Tom Petty is 70, Wildflowers & All the Rest.
Circola un video amatoriale che riprende l’ultima esecuzione di American Girl eseguita alla fine dell’ultima data dell’ultimo tour che Tom Petty fece con gli Hearbreakers. Guardarlo fa malissimo perché è impossibile non notare la fatica che il cantante faceva per reggersi in piedi a causa del dolore provocato dalla gamba fratturata. Il tour fu eroicamente portato a termine ma una settimana dopo Tom ci rese orfani per un’overdose accidentale di antidolorifici. Proprio ieri uno dei più grandi tenutari del sacro codice del Rock’n’Roll avrebbe compiuto settant’anni ed è superfluo sottolineare quanto manchi a tutti noi.
Nelle interviste rilasciate negli anni immediatamente precedenti alla prematura scomparsa Tom Petty raccontava spesso dei vari progetti che lo vedevano impegnato. Tra i più intriganti per noi fans c’era la riedizione di “Wildflowers” come era stato originariamente concepito e la volontà di farne seguire una tournee dedicata che prevedeva il coinvolgendo di vari ospiti.
“Wildflowers” fu un disco molto importante nella carriera del rocker di Gainsville e per molti appassionati rappresenta il suo capolavoro. Il suo secondo album da solista (anche se gli Heartbreakers compaiono in quasi tutte le tracce) dopo l’enorme successo di “Full Moon Fever”, fu il frutto di quasi due anni di lavorazione ed ebbe l’onore di inaugurare il nuovo contratto con la Warner Bros. Fu anche il primo parto della collaborazione con il grande Rick Rubin. Il sodalizio continuò per altri due dischi per poi sfociare nella realizzazione degli album delle American Recordings, quelli che rappresentarono la rinascita artistica di Johnny Cash.
Il disco uscì nel giorno di Halloween del 1994 in un periodo piuttosto tormentato della vita del cantante. I problemi derivanti da una dipendenza che stava diventando sempre più seria, la stessa che affliggeva in modo già molto più grave il suo bassista e amico Howie Epstein e le avvisaglie della separazione dalla prima moglie si riflessero unicamente sui testi mentre, a detta dello stesso autore, a livello compositivo e musicale egli si “sentiva al massimo della forma”.
E lo era davvero, basta riascoltare l’album originale che è stato appena ristampato in questi giorni. Un disco dalle molte sfaccettature stilistiche, rappresentativo delle mille influenze musicali di Tom e assemblato con una track list dall’andamento molto ondivago, dove a brani dalla struttura molto robusta erano abbinati ad altri contenenti i passaggi più intimi e delicati mai proposti in precedenza, sintomatici di uno stato d’animo che in quel momento era pervaso da sentimenti di nostalgia per il tempo passato e le incertezze del futuro. Anche musicalmente il disco suona come un tributo agli artisti del passato che contribuirono alla sua formazione musicale e che resero immortale un certo modo di fare musica, ma si avverte anche la voglia e la necessità di evolvere il proprio modo di comporre ed arrangiare cercando di guardare avanti. Ne scaturì un disco bellissimo e imperfetto che si apriva con la title-track, un meraviglioso equilibrio di chitarre acustiche, spazzole leggere, un pianoforte a ricamare e un leggero arrangiamento orchestrale.
Seguiva You Don’t Know How it Feels, uno dei suoi pezzi più famosi, con una stesura tra Dylan e Neil Young, si faceva notare per la bellezza delle parti di armonica e del piano elettrico in aperto contrasto col suono possente della cassa e del rullante della batteria suonata da Steve Ferrone che proprio da questo album entrava a far parte degli Heartbrakers. Poi si tornava ad atmosfere più eteree con Time to Move On, che aveva la leggerezza di una nuvola a cui facevano seguito i muscoli di You Wreck Me, che con quel fantastico assolo di Mike Campbell dal vivo era una vera bomba. Pezzo centrale dell’album, che piaccia o meno, era Good to Be King, sontuoso brano caratterizzato da un’importante arrangiamento d’archi ad opera di Michael Kamen in grado ancora oggi di far storcere il naso ai puristi del rock ma regalare emozioni autentiche a tutti gli altri ascoltatori per la sua grande eleganza.
In una scaletta che vi invito a (ri)scoprire, svettavano altre bellissime canzoni come il potente hard rock al limite del garage di Honey Bee, una Crawling Back to You che avrebbe potuto appartenere ai Fleetwood Mac californiani e una Cabin Down Below a quelli di Peter Green, e una A Higher Place con le Rickenbacker a 12 corde sospese tra Beatles e Byrds. E poi altre bellissime canzoni che omaggiano ora i Beach Boys ora il folk inglese e quello a stelle e strisce.
Una meraviglia magicamente assortita, lo avrete inteso.
Nei giorni passati un post letto sui social chiedeva che cos’altro si sarebbe potuto aggiungere a un album così. Conoscendone la storia tantissimo, per quanto mi riguarda.
Tom Petty presentò con grande orgoglio il lavoro agli AR men della WB sotto forma di un doppio cd formato da 25 canzoni. Gli fu però consigliato di dargli una sforbiciata data l’enormità della proposta, per renderlo più vendible. L’artista ci rimase un po’ male ma alla fine cedette alla richiesta e presentò un album composto da 15 brani su un cd (o doppio vinile) che la storia ci dice riuscì nell’impresa di vendere 3 milioni di copie solo negli Stati Uniti.
