The Strokes – The New Abnormal (RCA, 2020)
Non credo che in questo 2020 sia stato pubblicato un disco con un titolo più profetico di questo, eccezione fatta per il There is No Year degli Algiers.
The New Abnormal è uscito il 10 aprile il giorno in cui la John Hopkins University dichiarava che lo Stato di New York aveva più casi di contagio di ogni paese al di fuori degli Stati Uniti. La città da qualche settimana era in situazione di chiusura progressiva.
Il titolo del disco nasce da una citazione del governatore della California Jerry Brown in riferimento agli incendi sempre più ripetuti nella Los Angeles area ed era già stato reso noto a febbraio.
Il suo essere, seppur coincidentalmente, perfettamente sul pezzo è la ciliegina sulla torta di un ritorno in grande forma della band di Brooklyn che, parere strettamente personale ma a quanto mi risulta abbastanza condiviso, ha dato vita quasi vent’anni dopo al solo disco in grado di competere con il memorabile esordio uscito, altra coincidenza, a ridosso del crollo delle torri gemelle in una città allora come ora oltremodo ferita.
Parrebbe che gli Strokes abbiano un sesto senso per pubblicare dischi importanti in momenti cardine non solo per New York City ma per l’intero mondo.
Del resto, che lo si voglia o no, pare inevitabile che ciò che di grave accade nella grande mela abbia qualche ripercussione nel resto del mondo.
La copertina rinnova ancora una volta il legame con la città attraverso l’opera Bird on Money di uno dei suoi figli più rispettati: Jean Michel Basquiat.
Ma sarebbe sterile parlare di questo disco soltanto per queste ragioni.
Il sottoscritto non ha mai avuto una passione divorante per gli Strokes, nemmeno al tempo di Is This It quando furono portati in palmo di mano come ennesimi salvatori del rock. Tuttavia apprezzai parecchio la ruvida allure di quel disco per poi restare regolarmente deluso ad ogni tentativo successivo, se si eccettua qualche pezzo del secondo Room on fire.
Per questa ragione ritrovare un contatto così appagante con i brooklyners è stata una progressiva sorpresa man mano che mi ritrovavo con le melodie di Casablancas inchiodate negli anfratti della mente una dopo l’altra.
Nove brani senza cadute, senza filler, in un album che pur rinnovando con efficacia, e con qualche prestito da altri artisti, la loro verve pop nei pezzi più veloci che riempiono la prima parte, trova la propria consistenza e solidità nelle ballate che si fanno più frequenti verso il finale. L’afflato emotivo delle melodie di “At The Door”, “Not The Same Anymore” e “Ode To The Mets” è tale da toccare corde che la band non era mai riuscita precedentemente a sfiorare. Ed in mezzo tra questi due estremi a fare da cerniera ci sono il soul disco pop di “Eternal Summer” in cui Casablancas gigioneggia efficacemente tra falsetto e ringhio e la “Why Sundays Are So Depressing” il cui drive mid-tempo ed il memorabile riff che riempie gli incisi dipingono con grande nitidezza l’innegabile verità contenuta nel titolo.
La produzione di Rick Rubin non si distacca troppo dal blueprint del primo disco in termini di asciuttezza della sezione ritmica ma in fase di arrangiamento la palette timbrica si fa più ricca rinunciando in varie occasioni anche alle chitarre e costruendo sfondi sui quali, protagonista assoluta, si erge la voce di Casablancas espressiva come non mai nel mettere a nudo sentimenti spesso molto intimi.
Il modo in cui le composizioni pezzo per pezzo si consolidano man mano che gli ascolti procedono mi ha colto totalmente di sorpresa considerato il grado di prevenzione con cui ero partito.
È stata forse, in termini musicali, la sorpresa maggiore di questo 2020 del tutto anormale.