Paul McCartney – MCCARTNEY III
17 Aprile 1970. L’album solista di debutto di Paul McCartney, “McCartney”, è una selezione di incisioni casalinghe e di studio, ritagli dell’epoca beatlesiana, pubblicata in concomitanza con la rottura con i Beatles. Alla fine del 1969 era tutt’altro che un’artista esaurito, ricorse a rielaborare vecchie canzoni, improvvisandone altre e registrando tutto solo con l’aiuto della moglie Linda.
16 Maggio 1980. Sebbene, ufficialmente, fosse il suo secondo album solista, “McCartney II”, è, in realtà, il suo undicesimo post-Beatles. Tra l’uscita di “McCartney” e “McCartney II” ci furono nove album con i Wings. Fu registrato in sei settimane nella sua tenuta di Peasmarsh, nell’East Sussex, La natura sperimentale delle canzoni offre una via di fuga dall’atmosfera di stordimento nella quale, spesso, si erano trovati i Wings, ma sebbene le registrazioni siano in gran parte improvvisate, il risultato è uno insolito mélange di classico e non convenzionale songwriting.
18 dicembre 2020. Annunciato ufficialmente il 21 ottobre 2020, l’ultimo album del leggendario Sir Paul s’intitola “McCartney III”. Registrato, in primavera, presso lo studio di Hogg Hill Mill, di proprietà di McCartney dal 1981, nel corso di quel periodo che lui ha chiamato “rockdown”. Segue lo schema tracciato da “McCartney” e “McCartney II” ove tutti gli strumenti e le voci sono suonati e cantati da lui stesso.
Paul ha sempre scritto canzoni principalmente per sé, ma quelle canzoni hanno cambiato il mondo e chi lo ha descritto come un mero estensore di “sentimental ballad” ragiona in maniera molto riduttiva. Le gloriose contraddizioni spesso giocano un ruolo importante nel rendere i grandi artisti ancora più affascinanti. La sua storia personale è stata spesso essenziale nel contesto della sua musica. Ogni parte della sua trilogia solista e casalinga è un’istantanea stessa della sua vita. “McCartney” è stato registrato durante la disintegrazione della più grande band del Novecento. Ha scambiato gli inni di una generazione con un approccio più spoglio, a volte abbozzato. Paul aveva conquistato il mondo e cambiato per sempre il volto della musica in meno di un decennio, e tutto prima dei trent’anni, e, così, il suo primo album solista fu il sollievo dalle pressioni dei Beatles, ma i critici lo odiavano e lo incolpavano per la rottura dei Fab Four.
Dieci anni e arrivò “McCartney II”. Dopo i dischi con i Wings, aveva dimostrato che c’era vita dopo i Beatles. Eppure, desideroso di avere ancora più libertà, decise di fare, per sempre, da solo. Con l’arrivo di un nuovo decennio e la rottura di un’altra band dalla quale rimbalzare via (in seguito descrisse quel percorso come “uno spazzare via le ragnatele”), quell’elettronica stravagante e le stranezze del suo secondo album fai-da-te sconcertarono molti ascoltatori increduli che l’architetto di “She’s Leaving Home” e “Hey Jude” potesse proporre qualcosa di così “sgangherato”. Il Melody Maker scrisse che i contenuti del primo album erano “pura banalità” e la prova che il vero talento dei Beatles fosse, in realtà, George Martin. “McCartney II” se la cavò anche peggio: “robaccia elettronica, rozza, una tortura per le orecchie”. Oggi “McCartney” e “McCartney II “sono due degli album più venerati del suo catalogo solista, momenti nei quali ha temporaneamente dimenticato i suoi impulsi commerciali – ma non il suo innato dono per la melodia – e ha lasciato libero sfogo al lato più sperimentale. Una scuola di pensiero vede in quel McCartney improvvisato e domestico, anche l’antesignano dell’alternative rock e del lo-fi. Un presagio di pop elettronico da camera da letto.