In molte interviste fatte al suo autore negli anni successivi, Tom Petty ha sempre manifestato grande affetto verso quell’album e più volte palesò l’intenzione di ripubblicarlo nella sua versione integrale, chiamando a raccolta quelle canzoni che, una volta riarrangiate, affiorarono nei dischi successivi, per la maggior parte ospitate soprattutto nella colonna sonora di “She’s the One” del ‘96 e in “Echo” magari affiancandovi quelle rimaste completamente inedite. Dopo anni passati a dare forma al progetto e, soprattutto, a risolvere beghe legali (si sa, quando vi sono eredità – artistiche e non – importanti di mezzo ci sono sempre dei casini) la versione completa di Wildflowers è arrivata sul mercato sì in ritardo di in un anno per il venticinquennale della sua uscita, ma giusto in tempo per festeggiare il settantesimo compleanno del suo autore.
La versione espansa del disco si intitola “Wildflowers and All the Rest” ed è la materializzazione di un sogno per tutti gli appassionati del biondo rocker.
Per la gioia dei feticisti del vinile c’è finalmente la possibilità di mettersi in casa il disco su quel supporto dato che le rare stampe originali avevano ormai raggiunto prezzi allucinanti. Al doppio album originale si somma un intero disco di dieci brani composto dagli inediti rimasti nei cassetti e dalle versioni originali registrate per Wildflowers ma confluite nei dischi sopracitati. Tutta roba deliziosa per palati fini che trova i suoi massimi vertici in una meravigliosa Leave Virginia Alone che viene da immaginare cantata da Roy Orbison in uno dei dischi dei Travling Wilburys, nell’autobiografica Harry Green e in una versione alternata di Hang Up and Overdue che evidenzia ancora di più l’amore che Tom nutriva per i Beach Boys, forte di un notevole cameo di Carl Wilson nel finale evidenziato dal nuovo mix e della presenza di Ringo Starr alla batteria.
Dubito fortemente che gli appassionati si accontenteranno di un solo album di inediti, e infatti a nostra disposizione c’è la versione Deluxe composta da 4 cd (o 7 dischi in vinile) che amplia ulteriormente il repertorio. Il terzo cd è occupato dalle Home Recordings, ovvero 15 brani registrati nel suo studio casalingo ed è forse questo il vero gioiello del box.
Sono qui presentate allo stato embrionale alcune delle canzoni che sono state poi arrangiate e completate in studio, e altre che sono finora rimaste inspiegabilmente inedite. Altro che versioni demo, qui tutto suona estremamente professionale al punto che il disco avrebbe meritato un’uscita a sé stante perché dotato di una sua forza singolare: credetemi, sembra di ascoltare una via di mezzo tra “Nebraska”, “Harvest Moon” e “Nashville Skyline” e una canzone come There Goes Angela (Dream Away) da sola ne giustificherebbe l’acquisto. L’ultimo cd della versione Deluxe è un collezione di brani di “Wildflowers” (più Walls) eseguiti dal vivo e registrati in diverse venue ed è molto divertente da ascoltare. C’è un’ulteriore versione del Box che presenta un quinto cd reperibile solo sul sito del musicista o quello della Warner americana, contiene altre versioni alternate, e, purtroppo, Girls on LSD e la versione in studio di Drivin’ Down to Georgia reperibili altrimenti solo nella versione di 9 dischi in vinile dal costo elevato. Gli unici appunti vanno rivolti all’esagerata diversificazione dei supporti e al costo esorbitante per avere tutti i 70 brani. Per il resto, nella sua versione più estesa il minutaggio totale super le cinque ore, il libro allegato contiene delle note molto esaurienti sulla realizzazione dell’album e ogni brano è descritto minuziosamente dai protagonisti, la grafica è le foto sono molto gradevoli e il complimento migliore risiede nel fatto che ogni sua sezione potrebbe vivere di vita propria meritandosi una pubblicazione separata. Un po’ come succede con gli archivi di Neil Young o con le Bootleg Series di Dylan.
E poi c’è il suono: “Wildflowers and All the Rest” è stato realizzato con il supporto dei vecchi compagni della band Benmont Tench e Mike Campbell, insieme alle figlie di Petty, ed è stato prodotto da Ryan Ulyate collaboratore di Tom Petty dal 2004, già responsabile di quel miracolo sonoro che fu il “Live Anthology” del 2009, della splendida raccolta di classici e inediti “American Treasure”, nonché della rimasterizzazione di tutti gli album dell’autore americano.
Se già l’originale suonava molto bene, questa nuova versione ha il pregio di rendere il suono ancora più vivo e presente per la grande cura che è state riservata alla dinamica e alla ricchezza del dettaglio senza andare contro al notevole senso di naturalezza. La sensazione di venire trasportati ora a fianco di Tom stesso mentre registra a casa sua e poi dentro a quei magnifici studi che sono gli Ocean Way e, soprattutto dentro a quelle leggendarie pareti che contenevano i mitici Sound City Studios di Los Angeles (cercate il documentario curato da Dave Grohl, è meraviglioso), è davvero impressionante.
Ryan Ulyate possiede, oltre a un grande orecchio e al gusto di fare le cose per bene, l’autorizzazione della famiglia di poter rovistare tra centinaia di materiale originale e registrazioni live, mettervi mano e proporlo per la pubblicazione.
Per “Wildflowers and All the Rest” è stato fatto davvero un gran bel lavoro e credo che in un futuro non troppo lontano avremo modo di ascoltare altre cose molto succulente provenienti da quegli archivi.