John Cipollina, i Quicksilver e io. L’intervista impossibile. Pt. 2/3
Indiani e cowboy
Quel periodo fu al culmine della follia, ma le case discografiche avevano cominciato a interessarsi a loro, anche se non avevano la minima intenzione di firmare con qualcuno. Avevano sviluppato una sorta di mistica personale per la scelta di vivere in mezzo alla natura. Le uniche band che abitavano nella San Geronimo Valley erano loro e i Grateful Dead, che stavano in un campo estivo, il Camp Lagunitas for Boys and Girls. Al centro della proprietà avevano una grande piscina e dappertutto c’erano manufatti di artigianato, purtuttavia passavano le giornate a tirare con l’arco. Erano in pieno trip da pellerossa. Così a sette o otto miglia di distanza, mentre i Dead si divertivano con archi e frecce, i Quicksilver mettevano in atto le loro fantasie da cowboy.
“Avevamo questo roadie che non era molto bravo a portare l’attrezzatura, così lo trasformammo in cuoco e ogni sera tutte le persone che vivevano nel ranch, il gruppo, gli amici e le ragazze, ci si riuniva per mangiare e poi fumavamo fino a svenire! Ebbene, i Dead lo sapevano e pensarono che quello sarebbe stato il momento migliore per coglierci alla sprovvista. Vedi, avevo avuto un brutto alterco con Jerry Garcia: passavamo ore a discutere sui cowboy e gli indiani. Garcia diceva cose tipo: ‘i cowboy sono dei cazzoni, gli indiani sono molto più hippy, nessuno ama i cowboy, gli indiani sono groovy, voi ragazzi state con il male!’. Quando tornai al ranch quella sera, dissi agli altri ragazzi che dovevamo andare a prenderli perché avevano detto che i cowboy non erano come gli indiani, e loro dissero: ‘sì, prendiamoli!’, ma poi ci siamo sballati e ci siamo dimenticati tutto”.
Un paio di giorni dopo, avevano appena finito di cenare e se ne stavano tutti strafatti come al solito, quando all’improvviso si sentì gridare, urlare. I cani abbaiavano come dei pazzi, il lupo di John ululava, e non capivano cosa stesse succedendo. Poi la porta si aprì e tutta la famiglia dei Dead piombò addosso a loro, sbraitando, con questi copricapi colorati, sverniciati in viso come prima di Little Big Horn, pieni di acido, impazziti. Brandivano dei tomahawk e lanciavano frecce ovunque. Dino Valenti, con noi in quei giorni, essendo in parte indiano, la prese sul personale.
I Grateful Dead non l’avrebbero fatta franca.
“Due settimane dopo, dovevano suonare al Fillmore insieme ai Jefferson Airplane e fu lì che pensammo di sorprenderli”.
Il piano era indossare abiti da cowboy, maschere e pistole e salire sul palco durante il loro set. Provarono lungamente una versione da quindici minuti di Kaw-Liga di Hank Williams, volevano suonarla sul palco del Fillmore per umiliarli. Le pistole erano a salve, ma servivano a spaventarli a morte; aspettavano che finisse la prima canzone e…
Chiamarono al telefono Bill Graham e gli spiegarono cosa stavano per fare, lui disse che era una trovata bellissima e promise di non raccontarlo ad anima viva. L’idea era quella di sorprenderli e ammanettarli alle casse, perché avevano queste enormi catene che Owsley Stanley III, l’anima nera dei Grateful Dead, aveva costruito per loro. Garcia e la sua gang, ammanettati e incatenati sotto la minaccia delle pistole, si sarebbero arresi a guardarli suonare Kaw-Liga sui loro strumenti.
“Ma non funzionò. Il Fillmore si trovava in una zona del ghetto di San Francisco, prevalentemente nera, e quel giorno un ragazzo di colore aveva rotto la vetrina di un gioielliere, aveva afferrato qualcosa ed era scappato. Un poliziotto che si trovava da quelle parti gli aveva sparato e lo aveva colpito proprio dietro la testa. Il proiettile gliela aveva quasi staccata e tutto il quartiere era in rivolta. Noi arrivammo qualche ora dopo, nulla sapendo di cosa fosse successo. Potete immaginare l’effetto di una mezza dozzina di cowboy che appaiono all’improvviso fuori dal Fillmore armati di tutto punto? I poliziotti ci erano addosso prima che potessimo muoverci. Presero Jim Murray e David Freiberg e li portarono in carcere, li rilasciarono solo dopo tre giorni”.
Ron Polte ci riportò in città e iniziò a cercare un contratto discografico.
Quando vivevano nel seminterrato di Water Street, chiamavano ogni giorno Tom Donahue e gli dicevano: “ascolta, tu sei il manager di Dino e Dino dice che siamo la sua band, quindi cosa puoi fare per noi?”. Ma Valenti era in prigione e Donahue non voleva parlare con loro. Lo chiamarono praticamente tutti i giorni per tre mesi di fila ed era sempre fuori per pranzo. Giravano per casa cantando: “Donahue è fuori a pranzo, Donahue è fuori a pranzo”, che divenne un vero e proprio tormentone. Così decisero che non avrebbero avuto bisogno di un contratto discografico; avrebbe potuto interferire con la loro politica di divertimento ininterrotto ma, quando alcuni dei loro amici cominciarono a registrare dischi, le cose cambiarono.
