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Slowdive: “Just for a day” – sogni e realtà tra Shoegaze e Impressionismo

Ho sempre pensato che ci sia un legame nascosto, profondo, tra l’Impressionismo e lo Shoegaze.
Sin dal loro nome, per entrambi assegnato come una presa in giro. Per la corrente pittorica fu usato come epiteto spregiativo il titolo di un quadro di C. Monet: “Impression: soleil levant”; per la corrente musicale fatale fu invece l’atteggiamento tipico delle band della scena di “fissare con lo sguardo le proprie scarpe”, dovuto al modo, spesso introverso, di porsi sul palco da parte dei musicisti e soprattutto dall’importanza di premere i pedali giusti sulla loro ampia pedaliera per ottenere l’effetto desiderato per la loro chitarra, azione che avveniva molto spesso, considerato l’uso del delay, del riverbero e di distorsori di vario tipo tipici di quel tipo di suono. Le similitudini, però, non terminano qui. Anzi. La somiglianza che si nota di più verte proprio sulla volontà di essere lontani dal clamore, lontani dall’apparenza, sulla volontà di vivere nei sogni. È per questo, forse, che l’utilizzo nei primi dei colori, che permetteva di ottenere superfici in movimento, per niente nitide, lontane anni luce dalla precisione di un Michelangelo, di un Giotto, è assimilabile agli effetti delle chitarre eteree, riverberate e sognanti dei secondi, a loro volta molto distanti dall’utilizzo degli strumenti tipici del rock classico, tutto incentrato sul far emergere il proprio ego e in qualche modo ad immortalarlo. E poi i soggetti. Nell’impressionismo sparisce il ritratto come protagonista assoluto dei dipinti. Quello che sino a quel momento era solo “lo sfondo” diventa un tutt’uno con il resto; il paesaggio è il vero protagonista. Il paesaggio avvolge le figure. La pennellata era la stessa, che si volesse imprimere sulla tela un uomo o un lago. Tutto in funzione della rappresentazione naturale. Nello Shoegaze allo stesso modo la voce non è più in primo piano. È certamente importante ma è impastata negli strumenti. Uno strumento tra gli strumenti. È una vocalità dolce, immaginifica, spesso femminile, apparentemente in contrasto con il muro del suono scaturito dai pedali ma in realtà perfettamente amalgamata, concretamente coerente.
Se è vero che quanto descritto sin ora è valido per tutti gli Shoegazer lo è in particolare per una componente della “sacra” triade: gli Slowdive e per il loro esordio: “Just for a day”. A partire dalla splendida copertina che rappresenta una ballerina in movimento o semplicemente una ragazza con una gonna a ruota che avrei giurato fosse un quadro di Degas se non sapessi che l’album e la relativa cover sono del 1991.
La prima traccia “Spanish Air” mette subito le carte in tavola. Si tratta di una marcia. Una marcia funebre se possibile. “Urla che sembrano irreali, urla che seguono i peccati, non c’è niente qui per me adesso” sono queste le prime parole di Neil Halstead, cantante, chitarrista e autore della band.
Capisci che non tutto è perduto quando senti le prime angeliche note di “Celia’s Dream”.
Capisci che se forse nella vita non c’è speranza essa continuerà sempre ad esserci nei sogni. Capisci che non è importante chiamare le cose con il loro nome (“Dream Pop? Shoegaze?) quando la musica arriva dove deve arrivare.


Nel terzo brano “Catch the breeze” si toccano dei livelli lirici inarrivabili. Il controcanto di Rachel Goswell, front-woman assieme a Neil del gruppo e voce di una bellezza inaudita, si intreccia magicamente alla prima voce di Halstead e catturare la brezza non è mai stato così facile. Ed è facile capire come nonostante sembri “che tutti i giorni siano finiti” e nonostante si voglia “che il mondo passi” basti guardare la pioggia che “aiuta in tutto ciò che fai” quando dopo la disperazione dei primi 2 minuti e 48 secondi arriva la più delicata, incantevole, immaginifica coda strumentale che una canzone abbia mai avuto e comprendi come sia ancora possibile lasciarsi trasportare dalla brezza, dalla corrente, verso mondi inaspettati e realtà sommerse di rara bellezza; quasi impossibile non terminare il pezzo senza versare copiose, purissime lacrime di gioia e di espiazione, di purificazione, qualsiasi cosa questo voglia veramente dire.
Rachel diventa protagonista come unica cantante nella successiva e suggestiva “Ballad of Sister Sue”, subito prima della struggente strumentale di “Erik’s Song” che chiude la prima parte del disco e del vinile.
Si riparte con le sentimentali onde di “Waves” e “come uccelli in volo guardo i miei dispiaceri suonare”. Si procede con Rachel e Neil che in “Brighter” ci dicono di lasciare “tempo al tempo” prima del gran finale con gli ultimi due pezzi della tracklist. Dapprima arriva l’eterea “The Sadman” con la Goswell che ci trasporta in territori ipnotici e ci fa cullare in un’atmosfera quasi da musica ambient per una resa ai limiti del pensabile per poi trascenderci completamente in “Primal” nella quale la trasmigrazione delle anime verso una realtà che non esiste si completa. Chitarre protagoniste per la barriera sonica finale nella quale attraversiamo una tempesta irreprensibile di suoni, emozioni, parole e sensazioni mai provate prima per approdare chissà dove, chissà come, chissà quando in un nuovo lido, in un nuovo porto, in un nuovo luogo dove solo una cosa è certa: non siamo più gli stessi di quando siamo partiti.

Andrea Castelli

“All I want in life is a little bit of love to take the pain away, getting strong today, a giant step each day” (“Ladies and Gentlemen we’re floating in space” - Spiritualized)