Nella “Violenza della Luce”: intervista e recensione al nuovo album di Gianluca De Rubertis
Spesso mi faccio colpire da elementi che – a prescindere dall’intima bellezza che possono o meno avere – hanno un particolare interessante: un riflesso, un tono, una sensazione inconsueta che desta i sensi, intorpiditi da una temporanea mancanza di stimoli, oppure sovraeccitati dall’opulenza percettiva di altri momenti. E’ come se in quegli attimi ci fosse un’improvvisa scarica che rimette nel giusto ‘fuoco’ la visione delle cose, ridando luce laddove non ve n’era più, oppure cortocicuitando il sistema e così smorzandone l’intensità perché eccessiva.
Luce fisicamente metaforica, ma intimamente reale: un andirivieni che spesso si palesa nella vita di ognuno di noi. Siamo spesso portati a pensare che la situazione peggiore che possa capitarci sia quella in cui tutto ci appare buio perché assente di luce: ma anche il suo esatto opposto – del genere che potremmo definire come “abbacinamento” – può costringere il nostro animo ad una temporanea cecità. E d’altra parte, l’abbacinamento era proprio questo: un antico supplizio che costringeva per sempre al buio coloro i quali vi venivano sottoposti. Ma proprio nel buio, come estrema conseguenza di una luce violenta e improvvisa, è nascosto un “potere maieutico” che talvolta ci consente di “raggiungere una presa di coscienza insperata”.
Questo almeno stando alle parole di Gianluca De Rubertis, che ha da pochissimo dato “alla luce” il suo terzo album solista, il cui titolo per l’appunto – “La violenza della luce” – vuole proporre, al tempo stesso, un monito e una soluzione ai problemi di visione tipici dei nostri tempi e che, in momenti di ‘chiusura’ come quello presente, diventano ancor più pressanti.
“Questo disco intravede la sua luce in uno spazio-tempo molto rapido, violento e critico. Quelle buie cupole in cui a volte incappiamo ci danno la possibilità di scoprire quanto il chiarore possa esserci sfuggito, lo avevamo dimenticato quel chiarore, percorrendo innumerabili strade fuligginose e affondando i tacchi in continue pozzanghere”.
Con alle spalle un passato piuttosto importante nella musica italiana Pop autorale degli ultimi vent’anni – tra le prime esperienze fatte nella ‘famiglia allargata’ (nel vero senso del termine) di matrice indie-pop degli Studiodavoli, il ben più conosciuto duo de Il Genio, e l’attività da solista che va avanti ormai da circa otto anni, con due album già incamerati e un terzo in uscita – De Rubertis pubblica il suo primo album con una major (la Sony Music) compiendo quel passo che normalmente indica, in un’artista, la svolta della maturità e del raggiungimento (o della ricerca) di un successo di fatto più allargato.
Dopo gli scherzosi complimenti fatti al mio “perfetto riassunto” qui poco fa riportato, Gianluca non riesce a nascondere una certa soddisfazione per il percorso che l’ha portato ad un album che si può davvero definire completo, interessante, molto intimo e curato nei testi almeno quanto equilibrato e ricercato negli arrangiamenti e nella costruzione musicale.
G.D. “Si, grazie. Le canzoni di questo album, io credo, vivono quasi tutte di una stessa vita, è un concept album privo di concetto, non lo è per definizione ma potrebbe esserlo per elezione. Alla base c’è questo. L’equilibrio tra una scrittura che riuscisse elegante e densa e una semplicità più prettamente “pop” non è stato assolutamente ricercato ma si è palesato, questa volta, in maniera del tutto automatica, a vantaggio di una cifra che sento più personale”
Ed è da qui che la conversazione passa a farsi intervista: in realtà quasi un viaggio, che dalla sua produzione complessiva arriva poi all’argomento per il quale ci siamo sentiti al telefono.