Quarant’anni dopo, molte cose sono cambiate. Da sempre determinato nello sfidare la critica e a giocarsela secondo le regole imposte dal mercato, McCartney non si è mai preoccupato di quanto il suo talento fosse considerato divisivo. Negli anni ’90 l’influenza sulle legioni di gruppi britpop divenne sempre più evidente e, nello stesso tempo, intervenne la rinascita solista di “Flaming Pie”.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’ulteriore reinvenzione. Rafforzando la sua reputazione di icona, ha riacquistato la fama di sperimentatore. Se è vero, come detto, che, costantemente, la sua storia personale ha condizionato la sua musica, Paul, guardando crescere figli e nipoti, ha avuto la capacità di rinvigorire Paul, aggiungendo nuova linfa nel progetto del 2018 “Egypt Station”.
Con “McCartney III” otteniamo di nuovo qualcosa di diverso. Mentre la strumentazione a volte ricorda le vibrazioni folk pastorali di “McCartney”, l’innovazione giocosa di “McCartney II” condivide lo spirito lungimirante di questo celebrato terzo capitolo.
I momenti più belli dei due album precedenti sono stati i primi passi di questo nuovo disco. Se gli album precedenti erano colpi sparati direttamente contro il mainstream, “McCartney III” non è originariamente destinato a diventare il terzo episodio di una trilogia. È una licenza per l’avventura. Una fuga.
Ironia della sorte il presunto seguito di due bizzarrie, è il disco più ipnotizzante degli ultimi anni. Il dado in copertina è la brillante interpretazione visiva dello spirito divertente e azzardato di questo album. Se da un lato è il seguito spirituale di due album di quaranta e cinquanta anni fa, dall’altro riprende cronologicamente il discorso interrotto con “Egypt Station”. “McCartney III” è un disco eclettico e le circostanze da lockdown forzato che circondano la sua creazione contribuiscono a produrre temi lirici e musicali ricorrenti che gli conferiscono un costante filo conduttore.
In un modo o nell’altro, tutto si adatta perfettamente.
“Long Tailed Winter Bird” è l’introduzione perfetta per un disco così libero e avventuroso. Uno strumentale tutto girato intorno a un riff di chitarra in loop, con un synth che funge da fanfara, un basso trainante non troppo dissimile da “Kill All Hippies” dei Primal Scream. Il lo-fi pop di “Find My Way”, esalta la sua reputazione di maestro delle quattro corde, un basso propulsivo su un suono di batteria bizzarro che conferisce al brano una certa sensazione di ossessiva ripetizione. Oltre alle chitarre sovraincise e ai cori stile Electric Light Orchestra, richiama alla mente la giocosità dei Blur, mentre ottoni elettronici aggiungono tocchi alla “Diamond Dogs”. La rilassata “Pretty Boys” non si spinge troppo oltre il tipico percorso sentimentale di Paul (Meet the Pretty Boys/A line of bicycles for hire/Objects of desire/Working for the squire/You can look but you’d better not touch), eppure è probabilmente l’offerta più delicata del disco. Gli schemi acustici ricordano l’introduzione a “The Song We Were Singing” da “Flaming Pie”, ma sormontata da tastiere che rimandano a “For No One”. Un leggero tocco dolce amaro alla nostalgia, con testi che sembrano osservare i modelli maschili degli anni Sessanta forse gli stessi Beatles nella loro giovinezza.
C’è una maturità più evidente della voce, in un modo similare a quello dell’ultimo Johnny Cash delle “American Recordings”. Una voce splendidamente invecchiata può fare cose che le voci più giovani possono solo cercare di imitare. Impregnata di saggezza, esperienza e senso del vissuto, è il suono dell’età che avanza e può evocare la vulnerabilità umana nella consapevolezza della sua mortalità. L’emozionante “Women And Wives” è più drammatica, solenne eppure edificante (When tomorrow comes around/You’ll be looking at the future/So, keep your feet upon the ground/And get ready to run). Interpretando l’invecchiamento nella sua voce e assaporando il ruolo di un vecchio bluesman (Leadbelly?), l’arrangiamento necessita solo di un pianoforte, di una batteria appena spazzolata e di un basso dal sostegno verticale. Un richiamo ad abbracciare persone care, sobrio ma grandioso nella sua qualità e potenza (Now hear me mothers and men/Hear me sisters and brothers/Teach your children and then/They can pass it to others/Some of them may borrow/Tales you handed down/Chasing tomorrow). Viene da una direzione completamente opposta “Lavatory Lil”, un blues rockabilly, suonato con una Telecaster del 1954, per un puro divertimento (Watch out for Lavatory Lil/She says it’s hunky dory/When she’s telling you her story/But she really thinks you’re making her ill). Sarebbe stata bene sul “White Album”.
