Beck – “Mellow Gold”. Di me e del mondo.
L’altro giorno stavo riascoltando dopo qualche tempo, non poi così tanto a dir la verità, l’album d’esordio di Beck Hansen del lontano o vicinissimo, dipende dai punti di vista, 1994.
E pensavo come, se avessi avuto le sue innate capacità compositive e le sue competenze musicali e tecniche sugli strumenti, avrei probabilmente composto un album molto simile a “Mellow Gold”. Da sempre un album al quale sono legatissimo, ma che non giurerei di inserire tra i miei 10 preferiti al mondo (quelli della classica lista della spiaggia deserta). Forse proprio perché mi assomiglia e a volte tendo a distanziarmi da ciò che mi assomiglia. Comunque non è importante. Quello che importa è che mi ci ritrovo tantissimo in quei 46 minuti e 57 secondi. Spaventosamente tanto. A partire dall’istant classic Loser che apre il disco. Ma chi è il perdente di cui parla Beck? In una società lobotomizzata, standardizzata come una catena di montaggio (PRODUCI, CONSUMA, CREPA!) il perdente è il diverso, quello che la catena di montaggio la fa inceppare. Non so voi, ma io mi ci sono sempre sentito. Come non ricordare le prese in giro continue alla scuole medie, la goffaggine del liceo, quel perenne senso di inadeguatezza per tutto e per tutti, quel sentirsi appartenere, in quegli anni, solo a se stessi e a nessun altro. Quel non capire la logica del più forte. Quel non capire la mancanza di razionalità del mondo. Quel non sentirsi legato a nessuna schiera. Io poi, in particolare, anche se provo a discostarmene, ho dentro di me quello che definirei “Il Complesso di Lisa Simpson”. Quel sapere che, in molti casi, quello che gli altri affermano con così tanta certezza e superficialità, in realtà non è poi così aderente alla realtà. Che ci sono delle variabili. Che non tutto è sempre giusto o sbagliato, nero o bianco, bello o brutto. Che siamo esseri complessi in un mondo complesso. Quel reagire con sarcasmo e finta superiorità per difesa. Quell’essere spesso sfidante, sprezzante, con gli altri e con me stesso. Insomma mi sono sempre sentito un diverso, ma la frase che più mi rispecchia è quella spagnola, quella liberatoria dichiarazione di sfida, di sarcasmo, di menefreghismo, quella che ti fa dire: “Sai che c’è? Sono un perdente, un diverso e quindi? Che vuoi!? Se non ti va bene uccidimi no?”: quel “Soy un perdedor, I’m a loser baby, so why don’t you kill me?” del ritornello della hit più famosa del nostro menestrello biondo americano. Da brividi dietro la schiena. Non che i successivi brani siano da meno. Sembrano usciti dalla mia penna la chitarra strascicata e il mood di Pay No Mind e Fuckin With My Head ad esempio. O l’inedia arresa di “Whiskeyclone, hotel city 1997”, “Truckdrivin’ Neighbors Downstairs e Blackhole. O le urla soffocate di Soul Suckin’ Jerk e Sweet Sunshine su base lo-fi brutta, sporca, cattiva e distorta. O Beercan. Oh cielo “Beercan”! Che tiro! Che groove! E quando arriva la voce della bambina che dice: “I’m sad and unhappy” subito dopo il giro bossanova dei fiati che lo precedono…che capolavoro! Indescrivibile a parole. Per non parlare di Mutherfucker e il suo “Hey, Mr. Asshole, what’s your dirty hassle, sitting in your castle, judging everyone”. Lo sfogo a pieni polmoni che tutti vorremmo avere contro questo mondo e i suoi padroni: sudici, sporchi e lerci nel cuore, sempre pronti a giudicare e a farla franca. In un mondo senza regole. Se non per i poveri cristi. E mai per i mutherfucker della situazione.
È un album, “Mellow Gold”, che Beck ha scritto per se stesso, in primis. Perfetto racconto della sua giovinezza come artista di strada, novello Dylan della generazione X, quella persa, senza lavoro e senza ideali di metà degli anni ‘90 del secolo scorso, ma che continua a essere simbolo dei cosiddetti Millenials o della generazione Z e, più in generale, di qualunque generazione. Perché laddove ci sono i vincitori ci sono sempre i perdenti. E anche se è vero che la storia è scritta dai vincitori, essere perdenti non è mai stato così dolce.