S.C. :“Molti qui in Italia ti conoscono per la tua musica de Il Genio e, ovviamente, hanno appreso chi sei ascoltando le note di “Pop Porno”: una canzone che in gergo viene definita “tormentone” e che nel 2008 canticchiavano praticamente tutti (me compreso), anche chi si professava metallaro convinto. Ad alcuni artisti dispiace un po’ essere individuati soprattutto per alcuni specifici brani, sempre richiesti ad ogni occasione: a te che effetto ti fa essere associato soprattutto a quel pezzo da coloro i quali ti conoscono poco?
G.D. : “No guarda, io su questo sono assolutamente tranquillo. E’ farina del mio sacco, ed è una cosa che abbiamo fatto con Alessandra (Contini, voce e basso del duo. Ndr) perché ci credevamo, lo abbiamo fatto volentieri e in più questa canzone ci ha portato un sacco di fortuna. Per cui non nutro nessuna avversità nei confronti di quel pezzo. Una ritrosia di alcuni artisti o gruppi nei confronti di certi loro brani molto famosi che, a mio parere, lascia un po’ il tempo che trova. Perché tanto alla fine è il pubblico che decide, nekl bene o nel male.”
S.C. :“Un pezzo che in effetti, ai tempi dell’uscita, sentivo canticchiare anche a certi convintissimi metallari. Con Alessandra, in effetti non vi siete mai propriamente “divisi”, ma più che altro avete seguito strade diverse. Conti di tornare prima o poi a fare musica con lei, sotto il vecchio nome del vostro sodalizio?
G.D. : “Ah guarda: chi può dirlo. Non c’è nulla di programmato: anche lei ha fatto uscire un disco solista lo scorso anno, ma non ci siamo mai posti il problema. Non è detto che in futuro non se ne possa parlare”.
S.C. :” Ti ci ritrovi nella definizione di “Indie Italiano”, che spesso viene accordata alla tua musica e al tuo stile musicale? Te lo chiedo perché spesso qui da noi questo genere di definizione viene appiccicato un po’ tanto sbrigativamente a tutti quegli artisti o gruppi che stanno in posizione più o meno baricentrica rispetto a rock, pop e musica leggera. Tu che definizione le daresti?”
G.D. : “Le definizioni di solito le danno chi recensisce la musica o chi la deve vendere, non esattamente chi ‘la fa’. Credo che la definizione di ‘Indie’ sia stata sempre un po’ abusata, o al più usata male: non è mai stato un genere, ma soprattutto raggruppava quelle realtà non considerate ‘commerciabili’ dalle grosse etichette, e quindi pubblicate da realtà molto più piccole con budget certamente meno importanti. E’ un termine che secondo me riguarda più le case discografiche che non il tipo di musica che un artista scrive.”
Ed, in effetti, la musica che si ascolta ne “La violenza della Luce” non risulta perfettamente ascrivibile ad un solo e specifico genere. Se dobbiamo proprio collocarlo da qualche parte – facendo pertanto il pedissequo lavoro dei recensori musicali – lo potremmo inserire all’interno del marco cosmo della Pop music italiana, dal lato di quegli artisti che – sulla direttrice che da Tenco arriva ai Baustelle, passando dalle parti di Ruggeri e Finardi – tentano di costruire musica di sostanza melodica e di ricercatezza testuale, senza debordare in ambiti attualmente di moda.
Barbara Bottoli, sulle pagine di Mescalina, parla di “testi impattanti e sonorità riconoscibili”, che individuano subito la sua musica tramite stilemi riconoscibili e a lui consueti. Ma, ben oltre i suoi due primi album – “Autoritratti con oggetti” del 2012 e “L’universo elegante” uscito nel 2015 – pare davvero provare a ricercare una più immediata connessione morale e contenutistica con se stesso, senza essere troppo autoriferito o – per dirla con le sue parole – “senza prendermi la briga d’essere la parafrasi di me stesso”.
