Stereophonicamente commerciali, per fortuna! Il live milanese degli Stereophonic.
Ho provato a svolgere una ricerca sulla definizione di “musica rock commerciale”, su chi sia stato il primo ad aver coniato la medesima e sulle sue motivazioni. Il risultato non è stato affatto soddisfacente, così come non lo è la definizione in sé.
Di sicuro si ha solo la conferma unanime che quella definizione – sebbene non contenga alcun epiteto dispregiativo né alcun termine imprecativo – ha assunto negli anni una accezione deteriore e deteriorante per chiunque, appartenente alla schiera dei rockers, abbia avuto la sorte di vedersela accostata.
Ebbene, io non so se la musica di quei bravissimi quattro (più due) musicisti che vengono normalmente raggruppati sotto il felice nome di Stereophonics possa a buon diritto essere catalogata come rock commerciale, ma di certo c’è che la vendita dei loro dischi è andata sempre piuttosto bene, e che parecchie delle canzoni da loro scritte e lanciate al mondo fanno ormai parte della colonna sonora vitale di parecchie persone in tutto il mondo.
E di sicuro, c’è anche che la loro musica, ascoltata dal vivo, rasenta i limiti della perfezione esecutiva e sonora, autentico virtuosismo elettrico unito a professionalità senza sbavature, e a presenza palcoscenica semplice ma indubbiamente efficace. Alla serata di sabato scorso, in quello spazio concerti davvero mirabile che è il Lorenzini District di Milano (sonoricamente molto più efficace del Fabrique stesso, con cui condivide la gestione organizzativa), i ragazzi gallesi provenienti da Cwmaman, impronunciabile località di un migliaio d’anime incastrata tra le colline rocciose della loro terra, hanno portato in dote ben 28 anni di carriera, il loro più grandi successi e l’ultimo album in ordine di tempo, quel “Kind” uscito non più di 4 mesi or sono e che vanta al suo attivo già ben due singoli piuttosto ben piazzati nelle classifiche di vendita europee.
E proprio lì inizia la setlist della serata, da uno di quei pezzoni presenti nel loro ultimo lavoro che, per energia dell’arrangiamento e semplice linearità del testo, non può che rinfrancare la voglia d’ascolto e l’energia ballerina del pubblico accorso ad ascoltarli nella loro unica data italiana del tour: “I’m loving the weather / It’s now or it’s never / We can bust this town tonight and forever / Tonight is the night we’re leaving together“, e Bust this town pare davvero essere la canzone migliore con cui iniziare la loro performance, non fosse altro che per quel messaggio del cogliere l’attimo alla “chi vuol esser lieto sia” con cui Lorenzo il Magnifico rendeva memorabili i suoi canti carnascialeschi.
E da cantore a cantore, perchè non riconoscere anche al quarantacinquenne Kelly Jones, frontman cantante e chitarrista del gruppo, certi tratti poetici di quello stilnovismo così tanto caro allo scrittore mediceo? D’altra parte, anche nella sua musica amore e cuore gentile finiscono con l’identificarsi totalmente nel plot dei brani.
Ma pur senza scomodare i salti temporali tra scrittori e mecenati quattrocenteschi, e i rockers contemporanei, va riconosciuta a Kelly, Richard, Adam e Jamie una chiarissima capacità di passare da brani di più intimo lirismo – i classici “spaccacuore” che attraggono giovani e meno giovani adepti senza esclusione di genere – quali Maybe Tomorrow, A Thousand Trees o anche Make Friends With the Morning, a pezzi di natura pienamente rockettara quali ad esempio C’est la vie e il famosissimo Dakota, sempre eseguiti con un tiro di altissimo livello e con la dovuta perfezione che si addice spesso solo a chi alla professionalità sa unire una certa dose di cuore.
Perfezione, tiro e cuore che si sono certamente potuti apprezzare in tutta la loro interezza e complessità nella versione extended di Mr and Mrs Smith, partita con il consueto arpeggio acustico che caratterizza la versione classica da album, proseguita con il comunemente conosciuto crescendo brit-rock su cui è costruita la melodia, e terminata con un epico assolo sincopato di Jamie Morrison a cui alla fine tutti i suoi sodali – uno dopo l’altro – si sono uniti, quasi abbracciandolo in girotondo sabbatico di note e sguardi di intesa, e di fisica presenza: un accompagnamento epico a cui i fan hanno risposto con una sincronicamente meritata standing ovation.
Inanellano uno dopo l’altro tutti e ventiquattro i brani scelti dalla loro produzione, lasciando fuori dai giochi uno dei loro lavori forse più ruvidi e veloci, l’album Pull the pin del 2007, da cui non estraggono nemmeno un brano: peccato davvero per le orecchie di coloro che si aspettano un andamento live maggiormente scatenato, ma tutto sommato plausibile e condivisibile in una selezione piuttosto omogenea di brani, dal sapore spesso romantico e melodico, ma tutto sommato non monotona né tantomeno deludente a causa di questa piccola lacuna. Pochi momenti di vuoto, canzoni normalmente introdotti da Jones dal semplice titolo del brano, e solo un paio di brevi momenti di interazione non musicale con il proprio pubblico: giusto il tempo di ringraziare e ricordare che sono quasi 30 anni che alcuni di loro suonano insieme. Il resto è tutto spazio reso alla musica; la loro.
La coda del concerto è riservata però al canto libero e al pieno e disciolto godimento dei decibel che, finalmente liberi, scorrono dai jack dei loro strumenti elettrificati giù fino agli ampli attraverso i cavi ormai surriscaldati e poi via verso le orecchie, meri veicoli di spaccio per membra, ugole, mani e corde vocali. E d’altra parte, a chi mai non verrebbe voglia di ballare e urlare a pieno volume brani come C’est la vie e The Bartender and the Thief ?
Senza parlare ovviamente della immancabile e finale Dakota, in versione classica con saluti inclusi, inchini, sorrisi, e coda giocosa tra un Kelly-direttore d’orchestra dei boati, e il pubblico, ormai diventato fedele strumento di un front man che in due ore ha dato veramente tutto. E nell’unica concessione non musicale fatta al pubblico, si conclude un concerto poco perdibile e – se non epico – sicuramente poetico.
Commerciale? Se davvero lo è stato, garantitemi che almeno i due terzi dei miei prossimi concerti rock saranno così, e vi metto la firma fin da subito.