“Gli Airplane firmarono con la RCA e tutte le altre band della zona cominciarono a guardarli da vicino, per vedere cosa sarebbe successo. Stavano decollando. Matthew Katz si occupava dei loro affari, avevano il Matrix, scrivevano, suonavano, ogni volta riempivano il Fillmore e la loro nomea si stava diffondendo, con il passaparola, in tutto il paese. Ma quando iniziarono a registrare se ne andavano in giro con certi musi lunghi. Anche i Dead firmarono, e successe la stessa cosa”.
I Quicksilver non avevano intenzione di firmare; anzi detenevano il record di concerti tenuti all’Avalon: settantacinque serate. Così, mentre se ne stavano nel loro ranch a spassarsela e a divertirsi, potevano sempre scendere in città e suonare per tirar su due soldi. In quel periodo, divisero il cartellone con Howlin Wolf e i Doors. Raggranellarono più soldi di tutti gli altri, senza andare in tour o avere un disco in uscita. Adesso però Ron Polte valutava le offerte delle varie case discografiche, inserendo nei contratti, con dello spesso inchiostro rosso, tutta una serie di clausole e, alla fine, negoziò un accordo con la United Artists, che prevedeva l’apparizione dei Quicksilver in un documentario diretto da Jack O’Connell intitolato Revolution, un calderone sulla scena di San Francisco con la Steve Miller Band e i Mother Earth. Avrebbero dovuto contribuire con due tracce alla colonna sonora, su Capitol.
La band, nel documentario, era composta da cinque elementi, ma quando venne il momento di incidere le due canzoni, Jim Murray se ne andò. I brani erano Codine di Buffy Saint Marie (un nativa americana, peraltro!) e un adattamento del vecchio standard folk, Babe, I’m Gonna Leave You.
“Ricordo quando firmammo, dopo eravamo più depressi di prima, andavamo in giro con espressioni cupe dicendoci: ‘finalmente ce l’abbiamo fatta, ma non importa, è stato divertente finché è durato’. Intendiamoci, Ron Polte è un genio non avremo mai preso in considerazione l’idea di firmare qualcosa senza chiedere il suo consiglio”.
E così arrivarono i soldi. Fecero in modo di ottenere un impianto a otto piste.
Era la prima volta che alla Capitol vedevano un otto piste.
Quicksilver Messenger Service
Le registrazioni del primo album, Quicksilver Messenger Service, iniziarono nei primi giorni del dicembre 1967 con la produzione di Nick Gravenites e Harvey Brooks e con Pete Welding al mixer.
“Il primo album è stato il più difficile perché non conoscevamo niente, non sapevamo cosa volesse dire registrare un disco. A quei tempi, quando si registrava, c’era un’enorme luce rossa, una lampadina da cento watt, che minacciosamente si accendeva. E, all’ingresso, un cartello che diceva: ‘Registrazione. Non aprire questa porta’. Ogni volta che quella luce rossa si accendeva, mi bloccavo. Mi ci sono voluti un paio di giorni per convincerli: Sbarazzatevi di quella luce!”.
Quicksilver Messenger Service conteneva Pride of Man, una canzone di Hamilton Camp e un brano di dodici minuti di Duncan e Freiberg intitolato The Pool. Rolling Stone, all’epoca arbitro di tutte le cose provenienti da San Francisco, decretò l’album troppo derivativo dal suono degli Electric Flag, ma, come detto, c’era Nick Gravenites in produzione, anche se si sperticava in lodi per il modo in cui suonava Cipollina. Il disco entrò nelle classifiche di Billboard il 22 giugno, e raggiunse il numero 63, rimanendo in classifica per venticinque settimane, un risultato migliore di Anthem of the Sun dei Grateful Dead, ma ben al di sotto di Crown Of Creation dei Jefferson Airplane e di Cheap Thrills dei Big Brother and the Holding Company.
Un po’ instabile in alcuni punti, ma comunque magnifico. Stabilirono nuovi standard per l’interazione tra le due chitarre, Gary e John si scambiavano la ritmica e gli assoli, il tono corposo e più pastoso di Duncan contrastava con la densità del suono della solida Gibson di Cipollina. Ascoltate Gold And Silver e sentirete tutto.
L’atmosfera felice dell’album scaturiva dal fatto che l’avevano registrato fondamentalmente per se stessi, nessun compromesso, nessuna concessione, solo quattro musicisti che suonavano con il cuore. Comprensibilmente, la Capitol voleva un singolo da spingere siccome l’album non conteneva alcun pezzo da Top 40, iniziarono a insistere. Nel settembre del 1968, sempre sotto la supervisione di Nick Gravenites, andarono ai Golden State Recorders per placare il capriccio della Capitol. “Se quei capitalisti vogliono un singolo, gliene daremo uno”. Le risate esplosero in tutto lo studio. Naturalmente, non avevano alcuna intenzione di abbassare i loro standard. Le uniche cose che prendevano sul serio erano le droghe, il bere, le donne e la musica; insomma massimizzavano la loro ricerca del godimento. Quindi si presentarono in Capitol con il singolo più frivolo di tutti i tempi: Bears.
