U2 – Cercando di abbracciare il mondo – 30 anni di Achtung Baby
1989
Nascita del World wide web, nascita della Lega Nord, strage di Hillsborough, inizio della fine dell’apartheid in Sudafrica, nascita dei Simpson, Solidarnosc al governo, addio al Pci, Pink Floyd a Venezia, piazza Tienanmen, Scandalo ior/Marcinkus, Fatwah a Salman Rushdie, caduta del muro di Berlino, Havel presidente in Cecoslovacchia, dimissioni di Zivkov in Bulgaria, deposizione e morte di Ceausescu in Romania.
(fonte Wikipedia).
È la notte di Capodanno, la notte di passaggio tra due decenni.
Mi organizzo per registrare il concerto finale della serie di quattro date tenute dagli U2 al Point Depot di Dublino trasmesso su Radio Rai da quella sorta di oasi che è il programma Stereodrome.
A sort of Homecoming, una specie di ritorno a casa.
Duplico il nastro a destra e a manca per gli amici, sono cose da condividere.
È una delle 12 audiocassette che ancora conservo gelosamente, quelle sopravvissute all’ecatombe conseguente all’arrivo sul mercato dei Cd-r.
Nei mesi successivi lo ascolto decine di volte imparando a memoria ogni frase, ogni parola, ogni riferimento musicale e storico dei tanti inseriti nel tessuto del concerto da un Bono messianico come nessun’altro.
Il mondo sembra cambiare in modo radicale.
Mi sembra cambi per il meglio, che ci sia un abbandono progressivo di vecchi schemi che hanno alimentato odio e diffidenza tra popoli e che si vada verso una nuova sorta di comunione, verso un dialogo che possa portare ad accantonare la fredda angoscia di una possibile guerra nucleare con cui siamo tutti cresciuti.
La musica degli U2 in quel preciso istante, sebbene siano all’apice della propria epica prosopopea o forse proprio per quello, è in qualche modo fortemente simbolica.
Questo suono figlio della crasi tra gli U2 post-punk ante The Joshua Tree e dei successivi U2 immersi nello spirito yankee ti fa sentire davvero parte vitale di un momento storico, in un afflato del tutto speciale che unisce milioni di ragazzi, durerà?
Sembra tutto perfetto eppure ….
Eppure, nonostante il balzo da quel tetto di Los Angeles dove le strade non avevano nome al tetto del mondo, per primi gli stessi U2 si rendono conto che quel percorso è terminato, le loro antenne hanno chiaramente percepito che l’avanguardia più avanzata della critica e del pubblico ha storto il naso di fronte al percorso di riscoperta delle radici americane intrapreso con l’albero di Giosuè e portato agli estremi nella autocelebrazione di Rattle and Hum.
Intere frange del pubblico “rock” li considera ormai, pomposi, presuntuosi, sfiatati.
Sono diventati il nemico che ai tempi di War, come ogni punk rocker che si rispetti, volevano abbattere.
Gli U2 sentono traballare il podio dove sono da tempo stati piazzati come band più importante del decennio. Iniziano a temere che il percorso di dinosaurizzazione che ha colpito molti altri gruppi prima di loro stia per ghermirli senza via di scampo.
C’è bisogno di un cambiamento, di reimmaginare tutto affinché non muoia, ed è proprio con queste parole che Bono saluta il Point Depot quella notte: “È la fine di qualcosa per gli U2, niente di che, semplicemente dobbiamo andarcene per risognare tutto da capo”.
Sognare di nuovo per non spegnersi, per non sciogliersi, per non perire.
In altre parole: “è necessario prendere una grossa motosega ed abbattere l’albero di Giosuè”.
1991 Ottobre
È quasi la fine del mese, sono in mezzo al mio anno di servizio civile presso un istituto per gli anziani, non lontano da casa.
Sostanzialmente vivo lì ma una volta alla settimana rientro nella mia camera a casa dei miei.
