Viaggiando lungo il fiume: 40 anni di “The River”.
“Babam, sdeng, sdeng… nana-nananana-nanà”…: se avete canticchiato l’intro di The Ties That Bind, allora il mio tentativo onomatopeico è andato a buon fine.
Era il 10 ottobre 1980 quando un’ulteriore porzione di rockers si aggiungeva ai fan della prima ora, lungo la strada che avrebbe condotto un caparbio ragazzo della provincia americana allo stardom: “The River” sarebbe stato l’album che avrebbe convinto gli scettici e consentito al sottoscritto di far conoscere Bruce Springsteen alla cerchia di amici non ancora “illuminati”, quelli che non avevano avvicinato “Darkness On The Edge Of Town” perché quella copertina pareva “una di quelle di quei tossici newyorkesi “che gravitavano intorno al CBGB’s (non troppo amati nel mio circondario), né avevano considerato “Born To Run“, in quanto considerato “barocco” da certa critica (e figurarsi i precedenti).
Ma stavolta c’era qualcosa di diverso: lo sguardo in copertina era impercettibilmente meno imbronciato, meno insicuro, più determinato; al posto della maglietta consunta, una camicia a quadri che gridava “rock and roll!“, come quelle di John Fogerty; la grafica, azzurra sulla foto in b/n, era quasi festosa, paragonata agli angosciosi caratteri battuti a macchina del precedente.
Ed era doppio, per giunta. Ma un doppio inserito in un’unica copertina, non apribile come quelli cui eravamo abituati dai tempi di “Blonde On Blonde“. Ancora incellofanato, te lo rigiravi tra le mani chiedendoti il senso di quelle figurine matrimoniali che campeggiavano sul retro, rendendo difficile leggere i titoli.
Poi lo aprivi e le custodie interne erano un florilegio di vita urbana anni 70, quelli che si stavano concludendo proprio da lì a meno di tre mesi (almeno, così è per quelli che considerano i decenni dall’anno 1 al decimo).
Quella gang da strada non era trucida, ma capivi che erano dei duri e sarebbe stato difficile per chiunque aver ragione di quelle biffe, coi loro tozzi stivali che sbucavano sotto jeans ancora incerti sulla foggia: certuni nella tipica versione a zampa di elefante che spadroneggiava nel periodo che era al capolinea, mentre altri azzardavano già il revival anni 50/60, linea stretta e stivaletti a punta (come quelli di Garry Tallent, il bassista), look esploso da poco grazie a Happy Days, la serie che da non molto aveva portato nelle tranquille case della classe media quanto era stato portato nei cinema da pellicole come American Graffiti e Un Mercoledì Da Leoni (film del 1978, che in Italia sarebbe giunto con ben un lustro di ritardo) alcuni anni prima.
A queste immagini erano sovrapposte quelle riprese in studio, durante le registrazioni, nelle quali si vedeva in azione una band, non un solista con meri accompagnatori. Ci avrete fatto caso, immagino: i dischi in studio sono tutti accreditati al solo Bruce, la E Street Band viene citata in copertina solo sui dischi dal vivo. Concepibile? Sì, forse. Ma non per “The River“, a mio parere.
Ma torniamo a quell’intro di cui sopra: il suono era anch’esso inedito. Non che fosse registrato bene (per carità!), ma la chiarezza delle chitarre, più cristalline, meno nervose, e la brillantezza della batteria andavano di pari passo con la definizione di piano e organo e del sax, stavolta più funzionalmente “rock” rispetto al passato.
Quella prima canzone ti stendeva subito: esuberante, contagiosa, con un suono jingle-jangle che mai avresti associato al Boss, e che mi faceva immaginare che la chitarra usata, dal suono così differente rispetto al solito, fosse la Gretsch che appare a tracolla in una foto del collage interno, nella quale Bruce suona l’armonica.
Erano anni in cui l’album te lo studiavi in ogni particolare, mentre il vinile girava sul piatto: lo facevi tanto più con questo, iconograficamente ammaliante. Poi prendevi in mano il doppio foglio apribile coi testi (anch’esso corredato da fotografie in studio) e ti concedevi un secondo ascolto, cercando di comprendere quello che ti era sfuggito di primo acchito. Ed era a questo punto che realizzavi di stare ascoltando un racconto, uno di quelli che sentivo fare a quegli amici che per forza di cose si erano trovati a dover maturare più in fretta, quelli cui la vita aveva riservato impegno e fatica in misura maggiore rispetto ad altri. E viaggiamo assieme nel racconto, allora: salite a bordo, la Cadillac Rosa che sarà, in realtà è già qui, aperta per noi. Guido io?
