Verdena, ed è subito amore. I primi 20 anni di carriera.
Sabato 19 Febbraio 2011. Milano. Primo pomeriggio. I miei amici sono frenetici perché da lì a poco sarebbero andati a vedere un concerto di un gruppo rock italiano. Mi chiedono se ho voglia di accompagnarli. Non sono tanto convinto. Io ascolto poca musica italiana, mi dico. Mi ha sempre dato fastidio quell’atteggiamento tipico delle nostre band di parlare per forza di temi sociali nelle canzoni. Spesso in modo un po’ pedante. Mi dicono che i biglietti sono quasi introvabili e che mi devo sbrigare. Devo decidermi. Ok. Ascolto il disco appena uscito di questa band bergamasca dal nome simile a quello di una pianta. Verdena. Il disco è addirittura un doppio ed ha un titolo onomatopeico: “Wow”. Non mi sembra vero. I temi sociali non ci sono. In cambio ci sono dei bellissimi testi che lavorano per immagini che si creano spontaneamente nella testa. Spesso senza un significato preciso ma aperti a varie possibilità. I suoni sono magnifici. C’è un po’ di tutto. Gli MGMT di “Congratulations”, i Flaming Lips, i Nirvana, i Dinosaur Jr, Lucio Battisti di “Anima Latina”, I Beach Boys di “Smile” e “Pet Sound”. Il batterista è in primissimo piano e pesta come un fabbro. La voce è ipnotica, ammaliante ed evocativa ed è in secondo piano. Uno strumento tra gli strumenti. Chiamo i miei amici: “Prendetemi il biglietto!”
Non me ne sono pentito. Musicalmente è stata un’epifania. Nonostante abbia rischiato letteralmente di morire soffocato dal pogo delle prime file – grazie steward dell’Alcatraz che mi hai prelevato dal pavimento! – è stata una delle esperienze più forti della mia vita. Alberto, il cantante dei testi strani, con un magnifico caschettino alla Beatles aggiornato ai tempi del grunge, non mi ha permesso di staccargli gli occhi di dosso per quanto fosse magnetico. Luca, il batterista, fratello del cantante, con i capelli lunghi fino al culo e a torso nudo, sembrava un indemoniato. Roberta suonava il basso e con il tipico look da bassista indie-rock (capelli rossi e non troppo lunghi annessi) era il baricentro, il punto di equilibrio tra i due fratelli: il centro di gravità permanente, quella che cercava di bilanciare gli estremi dei fratelli Ferrari. A corredo Omid. Un ottimo turnista tuttofare, necessario per rendere dal vivo i voli psichedelici che Alberto ha composto sul disco. Tutto era sempre sull’orlo del baratro. Su un filo di perfetta imperfezione che camminava tra paradiso e inferno, tra capolavoro e disastro, tra calma piatta e maremoto, tra grandi sorrisi e profondi scazzi sul palco. A volte le canzoni venivano interrotte e rifatte come se si fosse in sala prove ma era tutto così naturale e “necessario” da essere bellissimo. Degli animali dotati di puro istinto che passavano da una emozione all’altra, da un eccesso all’altro, come se non si potesse fare diversamente. Come se la ragione non esistesse. Come se non esistessero filtri. Perlomeno lì sul palco. Un quadro impressionista di Monet, un film neo-realista di De Sica, un corto surrealista di Bunuel, un Cristo morto di Mantegna.
Non è esagerato dire che da quel giorno la mia vita è cambiata. “Mi affogherei” dice Alberto in “Valvonauta”. Il primo singolo in assoluto della sua band. Io l’ho preso in parola. Mi sono affogato nei Verdena. Da lì in avanti in 3 tour li avrò visti dal vivo circa 15 volte. E sono diventati la mia band preferita. Ne hanno fatta di strada da quel primo singolo. Li hanno fatti passare quasi per dei Finley qualsiasi. Un fenomeno di passaggio che serviva solo per riempire la programmazione di “MTV Brand New”. Dei raccomandati. “Parole dure, durissime” (direbbe Kent Brockman in una puntata qualsiasi de “I Simpson”) che hanno fatto chiudere sempre più a riccio Alberto, Luca e Roberta in loro stessi ma che, paradossalmente, hanno contributo a renderli una famiglia, come i tre porcellini che chiusi dentro la casa di mattoni sono al riparo dai lupi cattivi che vogliono mangiarseli.
Per fortuna che, anche nel nostro orticello alternative italiano, qualche persona intelligente continua ad esserci. Si accorge subito di loro ad un concerto, tra l’altro costellato di problemi tecnici, Giorgio Canali che non esita a voler produrre il primo disco, l’omonimo “Verdena”, uscito nel 1999. Album ancora acerbo, immaturo, forse ancora troppo legato al fenomeno del Grunge e ai Nirvana, con dei testi un po’ improvvisati ma dove già si intravedono brillantemente le potenzialità di questi ragazzi di Abbazia, frazione di Albino, località sperduta nei boschi della Valle del Lujo.
Continuano i grandi nomi che vogliono seguirli nel sophomore “Solo un grande sasso” del 2001, che viene prodotto da Manuel Agnelli. L’importanza di questo progetto, a mio avviso, è quella di aver fatto capire chi sono i Verdena.
Sono ragazzi che non prendono in considerazione cosa pensi il pubblico o la loro importante casa discografica o la critica musicale di loro. Nonostante l’ottimo successo dell’album d’esordio, cambiano completamente prospettiva e si concedono lunghe suite sperimentali coronate da “Nova” e “Starless”. Noncuranti dei cliché da rispettare.
