KRISTALLNACHT: Il Suono della Memoria
Birkenau 2009
(di Paola Chessa e Ettore Craca)
E’ dicembre del 2009. Sono ad Auschwitz.
Siamo un gruppo di amici tutti adulti
Abbiamo avuto parecchie perplessità nei giorni passati riguardo al portare mia figlia di quasi tre anni, in questo luogo indescrivibile. Il dubbio che covavamo era sul come nascondere, sul come distoglierla, sul come distrarla per evitarle eventuali turbamenti.
Alla fine abbiamo deciso di venire. Siamo venuti a Cracovia e quando sei a Cracovia semplicemente non puoi evitare di fare questo viaggio nell’orrore e nella storia.
Entrati nel campo di Auschwitz I riusciamo ad organizzarci con gli amici in modo da distrarla a turno mentre gli altri entrano nelle baracche in cui sono esposti i reperti, muti ricordi dell’inferno sulla terra.
La piccola, circondata da adulti che fanno gli scemi intorno a lei, non pare accorgersi di alcuna particolarità e non chiede nulla.
Nel pomeriggio ci rechiamo ad Auschwitz II Birkenau l’enorme campo ove erano costruite le camere a gas e i crematori.
La bimba esattamente nel momento in cui entriamo dalla famosa porta sotto la torre dove passavano i treni si addormenta nel suo passeggino.
Camminiamo per due ore in questo sterminato terreno che ha raccolto il sangue e le lacrime di centinaia di migliaia di uomini. Visitiamo le poche baracche rimaste in piedi in condizioni ben peggiori di quelle di Auschwitz I, le ex camere a gas, giriamo intorno ai ruderi dei crematori fatti saltare in fretta e furia dai nazisti in fuga.
Scolpiamo nella nostra mente questo chilometro di camminata lungo la rotaia alla luce del tramonto in un silenzio mortale.
E’ solo quando raggiungiamo la porta di uscita del campo, la stessa da cui siamo entrati, che la piccola si sveglia, immediatamente dopo.
Una coincidenza……forse.
Mi piace tuttavia pensare che la sua giovane vita, abbia in qualche modo scelto, in quelle due ore, di proteggersi spontaneamente dai fantasmi di un luogo che suo malgrado ha accolto e testimoniato l’inimmaginabile.
KRISTALLNACHT JOHN ZORN (Tzadik 1992)
Può esistere musica dove ci sono solo il terrore e la morte ?
Può sopravvivere al delirio dell’odio e della paura quella che è la manifestazione forse più pura dello spirito umano ?
In quarant’anni di esplorazione musicale, al di la delle testimonianze anche notevoli offerte da compositori di musica classica contemporanea, c’è soltanto un opera che si ritiene davvero sia riuscita a rappresentare l’orrore della Shoah in tutti i suoi rabbrividenti aspetti.
E naturalmente soltanto un compositore di origine ebraica avrebbe potuto crearla.
L’opera è “Kristallnacht” il compositore è John Zorn.
Un tentativo estremo di raccontare ciò che è indicibile passa attraverso i sette brani che compongono questo buco nero che racchiude l’estrema crudeltà umana e allo stesso tempo questo altare eretto allo spirito dell’uomo che tenta di sopravvivere dove non esiste alcuna pietà.
Zorn presentò questo concept album, imperniato sulla lucida rivisitazione del pogrom nazista, proprio in Germania nel 1992, al Festival Art Project di Monaco di Baviera, per poi pubblicarla l’anno successivo. Il sassofonista compare solo nelle vesti di compositore, lasciando la scena ad alcuni dei migliori musicisti di origine ebrea: Marc Ribot (chitarra), Anthony Coleman (tastiere), David Krakauer (clarinetto), Mark Feldman (violino), William Winant (percussioni), Frank London (trombe) e Mark Dresser (basso).
Il punto di partenza è il klezmer, musica strumentale rituale e liturgica che accompagna le cerimonie e la vita quotidiana delle comunità ebraiche della Mitteleuropa. Musica altresì che, nel corso del novecento è stata in grado di ibridarsi con il jazz quando molti emigrati dall’Europa in fiamme lo portarono negli Stati Uniti.