“Volevano che registrassimo un singolo in un momento nel quale non eravamo ancora pronti, eravamo un po’ smarriti, ma non ricordo un momento nel quale non lo fossimo stati. Comunque, scrivemmo questa cosa intitolata Bears. Se ascolti bene, puoi sentire tutti quegli strani brusii sopra la traccia vocale; abbiamo finito il backing e poi David ha aggiunto la voce. Siamo rimasti tutti intorno a lui a fare delle smorfie idiote per farlo sbagliare. Gary masticava rumorosamente delle patatine e poi si svuotò il sacchetto sopra la testa, Nick gli soffiava nell’orecchio, facevamo tintinnare i portachiavi e ci infilavamo le dita nel naso. Alla fine lo mandammo alla casa discografica. Non so cosa devono aver pensato quando l’hanno sentito”.
Fino a quando non è apparso sulla raccolta Anthology, Bears è stato quasi del tutto introvabile, mentre l’altro lato, Stand By Me di Dino Valenti non è contenuto in nessun album e, per anni, è rimasto il più brano più raro dei Quicksilver.
Viaggi felici
Sei settimane dopo, registrarono una serie di concerti al Fillmore West e East che furono successivamente utilizzati per costituire la spina dorsale del loro secondo album Happy Trails, il disco perfetto, che ha fatto perdere la testa a tutti.
“Siamo sempre stati meglio dal vivo. Non ha senso andare in studio se non ci si diverte, abbiamo trovato una strana atmosfera quando abbiamo registrato il nostro primo album, e abbiamo deciso che il successivo sarebbe stato dal vivo”.
Happy Trails è un classico.
Uscì nella primavera del 1969. Entrò in classifica il 29 marzo e salì al numero 27, molto meglio del disco d’esordio. A parte la title track di Dale Evans, che fecero cantare a Greg Elmore con l’inganno, l’unico brano registrato in studio è Calvary.
“Calvary era la nostra interpretazione della passione di Cristo; inizia con la condanna, prosegue attraverso la via crucis e finisce con l’arrivo degli angeli sulla croce. Eravamo davvero sconvolti quando l’abbiamo concepito, ma non ho mai visto nessuno recensire quel brano come lo intendevamo noi. Quella roba lì era la nostra spiritualità!”.
Per la maggior parte delle persone, il punto culminante dell’album è l’epica versione di Who Do You Love, nella quale rubarono a Bo Diddley un R&B, anzi due – nel disco è presente anche Mona – e tornarono con il più grande brano mai uscito da San Francisco. Era il montaggio non sovraprodotto di registrazioni live che coprivano l’intero lato A del disco, erano quella “cosa” che non smetteva mai.
“Tutti quegli assoli li abbiamo registrati prima, e poi Freiberg, Elmore ed io siamo andati a Los Angeles, dove li abbiamo assemblati con i nostri otto piste, e poi abbiamo aggiunto la ritmica e le voci”.
Avevano suonato questa canzone fin dai loro primi giorni e l’arrangiamento si evolveva ogni volta; era il tour de force vocale di Jim Murray, ma da quando se n’era andato, Gary Duncan aveva preso il comando e aveva costruito sul testo di Bo Diddley quel ritmo accattivante che esplode, sempre, a orologeria”.
Descrivere Who Do You Love è come cercare di spiegare la trama di un film di Godard, scrisse un giovane Greil Marcus nella sua recensione per Rolling Stone. Improvvisamente, nel bel mezzo di quelle chitarre eroiche, arriva un interludio di urla e grida del pubblico, una sorta di cimelio dadaista. Musica oscura, improvvisata, drogata, potente e spaventosa. È il dionisiaco nietzschiano. Il canto tribale, l’urgenza primordiale.
“Sai che persino quello stronzo di Dave Marsh, sempre sprezzante nei nostri confronti, ne rimase impressionato. ‘Il gruppo ha fatto un solo disco degno di nota, Happy Trails’, scrisse nella Rolling Stone Record Guide, li cattura dal vivo, al loro apice, nelle versioni di Who Do You Love e Mona”.
Ma c’erano altri problemi.
“La band iniziò a perdere i pezzi proprio da quel momento. Gary ci lasciò non appena iniziammo a registrare, e portò via con sé tutto il suo calore”.
Sorprendentemente, Duncan si mise in contatto con Valenti, che, nel frattempo, aveva pubblicato un album solista. Alla fine, Gary e Dino decisero di formare un loro gruppo chiamato Outlaws e partirono per New York a cercare alcuni musicisti che Dino conosceva. Partirono il primo gennaio del 1969, ma tornarono una settimana dopo.
“Gary stava al telefono e mi diceva che voleva tornare insieme a Dino ma, a quel punto eravamo tutti un po’ diffidenti, pensavamo che sarebbe stato troppo difficile. Dopo Happy Trails ci siamo presi un anno di pausa”.
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