Sono nella tavernetta della loro casa quando accade.
Oggi non ricordo più: Era Videomusic? Deejay Television? Poteva pure essere il telegiornale, in fondo gli U2 avevano “lasciato il palazzo” due anni prima che erano le rockstar più famose del pianeta.
Le prime immagini dell’atteso video di “The Fly” che sancisce il loro ritorno sono rapide, disturbate, confuse: pelle, plastica, lustrini, ombre, stroboflash. gli occhiali bombati di Bono ad evocare la mosca del titolo. Il suono tagliente che fende l’aria, un riff affilatissimo che arriva da una chitarra che non è più una chitarra, è qualcos’altro, un proiettile electro su un groove alieno, irriconoscibile, lontano anni luce dalla nostalgia di “Desire” ed “Angel of Harlem”.
E la voce, quando arriva, arriva dalle viscere della notte, distorta, ansimante, minacciosa fino al falsetto dell’inciso che disegna la melodia del brano, così lontano dal Bono che ricordavamo. Anni luce addietro.
Resto stordito, stupito, non capisco, non so se sono pronto a farmi piacere questi U2 così luccicanti, glam, elettronici, costruiti. Il colpo è arrivato dove doveva arrivare e mi ha spiazzato.
Non sono il solo.
Sono quattro le settimane che trascorrono in un’attesa febbrile – perché davvero allora l’attesa per certi dischi era spasmodica – dell’album di cui si sa solo il titolo, un titolo che puzza di pericolo e d’amore: “Achtung Baby”, parole che si portano dentro il fantasma della città europea cui più sono legato, quella in cui gli U2 sono andati a risognare tutto da capo: Berlino.
Il 18 novembre sono sdraiato sul divano a luci spente mentre il treno entra sferragliando nella ZOO Station che sei anni prima mi aveva accolto, diciottenne, all’alba dopo un lungo viaggio notturno in gita scolastica alla città ancora divisa.
I Kraftwerk di Trans Europe Express proiettati in una discoteca ricavata in un bunker della capitale sopravvissuta ai bombardamenti ed a 28 anni di guerra fredda e rinata a nuova vita: la sferragliante “Zoo Station” è questo, sic et simpliciter, un ponte di metallo che ci porta dritti nel glam acid rock di “Even Better Than The Real Thing”: il suono è nuovo, attuale, brillante, vibrante, lanciato in orbita. “One” ha il respiro di un classico sin dalle prime note, sono gli U2 nel loro elemento, quello della pura emozione in cui la dedica alla comunione di due persone è anche quella alla comunione delle nazioni, di una Germania e di un’Europa di nuovo unificate che cercano di mettersi alle spalle decenni di divisioni in uno spirito comune ed uno sforzo collettivo che non può lasciare freddi: “We are one, but we are not the same, we’re gonna carry each other”.
Anni dopo scopriremo che se non ci fosse stata “One” il gruppo, di fronte ad un vicolo cieco, sarebbe caduto nel baratro, sarebbe finito di fronte alla crisi di comunicazione e di direzione che, proprio in quella città che aveva scelto per rinascere lo aveva portato invece all’impasse.
“Until the End of the World” spacca le casse dell’impianto, bassi profondissimi, chitarre ribattute su un pattern ritmico in cui si avverte appieno la club culture, il baggy sound di Madchester, la summer of love, l’Hacienda. Il suono del momento a vestire anime inquiete e vibranti.
“Who’s Gonna Ride Your Wild Horses”, nata in studio su tre accordi e immersa dal team Eno-Lanois-Flood in una camera iperbarica satura di feedback gassoso quasi shoegaze, con il suo senso di malinconia e di dolente dolcezza che sfoga in un refrain spaccacuore si spegne sul piano crudo di “So Cruel”, asciutta, poggiata su un backbeat ritmico ancora debitore del suono mancuniano, con un Bono appassionato come sa essere in un crescendo emotivo che vede intervenire persino gli archi, un melodramma urbano nel cuore della Mitteleuropa.