La profonda evocazione di una melodia Klezmer disegna i confini amari della vita nel ghetto in “Shtetl (Ghetto Life)” il brano che apre l’opera. La dolce malinconia che pervade l’animo all’ascolto viene tuttavia turbata all’improvviso dal suono di una radio Nazista che trasmette uno dei deliranti discorsi del Fuhrer, la musica si fa dissonante, il caos irrompe sotto forma di voci urlate in lontananza mentre gli ottoni e gli archi confliggono incerte tra la melodia e la tensione. E’ solo il prologo a “Never Again” un ingresso nell’incubo della “Notte dei Cristalli” episodio che segnò l’inizio dell’Olocausto. L’assalto sonoro che giunge al nostro udito è tra le esperienze più estreme mai concepite in musica e lo fa per dodici lunghissimi minuti in cui i sensi vengono immersi nel pieno della distruzione di migliaia di vetrine la notte del 9 novembre 1938. Uscire da questo maelstrom di noise quasi privo di requie, se non fosse per brevi pause di inquietante silenzio, è quanto mai arduo per ogni ascoltatore, ma è una prova che è necessario affrontare almeno una volta nella vita se davvero si intende tentare di fare i conti con l’abiezione dell’uomo quando si fa branco famelico. Quando inizia “Gahelet (Embers)” senti un brivido di sollievo dato dal contrasto tra gli estremi, si passa infatti al vuoto pneumatico di un silenzio che lascia giusto percepire ectoplasmi di suoni lontani, frammenti di musica, brandelli di voci. A seguire subentra l’espressionismo free di “Tikkun (Rectification)” dove violini e chitarre malate inseguono spettri di melodie Yiddish appena prima di lasciare spazio alla lunga: “Tzfiah (looking ahead)” un territorio dove singole note di piano appoggiate su sinistri cigolii si sciolgono nei perforanti acuti del violini prima dell’ingresso deragliante delle chitarre distorte a fare da sfondo ad urla rabbiose che inneggiano al massacro degli ebrei, la chiosa del brano, che riprende soavi temi klezmer è solo l’anticamera di un altro momento estremo: i due minuti massacranti di “Barzel (Iron fist)” che danno voce alle mitragliatrici in un orgia di furore che lascia annichiliti di fronte al pugno di ferro. Arriva quindi l’ultimo atto “Gariin (the new settlement)”, il nuovo accampamento, che altro non può essere che un campo di sterminio dove le percussioni e le chitarre suonano come campane a morto la sola possibile colonna sonora in un luogo che non ha più nulla di umano.
Se musica può esistere dove milioni di uomini sono stati sterminati è musica che non ha più alcun contatto con il cuore, un suono di metallo immerso in schegge di vetro prodotto da macchine pensate per distruggere, questo pare il responso conclusivo derivante dall’immersione nell’esperienza d’ascolto di “Kristallnacht”, una croce che ognuno dovrebbe portare almeno una volta per raccogliere la testimonianza sonora di quello che è stata la Shoah, l’inferno sulla terra.
Treblinka 2016
Treblinka non esiste.
Prima di trovarlo giri vorticosamente nella serie di villaggi agricoli fino a stordirti, a spazientirti, forse a rinunciare.
La strada si imbatte in una ferrovia necessaria, ha segnaletica verticale muta, come fosse un posto qualsiasi in cui tu possa semplicemente inciampare.
Treblinka non esiste.
Per farlo esistere, te lo devi inventare sulla strada.
Casette di agricoltori, rimesse di legno,
trabiccoli che sbuffano, sferragliano, cigolano, annaspano,
tendine alle finestre e fiori nel giardinetto,
strade sterrate, campi di cereali, boschi di betulle e quel fiume.
Treblinka non esiste.
Per farlo esistere, te lo devi inventare.
Sbagliando due, tre volte strada.
Due, tre volte giriamo negli stessi villaggi, non riusciamo a venirne fuori.