La prima facciata scorre che è un piacere, tutta veloce, vivace ed espansiva, almeno fino al momento di riflessione di Independence Day.
Il ragazzo si diverte, anche se ha appena esordito dicendo di sentirsi soffocare dai legami troppo stretti, ma che non riesce a spezzare; la sua Sherry Darling, con una mamma un po’invadente che ogni lunedì li segue per raggiungere il Centro per l’Impiego, mentre a loro due non dovrebbe servire altro che quell’auto e quel paio di birre. E Big Man gioioso più che mai.
Ma non tutto va sempre per il meglio: continua a calarsi nei suoi personaggi, Bruce, parlando in prima persona ma raccontando storie diverse, come quella della donna che trascina stancamente la sua esistenza in un sobborgo operaio, come una reclusa a vita nella gabbia (non certo dorata!) di Jackson, cercando di tirare avanti come può, facendo attenzione a non desiderare di più per non ferirsi realizzando di non poterci arrivare. Rullate da sogno, ancora chitarra jangle in sottofondo, organo a riempire e una performance vocale notevole, cui si aggiunge la seconda voce di Little Steven in una delle sue migliori prove di bravura: Jackson Cage.
È un brano incazzato, questo, uno dei più duri del suo repertorio del tempo, probabilmente bisogna arrivare a Murder Inc. per ritrovare quel mood in versione elettrica, senza la pomposità controversa di Born In The U.S.A., ma il tutto è subito stemperato dall’euforia romantica e blue collar di Two Hearts, ancora condotta per mano dal sax di quell’omaccione che, guardandolo, sembrerebbe incapace di commuovere, eppure… Eppure ci sono quei due cuori, che sono meglio di uno solo, quindi prendiamoci quel che viene, baby, e assieme ce la faremo (e non so se vi capita la stessa cosa, ma quando vidi il film “Frankie and Johnnie“, in Italia “Paura d’amare“, la storia di Al Pacino – ma Bruce quanto gli somiglia, in quello scatto in copertina? – e Michelle Pfeiffer mi riportò subito alla mente questa canzone). Ancora Steven sugli scudi e chiunque li abbia visti dal vivo, lui e il Boss, alle prese con Two Hearts, potrà immaginare cosa debba essere stato assistere all’incisione negli studi Power Station.
Il momento davvero autobiografico, prima che ne arrivi uno che gli va molto vicino, è quello rappresentato da Independence Day. Qui Springsteen torna al rapporto con suo padre: è un uomo che affronta la sua vita in groppa alla gioventù, il genitore lo guarda preoccupato e nascono litigi. Il padre è lo stesso che la mattina presto si svegliava al richiamo della fabbrica, quello che nell’album precedente Bruce guardava con occhi rassegnati in Factory, osservando quello che lui non voleva diventare, soprattutto quando la stanchezza del lavoratore stritolato dell’ingranaggio routinario sembrava ammantare la casa che lo raccoglieva al rientro, spossato e incapace di vivere una vita che contemplare altro oltre alla fatica. Quel genitore sa cos’è stata la sua vita e pensa che sia inevitabile per il figlio seguire quelle orme.
Ma è il mio giorno dell’Indipendenza, papà: non possiamo dirci nulla che sia in grado di cambiare qualcosa, ognuno di noi la pensa a modo suo, domani me ne vado per la mia strada. Quel padre, però, sta morendo: rimarranno solo una casa vuota e una città deserta, ormai alle spalle.
Respiro profondo.
Cambio di lato, puntina che scende.
Il ragazzo ha il cuore affamato d’amore e d’esperienza. Un cuore che gli farebbe lasciare moglie e figli per inseguire quell’insaziabile bisogno. Ed è così che nasce una canzone pop come mai prima gli era riuscito: glielo aveva chiesto Joey Ramone, di scrivere un pezzo adatto al suo gruppo che qualche mese prima aveva pubblicato “End Of The Century“, un album prodotto da Phil Spector (un idolo per Springsteen, probabilmente il momento in cui ci arrivò più vicino), ma Jon Landau, come sempre, da “Born To Run” in poi, co-produttore del disco, quando la sentì ne comprese il potenziale e convinse Bruce a tenerla per sé, per non ripetere l’errore commesso due anni prima con Because The Night.
