My Bloody Valentine – “Loveless”
Kevin Shields è davvero imprevedibile. È notizia degli ultimi giorni l’accordo commerciale con la nota marca Supreme per permettere di utilizzare le splendide cover dei dischi dei My Bloody Valentine sulle loro felpe e magliette a botte di 150/200 euro a capo. Lo stesso Shields che ha rimosso qualunque traccia dei suoi lavori da qualsiasi servizio di streaming o download digitale (su Spotify si salva solo “Only Shallow” perché all’interno della colonna sonora di un film). Lo stesso Kevin Shields che nel 2013 è uscito finalmente con un nuovo disco dopo 22 anni dall’ultimo e ne gestisce in esclusiva la distribuzione senza intermediari di sorta, ordinabile e scaricabile solo dal sito internet dei MBV. Lo stesso Kevin Shields, con la sua infinita pedaliera, che ha annullato il concerto che ero in attesa di vedere live nel 2018 a Torino al pari di come i veggenti di Medjugorje aspettano la Madonna. Lo stesso Kevin Shields che ha fatto quasi fallire la Creation Records del vecchio volpone Alan McGee pur di fare il suo capolavoro. Il suo incomparabile, insuperabile capolavoro.
Era il 1989. Era passato un anno da quando, dopo mirabili EP, uscì Isn’t Anything, il disco d’esordio della band irlandese che reinterpretava in maniera talmente personale The Jesus and Mary Chain e Sonic Youth da creare un genere. Kevin voleva alzare l’asticella sino al cielo, sino al livello più alto che un uomo possa provare a immaginare. Muri di chitarre riverberate, campionamenti angelici e demoniaci in quello spazio indefinito che è al di là del bene e del male e il cantato impercettibile di Bilinda Butcher, erano sull’orlo del burrone, tra disastro e estasi, pronti a creare arte. Mancava solo l’acme, la ciliegina sulla torta, il punto di non ritorno. Si dice che per trovarlo Shields fece spendere 250.000 sterline alla casa discografica, cambiando infiniti tecnici del suono, tanto poi alla fine faceva tutto lui, che loro erano buoni solo per portare il tè.
Ma due anni dopo il disco era pronto. Che parola dolce che è “1991” per la storia della musica. Loveless è uscito ed è un’esperienza mistica. Come altro raccontare il carico adrenalico di “Only Shallow”, la dolcezza in vena di “Loomer”, i barriti elefanteschi di “Touched”, la trascendenza di “To Here Knows When”, il risveglio di “When You Sleep”, il riff elfico di “I Only Said”, il mondo nuovo di “Come in Alone”, l’intimità di “Sometimes”, il sogno di “Blown a Wish”, il calore di “What You Want” e la liturgia giocosa di “Soon”?
Mai niente era suonato lontanamente simile a questo. Mai rivoluzione musicale fu più grande. Mai album fu più geniale. Nessun altro posto al mondo mi è più congeniale di questi 48 minuti e 31 secondi. Di rumore, di melodia, di sogno, di magia, di sussurri. Frecce nel cuore, balsamo per lo spirito, luce nel buio, fuoco nella notte, buio nelle stelle, lampo nel sole, pioggia oscura, miracolo divino, profezia avvenuta.
La stampa inglese chiamò tutto questo: “Shoegaze” e, come spesso è accaduto nella storia dell’arte (da vedere ad esempio l’Impressionismo) un termine nato come dispregiativo, sprezzante, finisce per diventare epico, ad evocare in chi lo ascolta sentimenti “altri”, difficili da non definire “religiosi” nel senso più pieno e antico del termine. Il “fissascarpe” Shields se ne stava lì a sovraccaricare le sue mille chitarre e i suoi infiniti pedali di feedback, effetti struggenti, stranianti, distorti, il tutto sommerso e inglobato in un tutt’uno di voci angeliche e sussurrate, sommerse e avvolte in una tormenta di rumori, un oceano di sensazioni, uno tsunami di emozioni, proprio come una conchiglia racchiude la sua perla e il cuore la sua essenza. Capitale umano inarrivabile da preservare per eventuali nuovi ospiti futuri di questa antica splendida mamma che noi chiamiamo “Terra”. Per far capire come dalla nostra miserabile ed esecrabile imperfezione possa sgorgare acqua di vita, possa nascere sublime meraviglia, possa scaturire pura magia.