Alla fine ecco una signora, blocchiamo l’auto, abbasso il finestrino pronunciamo “Treblinka” e lei sorride, ci indica in polacco il percorso,
in polacco sorride,
disarmati sorridiamo in italiano,
cosa possiamo fare?
Potrebbe inventarsi una lingua da capire ? Potremmo sforzarci di capirla ?
E’ una sera che non ci permette le parole, semplicemente non ci permette.
Treblinka non esiste.
Arriviamo ad un incrocio già visto due volte, Ettore dice che forse potrebbe provare da lì, anche se un cordolo di cemento sembrerebbe sbarrare la strada.
Una strada che entra in curva in un bosco di betulle.
Eccolo, sulla cunetta il cartello bianco “Memorial” .
Treblinka pare prendere forma davanti alla macchina, l’odore di resina, le curve, il chiosco informativo, lo spiazzo con un paio di autobus.
Tardo pomeriggio, la luce ha il colore dell’ambra, la betulla alta con le foglie piccole diventa un lampadario di luce.
A piedi.
Treblinka non esiste.
Lo sapevamo. lo avevamo letto.
12 teste su 800.000.
Treblinka lo immagini partendo dal suo inizio, quando esisteva e lavorava, c’era un Treblinka I e un Treblinka II. Uno dei due era un campo di lavoro
Esisteva e lavorava.
Di quella laboriosità schiava non c’è più niente. Artisti hanno simulato una rampa di cemento, una fila di binari inamovibili, la “strada per il cielo”, il crematorio all’aperto per barbecue apocalittici dove le madri si sciolgono coi loro bambini e duecento schiavi si adoperano per rinfocolare la fiamma, affinché non si spenga.
Treblinka non esiste.
E’ esistito.
Ora non esiste più. Vedi ?
Non c’è niente per noi, questo ettaro di spiazzo nel bosco, pietre, un dolmen tozzo che nessuna civiltà avrebbe mai portato così, davanti al pubblico.
Pietre come meteore di galassie polverizzate, tutte dissimili, tutte insensate, tutte uguali nel loro essere simbolo.
Ci aggiriamo storditi, prima per mano, poi divisi, cercando nomi che non conosciamo.
Vogliamo vedere tutto, toccare tutto, la terra, le pietre, lo sguardo. Ci vergogniamo di questi nostri poveri occhi così cristiani, così sicuri.
In lacrime, a mani giunte, ci accostiamo col nostro Padre al cospetto del suo inferno immaginario, al cospetto del cerchio di ragazzi israeliani che abbiamo davanti: le bandiere, le maglie bianche e azzurre, le kippah, tre fiammelle accese.
Non cercano nessuno loro. Hanno già trovato la fonte polacca della loro diaspora, del mutismo dei loro nonni, l’Europa impazzita sui loro libri di storia .
Poi pregano e preghiamo con loro,
Poi piangono e piangiamo con loro.
Poi cantano e noi non possiamo cantare con loro.
Potremmo?
Siamo venuti con una pietra raccolta in un giardino di un isola in mezzo al mare, dove un uomo faceva suonare pietre diverse da queste.
Siamo venuti perché abbiamo appreso la notizia, volevamo esserci per dire che anche noi abbiamo visto quello che vi hanno fatto,
che anche noi abbiamo visto la vallata ignobile scavata dai vostri fianchi mentre vi colpivano come barattoli da luna park.
Siamo venuti perché abbiamo saputo del gas e delle graticole di binari per cremare l’uomo.
Come voi siamo qui.
Allora perché ci sentiamo così poveri ?
Perché il cielo ci porta via questa luce?
E’ tardi, andiamo, tirandoci dietro un luogo e il suo silenzio, la fiammella nello spiazzo, il prato faticoso, le meteore piantate nel terreno, su ogni meteora un nome, una città , il piccolo peluche lasciato sulla lapide per Korczak ed i suoi bambini.
Un viaggio al contrario, dal fuoco alla terra
Incontriamo una sera limpida con la nebbia irreale che sale dal fiume e dai campi tra le betulle, il respiro dei defunti.
Lasciamo tutti là.
Il silenzio.
Il canto.