Canzone perfetta per essere pubblicata come singolo, Hungry Heart, e infatti finirà nella Top 5 di Billboard (l’album raggiungerà la prima posizione) e spingerà nientemeno che John Lennon a definirla la migliore dell’anno assieme alla sua (Just Like) Starting Over, proprio poche ore prima di venire assassinato. Ai cori, lo sanno anche i sassi, Flo & Eddie, ovvero Mark Volman e Howard Kaylan, membri fondatori di The Turtles (ascoltatevi almeno la raccolta “Save The Turtles: The Turtles Greatest Hits“, album pop straordinario che contiene Happy Together e la meravigliosa Elenore, da noi nota come Scende La Pioggia nella versione di Gianni Morandi), cui era vietato di utilizzare i propri nomi dal contratto sottoscritto dal gruppo d’origine, prima che i due si unissero alle Mothers Of Invention di Frank Zappa coi nomi di Phlorescent (da cui “Flo”) Leech & Eddie, e ditemi voi se c’era qualcosa che stesse più agli antipodi, sia rispetto alle Tartarughe, quanto alle Madri, del rock and roll operaio e stradaiolo del giovane (31 anni, all’epoca) Bruce. La botta di rhythm&blues che non manca (quasi) mai nei dischi del Nostro, insomma, con piano scintillante, batteria rutilante (ma quanto è monumentale Max Weinberg, in questo disco?), contrappunto fiatistico, assolo d’organo da urlo (Danny Federici, il musicista da più tempo al suo fianco) e qualche rintocco di glockenspiel, tanto per dare spazio a uno dei marchi di fabbrica del suono springsteeniano.
Sdeng!, rullata, passo spedito-ma-non-troppo.
“Mettiti il tuo vestito più bello, baby“: c’è bisogno d’altro? Un incipit che rivela già metà canzone: ti porto fuori, ragazza, perché è tutta la settimana che mi spacco la schiena al lavoro, stasera si fa festa. il lunedì mattina penso già al venerdì sera, quando la sirena suonerà e io sarò libero, libero di uscire Out In The Street, e comportarmi come voglio, camminare come voglio, parlare come voglio.
Quella strada che il personaggio successivo sta percorrendo pensieroso, quando improvvisamente si imbatte in una sventola che gli fa perdere la testa, prendendosi una cotta di quelle che stendono: “Ooh, Ooh I gotta Crush On You“, non m’importa chi tu sia, fai comunque scomparire la Venere di Milo.
E cosa può pensare un giovane educato al cattolicesimo un po’ bigotto della provincia americana, se non che bisogna guardare e non toccare? You Can Look (But You Better Not Touch) sarà un episodio che farà faville dal vivo, consentendo a Springsteen di liberare un’energia selvaggia che l’originale versione rockabilly (con quest’uomo la mia generazione avrebbe scoperto il significato di bootleg, e proprio con le versioni alternate e le outtakes di questo album) non avrebbe favorito.
In ogni caso, è il momento di prendersi delle responsabilità: I Wanna Marry You prelude a The River, ma sono due facce della stessa medaglia. I tempi sono duri, il boom economico è ancora distante per chi vorrebbe metter su famiglia o “deve” metterla su. La title track è l’altro episodio autobiografico, basato su una storia famigliare che ha coinvolto la sorella di Bruce. Il fiume, reale, metaforico, catartico e confine tra bene e male, tra amore e indifferenza, tra un “di qua” e un “di là ” dai luoghi fisici o dell’anima.
Introdotta da un’armonica che ne detta subito il tono, questa ballata rimane totemica rispetto al Grande Canzoniere Americano, anche in virtù di quelle sonorità folk (che si tramuteranno quasi in gospel nella tournée della reunion, a.D. 1999, e sarà fantastica: per me la versione più bella che abbia mai ascoltato in un suo concerto, e ne ho visti un discreto numero).
Ed ora, signori, il secondo disco.
Se c’è un momento in cui ho realizzato che stavo ascoltando un capolavoro, ebbene quello è coinciso con l’inizio di Point Blank: un ritmo quasi jazz, un pianoforte (capito perché Roy Bittan è chiamato The Professor?) che sono due, uno dei quali ripete un riff che sottolinea ogni verso, la voce che inizia mormorando e mugugnando, per poi aprirsi al ritornello, se così possiamo chiamarlo, con l’organo che lo sottolinea drammaticamente. Tom Waits sarebbe andato fiero, di un brano simile: sì, quel californiano che proprio lo stesso anno pubblicava “Heartattack And Wine“, ovvero l’album che conteneva quella Jersey Girl della quale Bruce si innamorerà fino quasi a farla sua.
