R.E.M. – Out of Time
Da qualche anno sto blaterando senza alcun motivo fra me e me. Ho cantato ogni canzone e recitato ogni poesia che conoscevo. Ho rivisto i film che avevo memorizzato. Ieri un vento portava solo lo stridio di una macchina fantasma. Quello era allora; oggi sento cantare nel vento: armonie in quattro quarti, hit da Top 40 e il riff iniziale di “Losing My Religion” che, ogni dieci minuti, fluttua perversamente nella mia mente come una violazione dei miei diritti umani.
Prima fu il titolo. Perché potrebbe significare cose diverse; il mondo sta finendo o il disco esiste solo fuori dal suo tempo o da qualsiasi tempo, slegato da ogni tendenza o aspettativa.
Stabilito che l’album inizia con Michael Stipe che annuncia “The world is collapsing”, ci si aspetterebbe la prima scelta. Ma la verità, con gli artisti, è sempre più prosaica; stava per uscire e non avevano ancora pensato a un titolo. Fu una delle loro segretarie a ispirarlo. Quando le fu detto che il disco parlava di memoria, tempo e amore, rispose con il concetto di in time. Mike Mills immediatamente replicò con out of time, e questo fu il battesimo. Avevano letteralmente esaurito il tempo.
L’album aveva due lati, una “Time Side” e una “Memory Side”. Era questa dualità che distingueva il gruppo in modi che prima non esistevano. Ascoltandolo trent’anni dopo, è evidente quanto questa duplicità sia stata cruciale per garantirsi il consenso. Decisero di non fare un tour promozionale, Peter Buck non voleva più guardare in faccia una chitarra elettrica. Eppure la pazienza fu ripagata; “Out Of Time” divenne, all’epoca, il più vero e, probabilmente, coraggioso passo estetico laterale di una rock band da molto tempo a questa parte.
Fu l’apparentemente dimessa “Losing My Religion”, la più famosa canzone rock con una intro di mandolino dai tempi di “Maggie May”, che lentamente conquistò il pubblico. Sembrava parlasse del nulla, ma, paradossalmente, parlava di tutto. L’espressione “losing my religion” è familiare nel Sud degli Stati Uniti e significa perdere la calma, perdere la propria dignità o, semplicemente, sentirsi frustrati, disperati. Stipe ne descrisse il testo come uno studio sull’ossessione, una diversa angolazione dell’amore non corrisposto. Tuttavia, la canzone dà l’impressione di essere molto più che uno struggersi per una donna, “The Life is bigger than you”. E la loro gente colse una interpretazione più ampia di refrain come “I thought that I heard you laughing” e del finale rassegnato di “That was just a dream”, come se inseguissero i fantasmi di un ipotetico violento passato. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel video, ambientato in una stanza spoglia illuminata solo lateralmente, con Peter Buck che pizzicava un mandolino seducente mentre Stipe sedeva morbosamente su una sedia dallo schienale doloroso, struggendosi. Quella camicia di lino bianca, con le maniche arrotolate, le lunghe braccia incrociate, le mani dalle ossa sottili che si abbassavano fra inquadrature di angeli cadenti e ferite. “That’s me in the corner / That’s me in the spotlight, I’m / Losing my religion”, è come una versione aggiornata di “Tears of A Clown”, solo dieci volte più nevrotica. Ossessiva, vacillante, autocosciente, disperata. Ecco qui, una canzone d’amore per tutti noi loser. “Oh no, I’ve said too much”, agonizza Stipe; e, aspetta, “I haven’t said enough”. Poi inizia a ballare. Come “Smells Like Teen Spirit”, sembrava, non solo riempire un vuoto esistente, ma convincerci che un nuovo vuoto era stato creato. Il suo tempismo era perfetto. Ventenni che si ritrovano negli anni novanta e si chiedono chi diavolo fossero.
