson, aveva in mente di abbandonare il circuito, in molti pensarono che il suo ego avesse raggiunto l’apice e, invece, eccolo lì, desideroso di uccidere la gallina dalle uova d’oro per un gesto di pura grandiosità. L’unica ragione per cui dovettero assecondare il piano era che non avrebbero avuto altra scelta: senza Robertson come autore, la Band per come l’abbiamo conosciuta non sarebbe esistita. Così il 25 novembre del 1976, ognuno condusse il proprio destino alla Winterland Arena di San Francisco e Martin Scorsese era lì pronto a filmarli. L’ironia di tutto questo è che Robertson aveva avuto ragione. Probabilmente c’era ancora creatività per uno o due album, ma per quanto “Northern Lights – Southern Cross” fosse buono, non aggiungeva nuova sostanza e l’imminenza del punk, della new wave e del synth-pop li avrebbe inevitabilmente inghiottiti, come fece con ogni altro gruppo roots esistente. In effetti, la decisione di staccare la spina per la Band fu quasi profetica, “The Last Waltz” fu tenuto nel 1976, c’era ancora luce sotto il cielo, ma nel 1977, non ci sarebbe stato altro che buio. La profondità dell’astuzia di Robertson, tuttavia, non risiedeva tanto nel concerto stesso, quanto nella sua portata. Pareva un’idea innocente invitare alcune guest star per l’ultimo live della Band, sembrava così, solo un’idea innocente. In realtà, quello che Robertson e Scorsese prepararono non era niente di meno che una grande elegia. Il titolo stesso, “The Last Waltz”, è piuttosto eloquente. La selezione degli ospiti fu tutt’altro che casuale. Gli antichi eroi del rock’n’roll, incluso il loro mentore, Ronnie Hawkins. Il patriarca del blues, Muddy Waters. La New Orleans di Dr. John. Il rock blues elettrico di Eric Clapton. Il blue-eyed soul nelle vestigia di Van Morrison. Neil Young e Joni Mitchell, rispettivamente l’emissario maschile e quello femminile della profonda tradizione folk canadese. Il pop glitterato e mainstream di Neil Diamond.
E, naturalmente, Bob Dylan in persona che uscì per chiudere lo spettacolo con una “I Shall Be Released”, la canzone della morte imminente e della dolce redenzione. Dentro e fuori tutto questo, The Band, la Band, e ancora una volta The Band, il collante per tenere tutto al suo posto: “One Band to rule them all, One Band to find them, One Band to bring them all and on that stage to bind them”. Qui l’ultimo e definitivo momento di palese ironia, perché il concerto, canzone per canzone, è dannatamente bello, qualunque fossero stati i sentimenti degli altri verso Robertson, in quella particolare sera del 25 novembre 1976, nel profondo dei loro cuori, erano “The One Band”. E presero tutto con la dovuta responsabilità, forse anche con qualche responsabilità in più. Come Woodstock, “The Last Waltz” nel corso degli anni, si è incarnato più e più volte, prima un triplo LP, poi un doppio CD con alcune tracce bonus, infine, nella ristampa della Rhino Records, un enorme cofanetto di quattro CD con 24 tracce inedite dove è magnifico ascoltare tre canzoni di Joni Mitchell e l’interpretazione di “Caldonia” di Louis Jordan dalla bocca di Muddy Waters. Discutere di “The Last Waltz” è inutile: c’è così tanto materiale qui che la disamina potrebbe durare un’eternità. La Band esegue il 99% dei suoi successi, compresi tre brani da “Northern Lights – Southern Cross”, la versione di “Ophelia”, in particolare, è così serrata che finisce per ondeggiare sul vuoto, e l’1% dei suoi difetti, anche se la sezione “Genetic Method/Chest Fever” è grossolanamente abbreviata, con tratti della prima e una breve esecuzione strumentale della seconda. Le guest star sono tutte di altissimo livello, compreso Ronnie Hawkins che si limita a ringhiare su “Who Do You Love” e Neil Diamond, la cui “Dry Your Eyes” è un inno folk. Eric Clapton si scontra con Robertson su “Further On Up The Road” in uno dei suoi passaggi solistici più feroci e appariscenti; basterebbe il coro fuori scena di Joni Mitchell sulla “Helpless” di Neil Young mentre Neil stesso, secondo i resoconti, galleggiava nel paradiso della cocaina. Per il resto, bisogna vederlo e sentirlo. “The Last Waltz” lo si può amare o disprezzare, ma questo è un disco che si preoccupa dei vostri sentimenti e della vostra coscienza tanto quanto la teoria dell’evoluzione. Nota speciale la “The Last Waltz Suite”, un piccolo extra, composto appositamente per la serata, una specie di Johann Strauss che incontra il tema del “Terzo Uomo”. E via così, dal blues-rock di “The Well” al country-folk di “Evangeline” con Emmylou Harris come guest vocalist, alla ballata pop “Out Of The Blue” fino alla rivisitazione gospel di “The Weight” con gli Staple Singers che aggiungono solo autenticità nel classico. “The Last Waltz” è un’esperienza grandiosa e chiude il libro non solo sulla Band, ma anche sul periodo d’oro del roots-rock; non fu un azzardo di Robertson, semplicemente dichiarò e registrò l’inevitabile. E questo è solo il ventre filosofico della cosa, poi ci sono le sensazioni viscerali, che affermano chiaramente che questo live è un testamento straordinario.