“Che succede, Mr. Gaye?”: un capolavoro lungo cinquant’anni
Cinquant’anni. Tanti? Pochi? Come si calcola il tempo per i Classici? Per i Capolavori? Per quello che probabilmente è uno dei dieci dischi più importanti della Storia della Musica?
E dire che Berry Gordy, Jr., padre-padrone della Tamla-Motown, non ne voleva sapere di quel manifesto perfettamente adatto ai tempi, intriso di coscienza ecologista, pacifista, sociale. Il perché era noto: l’etichetta che propagava il concetto di “suono della giovane America” si era sempre tenuta lontana da argomenti diversi dall’amore (più o meno platonico e/o romantico) e dalle sue sofferenze, tematiche care al suo pubblico e alla spensieratezza dei favolosi Anni 60. Eppure, già da oltre un lustro “i tempi stanno cambiando” e proprio a Detroit le rivendicazioni degli afro americani avevano vissuto momenti drammatici, culminati nelle rivolte del 1967 superbamente raccontate in “Detroit” di Kathryn Bigelow (se non l’avete mai visto, provvedete a redimervi subito, nda).
Marvin Gaye, dopo i successi mietuti da solista e nei vari duetti con Kim Weston, Mary Wells e soprattutto Tammi Terrell, aveva subito pesantemente il contraccolpo della prematura dipartita di quest’ultima, il che rendeva più plausibili le voci che li volevano sentimentalmente coinvolti, conseguenza delle quali fu l’acuirsi della conflittualità nel rapporto con la moglie Anna Gordy, di ben 17 anni più vecchia del cantante e sorella di Berry, ovvero di colui che aveva favorito (potremmo dire imposto) il matrimonio per poter tenere sotto controllo la carriera del cognato.
Ad esser sinceri, i problemi erano già iniziati prima: dal 1968 Marvin aveva preso a flirtare pesantemente con lo “sballo”: si era trovato ingabbiato in quella situazione matrimoniale soffocante, per di più legata a doppio filo con l’elemento aziendale, rappresentato dal fatto che Anna era una dirigente e autrice della casa discografica, e cercando di sottrarsi a questo total control aveva cercato evasioni in vari campi. Uno, in particolare, lo stava ossessionando: da sempre innamorato dello sport, improvvisamente si era fissato di giocare a football con i Detroit Lions, essendo amico stretto di alcuni dei giocatori. Si era dedicato con costanza all’attività pesistica, aumentando la massa muscolare al punto di dover rinnovare l’intero guardaroba (si stima che avesse speso oltre 10mila dollari a tal fine), ma la dirigenza rifiutò la richiesta di consentirgli almeno di allenarsi con gli esordienti, temendo che un eventuale infortunio avrebbe potuto creare problemi e alienare parte delle simpatie nei confronti della squadra. A quel punto, deluso, cominciò a dedicarsi alla boxe, mentre i vecchi insegnamenti del padre (catechista di una rigida setta avventista) cominciavano a confliggere col suo stile di vita del periodo, tendente alla dissolutezza.
Dovendo trovare un equilibrio tra tutti questi elementi, Marvin Pentz Gay, Jr., in arte Gaye (la “e” finale pare fosse ispirata a Sam Cooke, che aveva fatto la stessa cosa, anche se non si può escludere una ragione più legata alla necessità di evitare derisioni), cominciò ad interessarsi a tematiche più profonde e d’attualità: l’aggravarsi della situazione in Vietnam, con gli U.S.A. impegnati in una guerra sempre più difficile e che esigeva un costo di giovani vite che andava incrementandosi ogni giorno, le prime avvisaglie delle crisi energetiche e dell’aumento dei livelli di inquinamento, le disparità etniche ed economiche all’interno della società americana, con tutte le sue contraddizioni, per non dire degli echi delle proteste studentesche che in Europa eccitavano gli animi giovanili e si ripercuotevano nei campus degli stati più “liberal” degli States, in un gioco di rimandi culturali che rendevano protagonisti soggetti prima mai considerati politicamente e socialmente: i giovani.
L’artista sentiva l’urgenza di dover comunicare qualcosa di diverso dai cliché nei quali si era mosso in precedenza, qualcosa che davvero contasse a livello di messaggio, qualcosa che potesse confrontarsi con altri artisti afroamericani che nello stesso periodo stavano percorrendo quelle strade.
L’incisione del singolo What’s Going On, pubblicato contro il volere di Gordy, era avvenuta nonostante le iniziali titubanze dello stesso Marvin, ma qualcosa l’aveva infine convinto.