La ragazza, la sua ex, non ha avuto una bella vita, la sua innocenza è stata corrotta precocemente: “ti hanno sparato a bruciapelo, proprio in mezzo agli occhi“, ma sarebbe quasi stato meglio se si fosse trattato di proiettili veri, forse avrebbe sofferto meno.
È ora di tornare a fare un po’ di casino, diamine: la vita va assaporata finché si può. E cosa può esserci di meglio di una bella gita, con babbo e zia, al Cadillac Ranch? Sul palco sarà una festa, una sarabanda infinita, con annessi teatrini studiati ma sinceri, il pubblico andrà in visibilio e la missione di riportare il rock and roll al centro della Musica potrà dirsi compiuta. In fondo, sono o non sono un rocker? Sì! I’m A Rocker, baby!
Eppure, non sono riuscito a mantenere quello che ti promettevo: hai trovato un altro uomo, uno che ti dà ciò che io non posso. Mi sembra di sparire, sai? E io non voglio. No, I don’t wanna Fade Away.
Stolen Car racconta l’ennesima storia difficile, un amore contrastato dalla miseria, economica ed umana, col protagonista condannato a viaggiare di notte, con la paura che lo sorprendano al volante dell’auto che ha rubato.
L’ultima facciata è quella che conclude il racconto.
Si apre con Ramrod, introdotta dal classico “One, two, the, four”, ripetuto due volte, un twang di chitarra e la batteria secca, sulla quale troneggia l’organo (col suono del Farfisa, in luogo del consueto Hammond B3, che fa ripiombare l’atmosfera negli anni 60, dalle parti di Doug Sahm. Ma è solo un’illusione). Il personaggio è un giovane smargiasso: “Ehi, ragazza: che jeans attillati stai indossando! Vieni a farti un giro con me”.
L’innodica The Price You Pay ricorda, attraverso il recupero di frammenti dai capitoli precedenti, che c’è sempre un pezzo da pagare.
Questo secondo disco è quello che contiene le mie canzoni preferite: dopo Point Blank, ecco Drive All Night, un pezzo che è un capolavoro a parte. Batteria lenta, il piano solenne, il basso cadenzato. L’organo e la chitarra entrano solo dopo il primo ritornello, uniti al glockenspiel che sembra arrivare da lontano, creando una cascata di note discendenti. Altra strofa, altro ritornello e subito entra Clarence con un assolo che per intensità rivaleggia con quello di Jungleland. La prima volta che l’ho sentita ho pianto: quel finale, così gridato, quella richiesta di amore, la ripetizione di heart and soul, che sette anni dopo sarebbe tornata a risuonare in una meravigliosa canzone di Willy DeVille, che avrà proprio quel titolo.
Avevo 17 anni e non potevo ancora guidare, ma era assolutamente comprensibile quello che passava nella testa del personaggio. Avevo 17 anni ma proprio poco tempo prima, mentre tornavo a casa a piedi dopo una festa tra amici, mi era successo di transitare sul luogo di un brutto incidente: non era in autostrada, ovviamente, ma il corpo di un uomo era stato coperto dagli agenti intervenuti, il che lasciava poco spazio alla fantasia. Wreck On The Highway è la storia di un automobilista che si trova in quella situazione, giungendo sul luogo di un incidente: c’è la carcassa dell’auto, c’è un uomo in gravi condizioni, ci sono sangue e vetri ovunque; l’ambulanza che arriva, soccorre il ferito ma apparentemente riparte a sirene spente.
Il protagonista, giunto ormai a un’età matura, realizza che la vita può essergli tolta in un attimo, che quella sera un poliziotto dovrà bussare a una porta e una giovane moglie, forse già madre, riceverà una notizia che anche alla sua vita toglierà qualcosa, cambiandola per sempre.
Forse è passato del tempo, spesso guarda la sua compagna che dorme: allora si accuccia accanto a lei e la stringe forte, pensando all’incidente di quella notte.
Perché alla fine dei conti, tutto quello che ci rimane è l’amore: cercato, trovato, perso e ancora ritrovato. La storia è tutta qui, in un disco che ci racconta tutto questo da una prospettiva che non è quella dei telefilm, per dirla con un termine dell’epoca: qui c’è la vita reale, quella che combatte con l’affitto e le bollette, coi soldi che non bastano mai e i rapporti che si incrinano per questo, con la crescita e la maturazione dell’individuo, la sua emancipazione, le sue settimane di lavoro che chiedono solo di chiudersi a suon di rock and roll, con la sua bella al fianco.
E Dio solo sa se ne abbiamo ancora bisogno, di queste canzoni.
(“The River” veniva pubblicato il 10 ottobre 1980)