La prima grande svolta avviene però nel 2004 con “Il suicidio dei Samurai”. Basta farsi produrre da grandi nomi del panorama musicale! Entra in gioco l’auto-produzione! C’è un luogo simbolo del mondo dei Verdena di cui non ho ancora parlato. Il mitico “Pollaio”. Detto anche “Henhouse”. Esattamente quello. Un vecchio pollaio sperduto nel nulla, che dapprima i due fratelli Ferrari e poi dopo, di conseguenza, i Verdena, hanno trasformato in una sala prove e poi in uno studio di registrazione. Ed è qui che una band sotto contratto con una Major, che vende migliaia di dischi, decide di registrare il suo terzo disco. E inizia a sperimentare un tipo di suono sempre più personale, con la voce più impastata nel mixer e la batteria in maggiore evidenza. Un album di passaggio ma non per questo meno riuscito dei precedenti e impreziosito da “Elefante” e dai topi blu che ballano sull’oceano di “40 secondi di niente”.
Dobbiamo aspettare il 2007 per la seconda grande svolta della loro carriera. L’album nero. “Requiem” è il titolo. Lasciate ogni speranza voi che entrate. Brutti, sporchi e cattivi come non mai, i nostri consolidano l’auto-produzione e in un vortice di nichilismo senza speranze, senza luce, ma che non si avvicina neanche lontanamente al cinismo, regalano il loro primo capolavoro. Da un certo punto di vista insuperabile. La scrittura di Alberto trova un registro sempre più immaginifico ed evocativo di lande nere e desolate tra omosessualità di Dio e volontà auto-lesioniste. La musica trova un perfetto equilibrio tra lo stoner degli esordi e la psichedelia dell’avvenire. Parole molto scarne, su volontà della band, nella presentazione del disco da parte della casa discografica. Interviste praticamente inconsistenti e inconcludenti. Ci sono solo loro e la loro musica. Applausi.
I tempi tra un’uscita e l’altra continuano a dilatarsi. Da due anni sono diventati tre, adesso sono diventati quattro. 2011. La terza grande svolta. Il risultato è inaspettato. Un doppio album. E lo strumento principale non è la chitarra elettrica. È il pianoforte. Convertito come San Paolo sulla via di Damasco, Alberto ascolta Brian Wilson ed ha l’illuminazione. È tutto così difficile con la chitarra, dopo aver esautorato tutto il dicibile con Requiem, che Alberto, giocando con il piano, scopre che tutto diventa facile, tutto è magia. Il disco si illumina così di luce bianca e purissima. In pieno contrasto con l’album precedente. Dopo lo Yin arriva lo Yang. È tutto un saltellare, un alternarsi di piano e chitarra elettrica, di synth e chitarra acustica. Ha una grazia particolare. È un album leggero ma non di musica leggera. Leggero come l’aria, libero come il vento. Celeste. Galleggia in una dimensione più alta. “Wow” è così inspirato da essere considerato all’unanimità un disco epocale. Diventa disco d’oro in Italia per aver superato le 30.000 copie di vendita. Vere. Reali. Non da ascolto su Spotify. E per la critica diventerà uno degli album italiani migliori di tutti i tempi. Per il sottoscritto L’ALBUM italiano più bello di tutti i tempi.
L’attesa per il disco successivo inizia a diventare spasmodica ma dopo quattro anni esatti, nel 2015, ecco che arriva “Endkadenz”. Il trio diventa sempre più criptico. Il titolo allude al finale di un’esibizione musicale-teatrale del compositore Mauricio Kagel in cui un uomo si schianta dentro un timpano da orchestra dalla membrana di carta. Ennesimo album in stato di grazia dei nostri. Si dice che dopo la tesi arrivi l’antitesi e poi ci sia la sintesi. È esattamente quello che è successo con “Endkadenz”, che racchiude le espressioni artistiche di “Requiem” e quelle di “Wow” in un altro doppio album, questa volta, però, uscito in due volumi separati, a 7 mesi di distanza l’uno dall’altro. Certo, manca l’effetto sorpresa che gli ultimi 2 LP avevano regalato ma la qualità è altissima. Il suono è sempre più personale e impastato in un tunnel di distorsioni grazie ad un pedale che la band ha ricevuto come regalo. Quale altra band riceve in regalo un pedale e ci costruisce un doppio? Geniali.
Parentesi a parte per gli EP. A partire dall’uscita del primo disco, i Verdena hanno fatto uscire, più o meno in concomitanza della pubblicazione dell’album, uno o più EP dove venivano racchiuse sperimentazioni di vario tipo molto succose: outtake, demo, versioni alternative, cover, utili per capire il perché l’album abbia raggiunto determinati obiettivi e di come ci sia riuscito. Ultimo, in ordine d’uscita, lo “Split EP” con IOSONOUNCANE, nel quale i bergamaschi hanno coverizzato alcune tracce di quella pietra miliare di “DIE” e Jacopo Incani ha invece coverizzato alcuni pezzi di “Enkadenz”. Un prolifico incontro che si spera, come quello con Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, sia sempre più intenso, per regalarci ancora pietre preziose come queste.
I quattro anni da “Enkadenz” sono passati. A Gennaio saranno cinque. Il momento si avvicina. E io non vedo l’ora di inebriarmi di nuova musica da Pollaio e di cantare a squarciagola tutte le loro canzoni sotto il palco. Ragazzi vi aspetto. Fatemi sognare ancora!