Una più cosciente volontà di andare oltre la faccia immediata delle cose, per provare a capirne meglio l’essenza: uno scarto totale dalla poetica non solo di “Pop-Porno”, ma anche da quella degli album precedenti, indice di un cambiamento e di una crescita artistica e, certo, anche anagrafica.
G.D. :“Pop-Porno mi piace ancora, certo; ma ovviamente sono nel frattempo pure cresciuto. Si diventa grandi, poi vecchi e poi morti (non senza riderne sarcasticamente nel tentativo immediato di esorcizzare quanto appena detto, ndr). Cambia il modo di guardare le cose, cambiano gli oggetti, cambia tutto, anche il banale modo di fumare una sigaretta. Figurati se non cambia il modo di pensare una canzone.”
E questo cambiamento si nota subito, anche a partire da quella “Voi, mica io”, prima traccia dell’album in cui al ‘Voi’ insistita ripetizione a cui ascrive tutti i mali della rabbuiata società moderna sottolinea un “Io” distante e appartato a cui – altrettanto tagliente e piatto – ascrive alla fine quasi gli stessi delitti di tutti gli altri, tranne quella cecità autoriflessa che, in effetti, continua a distinguerlo.
E da quel brano in poi, per tutto il percorso tracciato dalle otto tracce che ne compongono l’impianto, De Rubertis dipinge a colpi di luce sempre più vivida i tratti di una società fatua e priva di sostanza da cui di certo – prese le dovute distanze – non cerca mai di sottrarsi o estraniarsi; passando dal desiderio di sentirsi unico in mezzo ad una moltitudine di egoiste anime solitarie – immerse in quelli che sono di certo rapporti masturbatori di coppia – narrate in “Solo una bocca”, attraversando la realtà di “Versateci del vino”, fatta di automi in cerca di contatti sociali all’interno di uno schermo retroilluminato da pochi pollici. Per arrivare a “La violenza della luce”, title track che – con asettica analisi – partendo dalla visione degli errori di uno solo (se stesso?), e ritrovando in essi tutte le storpiature ed errori di un mondo in cui l’unica luce che taglia la realtà pare essere quella dei pollici di un cellulare o di uno schermo di un PC, si intravede un bagliore di redenzione al di fuori della singolarità dello “spazio siderale” del “Me”, nella luce più violenta che ci sia: quella dell’amore.
E in effetti, in un impianto che trova nelle contrapposizioni dicotomiche (“Io\Voi”, “Io\Te”, “Luce violenta\Buio”) la chiave corretta di lettura\scrittura di un album analitico ma non completamente cupo, chiudere tutto con la citazione speranzosa dell’amore è un modo ironico per anestetizzare un po’ il tutto: anche quell’ultima “Dimmi se lo sai”, in cui ancora la dicotomia delle categorie generali “Male\Bene” si può sintetizzare e superare nel discorso fatto a quell’amico\fratello a cui si può anche dire che “Sodoma cadrà”, mentre ci si domanda cosa sia davvero il “male”.
Tra le parole ricercate e mai banali – né mai eccessivamente semplici – di questo album, si riconosce il volto di un artista dalla personalità accurata: con buona soddisfazione della sua vecchia professoressa di lettere delle superiori, a cui va uno degli ultimi pensieri della nostra conversazione telefonica, in mezzo alla citazione di un giovane ma già promettente artista come Mahmood – che non ti aspetteresti, ma che in effetti ci sta, e che lui tira fuori dal cappello quando chiedo di citarmi un album\artista recente che l’abbia veramente colpito – e quella della ‘Signora Felicita’ di gozzaniana memoria laddove – prima di salutarci – gli chiedo che cosa ami De Rubertis della Musica: che – nei suoi desiderata – è “l’essere amati nella propria concezione della musica, perché in essa, chi l’ascolta, si riconosce come parte”.
La musica come uno specchio, anche col pericolo (o il vanto, appunto, per dirla alla Gozzano\Signora Felìcita o Felicità) di non essere compresi.
Questione di luci ed ombre: ma tutto poi sta a dove vi volete esattamente trovare.