I due autori del brano, “Obi” Benson dei Four Tops e Al Cleveland, già autore affermato per artisti del calibro dei Miracles e Dionne Warwick, avevano messo assieme la canzone durante una session informale del quartetto del primo, ma il guizzo melodico che rende così accattivante il brano venne improvvisamente in mente al secondo mentre era al volante. Capirono immediatamente di avere per le mani un successo ed entrambi pensarono istantaneamente che fosse perfetta per la voce di Gaye. Ma lui fu riluttante. Almeno fino al momento del rientro del fratello dal fronte: il giorno in cui Frankie rimise piede sul suolo di Washington (la città che aveva dato i natali anche a Marvin), la famiglia era riunita, compreso il cantante. Riabbracciare il fratello fu un’emozione indescrivibile, poi l’iniziale euforia lasciò il posto al momento di condivisione intima e fraterna delle storie vissute in quella terra lontana, per una guerra che nessuno voleva. Frankie era stato fortunato, non era stato fatto prigioniero, non era stato ferito: ma quello che aveva visto e vissuto non avrebbe mai potuto scordarlo.
Quelle parole sconvolsero Gaye, facendogli affiorare le lacrime. Subito si ricordò di quella canzone che poco prima gli era stata proposta: nonostante non entrasse in studio da oltre un anno e mezzo, decise di inciderla immediatamente. Annunciato da un chiacchiericcio degli atleti dei Detroit Lions durante una colazione al bar, il singolo si sviluppava attorno all’introduzione di un sax sinuoso che lasciava spazio alla voce, QUELLA voce:
“Mother, mother
There’s too many of you crying
Brother, brother, brother
There’s far too many of you dying…“
(Madre, madre/ troppe di voi stanno piangendo/fratello, fratello, fratello/troppi di voi stanno morendo…)
Incipit mostruosamente efficace: esisteva qualcuno, negli Stati Uniti del 1970, che avrebbe potuto fraintendere il riferimento? Assolutamente no: tutti avevano un figlio, un fratello, un parente o un amico che quell’inferno lo stava vivendo o che da lì era appena tornato. O non l’aveva mai potuto fare, sia che vi fosse rimasto ucciso o ne avesse subito danni psichici permanenti, che era poi la stessa cosa.
Gordy temette che la Motown potesse essere identificata coi movimenti socio politici, le proteste, le organizzazioni di rivendicazione dei diritti di ogni natura, e si oppose all’uscita del singolo, bollandolo come “la cosa peggiore che abbia mai sentito, impossibile da proporre: un insuccesso annunciato“.
Quel testo così “conscious” lo spaventava: era forse la prima volta in cui Berry commetteva un errore così marchiano, essendogli stato sempre riconosciuto, in precedenza, un fiuto leggendario per il successo di una canzone. Ma non tutti avevano le orecchie così poco attente e quando il nastro finì per sbaglio tra altre decine di brani da preascoltare per deciderne la pubblicazione, il capo-vendite Harry Balk ne rimase così affascinato già al primo ascolto da sottoporlo a tutti i rappresentanti, che cominciarono a farne girare alcune copie, costringendo l’etichetta a pubblicarlo sotto il marchio Tamla.
La risposta fu entusiasmante, tanto che a gennaio del 1971 il singolo uscì e vendette in una settimana più di ogni altra uscita precedente della casa madre.
Il successo colse tutti di sorpresa, imponendo di farvi seguire un 33 giri. Marvin non voleva che la canzone fosse affogata in un mare di fillers: desiderava realizzare un album che raccontasse qualcosa in cui gli ascoltatori potessero identificarsi, che parlasse di ciò che il suo pubblico strava vivendo sulla propria pelle. Nessuno credeva che le continue raffinatezze cui il cantante sottoponeva i rimaneggiamenti delle varie incisioni avrebbero partorito un risultato in tempi così rapidi da sfruttare il successo del singolo. Ma lui li smentì: ultimò le session in soli 10 giorni, all’inizio di marzo. Gordy aveva preteso che l’album fosse pronto per la fine del mese, quindi dedicarono il resto del tempo ad affinare gli aspetti relativi al missaggio, sfruttando anche gli errori e le casualità sortite durante il lavoro di post produzione, tipo il raddoppio della voce di Marvin, cosa che gli piacque al punto da reiterarla in varie parti del disco.
Gaye si era appassionato alla “new thing” che, contaminando il genere principale, prendeva a piene mani dal mondo del pop, del soul, del rock per diventare un ibrido che consentiva ai jazzisti di ampliare la gamma espressiva: ne subiva il fascino, l’artista di Washington, e tutto ciò su cui stava lavorando ne era intriso.