Solo un musicista versatile come Paul poteva far seguire a una canzone del genere con qualcosa di straordinario come “Deep Deep Feeling”, un’epica mutaforma della durata di otto minuti. Ogni secondo è necessario e ogni suono è collocato perfettamente. Anche in questo caso, è il songwriting e l’istinto costruttivo che crea qualcosa di straordinariamente contemporaneo a partire dalla batteria, da quei tocchi di pianoforte e dalle claustrofobiche tastiere (Now every time it rains/It sometimes gets too much/You know I feel the pain/When I feel your loving touch). Un blues hip hop postmoderno che dispiega le sue strane, bellissime ali e s’immerge completamente nell’atmosfera che crea, trasformandosi nel finale nel ritornello strimpellato di una chitarra che avvolge il tutto.
“Slidin” s’introduce in un riff. È il genere di cosa che ci si aspetterebbe dai Queens Of The Stone Age, ma, qui, McCartney coinvolge anche gli altri musicisti. Paul e band armonizzano quel riff con breakbeat di tamburi e altre chitarre facendolo a pezzi con l’estro di una finale melodia. È l’opposto della bellezza organica di “The Kiss Of Venus”, che è un canto aperto all’ombra di un albero o sotto la volta di un cielo stellato (And in the sunshine/When we stand alone/We came together with/Our secrets blown/Now moving slowly/We circle through the square/Two passing planets in the Sweet, sweet summer air). Quel suo falsetto, pietra angolare della nostra storia, scoglie la melodia con l’aiuto di una chitarra acustica. Quell’aggancio ottimistico che si ritrova in “Seize The Day”. Ci sono echi di “Hello Goodbye” forse un accenno di “I Am The Walrus” nella batteria. Nel bridge, così simile ai Beatles è facile pensarlo con la divisa della Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepper, che intona un pianoforte dai colori psichedelici (I bless the day/When you came into my life/And I could finally roll back the blind/You helped me to realise/Love was the greatest prize/I only had to open my mind/Seize the day/Seize the day). Un brano che suonerebbe pura parodia nelle mani di un altro artista, ma qui il richiamo della canzone a “cogliere l’attimo” è un promemoria per i nostri tempi.
Il groove R&B di “Deep Down” è un ancora basato su variazioni vocali ripetute e su uno suono di chitarra. La frequenza e il groove tengono l’ascoltatore bloccato in un mix di funk dark, quasi jazzato. Dopo una breve reprise del brano d’apertura “McCartney III” si chiude sulle note nostalgiche di “When Winter Comes”, una registrazione del 1993. Un’elegia della vita rurale, dello scorrere del tempo e il suono di un Paul più giovane offrono un momento di dolce introspezione che fa quasi sorridere (When winter comes/And food is scarce/We’ll warn our toes/To stay indoors/When summer’s gone/We’ll fly away/And find the sun/When winter comes). È lui che ricorda quel periodo. Dipingere il tetto, riparare gli scarichi, aggiustare il recinto, qualsiasi cosa. Voler solo piantare delle verdure per la sua famiglia e vederle crescere (I must find the time to plant some trees/In the meadow where the river flows/In time to come they’ll make good shade for some poor soul/And find the sun/When winter comes). Anche se registrato a ventisette anni di distanza dal resto dell’album, la sua aggiunta è una istantanea del passato riportata alla luce che dà ancora più contesto a questo disco dalla bellezza così accidentale.