Ciò che non ti aspetti, è proprio ciò che ti serve: “Dance of the clairvoyants”
E alla fine, è arrivato il primo singolo del nuovo, imminente, davvero atteso – dal sottoscritto, quantomeno – nuovo album di una delle band rock, ancora in attività, più conosciute (e riconosciute) sulla faccia della Terra. Sto parlando ovviamente dei Pearl Jam, e del brano Dance Of The Clairvoyants, lanciato (questa volta è proprio il caso di dirlo, ndr) nel mondo della musica stamane, quando in Italia erano le 6.00 di mattina.
Prima però di addentrarci nella parte più prettamente musicale e referenziale della notizia – l’unica che in effetti abbia un peso e un interesse concreto, nel discorso – è per mio conto doveroso fare una breve premessa che, in sé, è un chiaro coming out musicale.
Io amo i Pearl Jam.
Provo cioè un sentimento di gratitudine, rispetto, assoluta vicinanza e cosciente e non acritico affetto nei confronti di quei cinque più uno ‘ragazzi’. Che mi accompagnano – quasi nel vero termine del verbo – nel mio personalissimo cammino, da quasi trent’anni. E’ una premessa doverosa, visto che è spesso molto facile fraintendere lo sguardo dogmatico di un fan da quello di chi preferisce proclamarsi trasparente e non cieco osservatore e commentatore. L’attesa , in questi sette anni – cioè quelli che distanziano il loro ultimo album Lightning bolt, uscito nel 2013, da quello che uscirà il 27 marzo prossimo Gigaton – per la comunque latente ed esistente parte ‘fan’ di me stesso, non è stata sempre semplice. Ogni ammiratore vorrebbe che i suoi artisti preferiti sfornassero frequentemente capolavori da poter assaporare, fruire, collezionare, senza requie e senza prolungate pause. E, in questo, i fan musicali – e in particolare quelli appartenenti al genere Rock – non fanno eccezione. Quindi potete ben immaginare quale fosse il mio stato d’animo quando, quasi subito dopo aver messo giù il primo piede dal letto, ho schiacciato il tasto play virtuale sullo schermo touch del mio cellulare.
Le prime note mi hanno assalito, letteralmente.
Non per una potenza elettrico-melodica che di certo a questo brano manca – soprattutto se messo in relazione con parecchi dei brani della loro produzione passata, recente e non – ma soprattutto per ciò che di nuovo c’è rispetto a tutto quello che hanno prodotto nei trent’anni della loro carriera musicale. E come succede per tutti gli assalti – da quelli bellicosi a quelli benevoli, come questo – ho avuto bisogno di un po’ di tempo per riprendermi, e per ripercorrere secondo per secondo con accortezza ogni strofa musicale del brano.
Si inizia sulla equilibrata e affascinante base ritmica di un ormai maturo e preciso Matt Cameron, dove si inserisce quasi subito il giro di basso di Stone Gossard , che rende la struttura – apparentemente semplice del brano – quasi concreta, fisica, facendola trasbordare dall’etereo al tattile attraverso il corpo pieno delle sue corde metalliche. Non è un caso che i nostri PJ lascino a Jeff Ament, spesso la “voce più social” del gruppo, il compito di accompagnare con un breve commento il nuovo singolo. “Una tempesta perfetta di sperimentazione, nata dalla collaborazione reale di tutti noi”: questa la sua definizione del brano.
Ed è infatti chiaro che la canzone – come una reale tempesta – è fatta per disorientare, soprattutto chi si aspetta di ascoltare nuovamente le rabbiose e potenti schitarrate di Ten o Vs; e che ci riesca benissimo è una medaglia che va inequivocabilmente e immediatamente assegnata a tutti loro. Dopo un attento, ripetuto e multistratificato ascolto infatti, ad una linea musicale che recupera alcuni degli stilemi propri del rock elettronico anni 80’ – che partendo dai Talking Heads e passando dai Psychedelic Furs, e innestandosi nelle atmosfere post punk stile Echo and the Bunnyman, ha trasportato fino a noi (e a loro, soprattutto) tutta una serie di scorie musicali su cui poi negli anni passati gente del calibro degli Arcade Fire e dei Tv on the Radio han costruito le proprie fortune – non si può non apprezzare il tentativo ( peraltro a mio sindacabile giudizio, riuscitissimo ed equilibrato ) di una chiara sperimentazione, a cui da loro non eravamo legittimati e pronti ad aspettarci.
Ma c’è di più di questo.
Leggendo qui e là alcuni avventati e troppo epidermici commenti di soloni social-autoreferenziali, si potrebbe riceverne l’idea di un brano semplice da ascoltare e – soprattutto, cosa ben peggiore – da costruire. Cosa che ovviamente non è. Perché ad un sapore notturno e chiaroscurale della melodia, vanno associate le parole qui assolutamente non banali del testo scritto da Eddie: un testo sull’amore, non quello semplice e passionale, ma piuttosto quello che è sì “Grande come l’oceano” ma contemporaneamente “ ugualmente difficile da controllare”. Non qualcosa di confortevole, ma piuttosto qualcosa che dovrebbe “burn your assumptions”, farti bruciare ogni tuo più stagnante presupposto. L’amore non è una coperta calda: è frizione, attrito, in ogni sua sfumatura ( Love is friction, Ripe for comfort), e il saperlo ti dovrebbe rendere necessariamente cosciente che nessun “uomo può essere più grande della somma”: come dire, cioè, che ogni persona non può tentare di essere perfetta nell’amore, ma solo ciò che è.
L’amore non è semplice e non è sempre meraviglia, mai sempre e solo passione bruciante: va ricercato tra le sfumature delle giornate, nelle pieghe del ripetersi delle situazioni e dei momenti, che si replicano così come si ripete quel “Stand back when the Spirit comes” l’impianto del brano. Quel chiaro-scuro che arriva dritto al cuore nella melodia è pertanto mimetica e immediata anticipazione del significato più intimo del testo. E la maturità – a cui sono giunti loro e a cui dovrebbe arrivare chi li ascolta – è anche questa: capire che non tutto può rimanere sempre uguale, che ciò che si pretende da giovani (I know the girls wanna dance away their circumstance / I know the boys wanna grow, their dicks and fix and file things) va prima o poi superato, metabolizzato, reso umano.
Bisogna avere la capacità di attendere, di non lasciarsi trasportare della tempesta, di “stare un po’ indietro quando lo Spirito arriva” , per l’appunto. Un po’ come fanno i chiaroveggenti, che riescono a stare fuori dal mondo, osservandolo da un punto di vista privilegiato.
Se Dance of the clairvoyants è evidentemente frutto della nuova voglia di sperimentare di un gruppo nuovamente voglioso di fare musica “a proprio modo” – e non nel modo in cui vorrebbero gli altri – ciò che si legge nel significato del testo non è una novità assoluta, soprattutto per chi conosce bene Eddie e i suoi sodali nella loro evoluzione umana. E se nel riferimento allo “Spirito” è possibile leggere una vicinanza morale e tematica ben cara ad uno dei loro guru (Neil Young, ovviamente ndr), nel tema dell’amore che non può essere sempre e solo esaltazione, crescente passione fisica e innalzamento poetico, si ritrova uno dei perché questa band ha saputo essere – e certo anche rimanere – negli anni la voce e lo spirito di una intera generazione.
Per quanto mi riguarda, non è la canzone che mi aspettavo. Ma, di certo, è proprio la canzone che mi serviva adesso.