La boa che segna la metà del disco è “The Fly”, che a quel punto il sottoscritto ha assimilato ed accolto entusiasta nella sua aspra eccitazione metropolitana, buon viatico per il possente groove funk di “Mysterious Ways”, sinuosa serpe sonora su cui lasciar danzare il ventre.
Gli U2 fanno muovere il culo, l’avresti mai detto?
Una danza sfrenata sulle rovine del muro fino ad un’alba accompagnata dalla serena elegia di “Tryin’ to Throw Your Arms Around the World”, un cantico al mondo in un afflato di quella speranza, che da “Boy” in poi è sempre stata la cifra precipua di questi irlandesi, quella in grado di distinguerli da ogni altra band.
Six o’clock in the morning
You’re the last to hear the warning
You’ve been tryin’ to throw your arms around the world
Ma non è ancora arrivato il momento di andare a dormire, un afterhours in qualche loft di una Berlino ancora incredula per la caduta del muro lo si trova sempre. Le luci di “Ultra Violet” fanno perdere i sensi, le chitarre ribattute di The Edge cavalcano il backbeat come cavalli in corsa e non puoi che lasciarti andare all’onda del rave, la testa proiettata in un altrove a cavallo tra passato e futuro “Baby light my way”.
“Acrobat” è come un getto d’acqua ghiacciata che ti risveglia dall’ “ecstasy” gloriosa, il suono si fa minaccioso, il canto emotivo, i bicordi di The Edge il corrispettivo di una rabbia dolente: “if you dream then dream out loud, don’t let the bastards grind you down”.
Il ritorno alla realtà è duro come il cemento di un muro rimasto in piedi per ventotto anni ma caduto alla fine di fronte alla fede di un amore cieco, di un cuore gettato oltre ostacoli che si credevano insormontabili. L’assolo frantumato di chitarra che affianca il canto sconsolato di Bono in “Love is Blindness” è tra i diamanti più puri della carriera degli U2. Il sigillo perfetto per una delle opere chiave di quell’incredibile 1991 in musica, di quel decennio tutto e della vicenda artistica di un gruppo dato per spacciato che rinasce come sfinge dalle proprie ceneri per lasciare una traccia inestimabile che gli permetterà di restare ancora sul tetto del mondo quasi fino alla fine del decennio.
2012
Berlino. È la quarta volta, due amici ed io.
Mi sono appena separato, il percorso per rinascere è lungo ma passa anche da qui.
La città che è stata il cuore pulsante del continente nella storia dell’ultimo secolo, è stata altresì un muscolo sempre vitale anche per la storia della musica.
Gli Hansa Ton Studios di Köthener Strasse, sono stati testimoni di tutto questo ed è reverenziale il timore con cui ci intrufoliamo attraverso i portoni di questo palazzo in stile neoclassico che per decenni ha fronteggiato “Der Mauer” e adesso è ad un tiro di schioppo dal consumistico paradiso della ricostruita Potsdamer Platz.
Saliamo le scale coperte di velluto con circospezione, non pare esserci anima viva, siamo al primo piano e la vediamo subito dietro la pesante porta socchiusa.
Ci affacciamo e la grande sala da ballo usata dai nazisti durante la guerra con i suoi drappi che coprono le grandi finestre inondate di luce è lì intoccata, il parquet, le boiserie scure, il palco con il suo sipario, i grandi lampadari. La sala è vuota, austera, non viene più utilizzata per registrare.
Gli ectoplasmi di Bowie, Eno, Fripp, Cave, Depeche, Iggy, Einstürzende, R.E.M. e U2 sono lì con noi, riverberi di “Heroes”, “Tupelo”, “Stripped”, “China Girl”, “One” si rincorrono nell’aria, pare quasi di poterli vedere, talmente sono vividi.
Achtung Baby è nato qui.
Gli U2 qui sono rinati.
Ed io ho ancora 25 anni.