La “Time Side” è la mia preferita. “Radio Song” mette il lamentoso campanilismo di “Panic” nella giusta prospettiva; un lamento universale. L’uso strutturale di stacchi e pause mi ricorda un po’ “Glass Onion”. La messa a fuoco è più nitida, l’uso ispirato del rapper KRS-One mai banale.
L’umore generale di questo lato è fortemente espressivo; “Near Wild Heaven” è scritta e cantata da Mike Mills, la prima volta che entrambe le cose accadevano in un album dei R.E.M., ed è musica pop superba e piena di speranza. Eppure si ritrae anche quando non sarebbe necessario. “Low” suona come il rovesciamento di “Boy Child” di Scott Walker; la nuda immobilità è ancora presente, “Barefoot naked / I can see your lines / It doesn’t bother me”, ma il messaggio è rassegnato al fatto che le cose siano, se non meno che perfette, solo passate a un’altra fase. In altre parole, è una canzone di speranza e accettazione, “I skipped the part about love/It seems so silly and low”. Stipe non è all’ultima spiaggia; è, perversamente (o meno), contento dello stato delle cose.
Il lato si conclude con la strumentale “Endgame”. Stipe sapeva che questa canzone non aveva bisogno di parole. Il canto della sirena di un flicorno soprano, suonato da Cecil Welch, penetra come il miele che decora il pasto di un nuovo e più luminoso mattino. Abbiamo raggiunto i confini e penso ai giochi che nell’infanzia mi spingevano fuori casa. Anche “Near Wild Heaven” lo suggerisce, da una prospettiva diversa, potrebbe essere scaturita direttamente da “Smile”, o da “Mexico” di Dennis Wilson. Col loro più profondo significato che è libero di sovrapporsi alla loro leggerezza; i R.E.M. possono far desiderare all’ascoltatore di aspirare alla visione degli dei.
La “Memory Side” è più diretta ma ci fornisce il necessario equilibrio. “Shiny Happy People” è un pop che ne va fiero e l’apparizione di Kate Pierson determina l’unione tanto attesa tra le due grandi band di Athens. Si nota appena che il testo è una traduzione non proprio letterale della propaganda del governo cinese all’epoca del massacro di piazza Tienanmen. Un’orchestra si inserisce come un’interruzione radio. “Belong” è il primo recital narrativo di Stipe; ancora una volta, il mondo sta crollando, o almeno il mondo femminile della protagonista, ma lei vede il crollo come un’opportunità per scappare, per liberarsi, per cambiare. “Half A World Away” è malinconica ma non priva di malcelato ottimismo; la musica è calda e accogliente. “Texarkana” fissa le stelle nell’universo, commossa e animata dalla loro visione. “Country Feedback” sembra il seguito di “World Leader Pretend” con il protagonista trasformato da dittatore paranoico a un amante senza radici. E ancora la voce morde “It’s crazy what you could have had”, come se rimproverasse il mondo intero. Stipe ha spesso detto che questa è la sua canzone preferita. Quando la suonavano dal vivo, il che accadeva sovente, si trasformava in un’epopea di sette, dieci minuti con un Peter Buck lamentoso nel finale. Sono quattro minuti, cinque accordi e poche parole. Il lato si conclude con il levare ipnotico di “Me In Honey”, un duetto con Kate Pierson e una risposta diretta alla canzone dei 10.000 Maniacs “Eat For Two”; cresce su un giro di basso che il gruppo cavalca trionfalmente, dentro una prospettiva cangiante dalla leggera indignazione iniziale, “What love is doing to me” alla consapevolezza nascente che quello che sta per accadere fa parte di loro, “What about me?”. Un nuovo mondo nascerà, e nascerà in ogni caso.
Trent’anni fa. Un amico compiacente me ne fece una copia su cassetta e camminavo. A volte delle nuvole lontane mi brontolavano addosso. Cercavo di non ascoltare stretto nelle cuffie di un walkman.