Incredibilmente, già il 22 maggio 1971 i ragazzi potevano ammirare nelle vetrine dei negozi di dischi quel volto pensieroso ritratto in un giorno di pioggia.
Copertina favolosa, degna cornice di un album di tal fattura, realizzata traendola da un session fotografica che, finalmente, si spostava dalle più recenti, in cui Marvin appariva sempre in tuta. Questa volta era di un’eleganza ammirevole: impermeabile nero, lucido, col bavero sollevato, dal quale si scorge un collo di camicia giallo/beige. Un mezzo sorriso, enigmatico, sposato a un’aria pensosa. Il retro svela che il soprabito nascondeva un abito ancora nero, la camicia ornata da una cravatta ton sur ton. Ma lo sguardo, in questo scatto, è quasi piangente.
La cover era del tipo gatefold, apribile, al cui interno trovavano posto i testi e un patchwork di immagini dell’artista in varie fasi della vita, sin dalla più tenera età. Per la prima volta, inoltre, un album di casa Motown riportava i nomi dei musicisti, a conferma di quanto Gaye tenesse a sottolineare l’aspetto corale dell’opera, come si usava nelle produzioni jazz.
Ma il contenuto, ovviamente, è ciò che ha reso immortale questo capolavoro. Nonostante le continue sovraincisioni e aggiunte strumentali, l’impressione all’ascolto è quella di una registrazione in diretta: niente era preordinato, Marvin era capace di arrivare in studio con un’idea nuova e sovrainciderla sul momento, aggiungere effetti e suoni o ripetere alcuni interventi.
Il tono musicale dell’album si mantiene sempre su quello del brano che gli conferisce il titolo, con quel ritmo soffice, in secondo piano ma ricco di percussioni, un basso swingante, le coloriture dei fiati e del pianoforte, frutto degli arrangiamenti di David Van De Pitte.
Il pezzo più anomalo, Right On, aveva un ritmo cha-cha sincopato che risentiva della lezione dei Santana, mentre i Funk Brothers dovettero cambiare il loro tipico approccio secondo gli accenti jazz impartiti dagli arrangiamenti.
Ma a colpire erano sicuramente i testi: Mercy Mercy Me (The Ecology) era un evidente invito al rispetto dell’ambiente (e dovettero spiegare a Berry il significato di “ecology“, termine del quale ignorava l’esistenza); What’s Happening Brother è una propaggine della title track, anche sotto il profilo musicale, e ne prosegue il filo conduttore focalizzando il tema dei reduci dal Vietnam, reietti e dimenticati.
I ragazzi del ghetto sono sempre più preda della dipendenza da eroina, la droga dei poveri, degli emarginati, come rivela Flyin’ High (In The Friendly Sky), rubando lo slogan di una compagnia aerea per darle il titolo, alla quale fa eco un altro richiamo a un problema sociale: l’infanzia disagiata cui è preclusa l’aspirazione a un’istruzione che consenta di elevarsi (Save The Children), confluente nel riferimento divino di God Is Love.
Anche Wholy Holy è a tema religioso, prima del tripudio finale di Inner City Blues (Make Me Wanna Holler), terzo vertice di “What’s Going On“, dopo la canzone che lo intitola e Mercy Mercy Me. E terzo brano a sconfessare l’ipotesi di Gordy circa l’impossibilità che un simile album potesse sfornare altri successi: anche le altre due, infatti, una volta pubblicate come singoli entrarono entrambe nella top ten, e Marvin risultò il primo cantante (maschio) ad avere contemporaneamente tre singoli in classifica estratti dallo stesso album.
Le radio avevano subito accolto queste canzoni rendendole estremamente popolari e favorendo le vendite del long playing, che risultò raggiungere la sesta posizione nella relativa classifica generalista di Billboard, miglior piazzamento di un album di Gaye in quell’ambito fino a quel punto, e vendendo oltre due milioni di copie nel primo anno dall’uscita (mezzo milione in più furono quelle del singolo, nello stesso periodo), mentre si posizionò al vertice della classifica dei 33 giri di soul music.
Se volete comprendere al meglio il perché di un simile successo, non avete che da ascoltarlo, magari nella versione deluxe edition del 2001, che all’originale aggiunge il missaggio originale eseguito a Detroit il 5 maggio 1971, qualche versione alternata e, su un secondo CD, il magnifico concerto al Kennedy Center del 1 maggio 1972, in cui l’album viene eseguito integralmente.
Non ha perso un grammo di attualità.
Capolavoro, l’ho già detto?