Quarant’anni dal monolite metallico: Metal Box / PIL
Il mio ricordo è questo. Un ragazzino di 14 anni entra in un negozio di dischi della periferia della piccola città di provincia dove vive, il nome per la cronaca era Pick Up, e inizia ad aggirarsi tra gli scaffali. In mezzo al negozio c’è una sorta di tavolo con esposte le novità discografiche. Tra le tradizionali copertine cartacee degli LP emerge un oggetto totalmente alieno. Una scatola metallica circolare scintillante.
A sbalzo sul metallo è riportata quella che presumibilmente, stando a banali esigenze di marketing, dovrebbe essere la sigla del gruppo: PIL. Il ragazzino non l’ha mai sentita, a malapena sa, grazie a Ciao 2001 sua unica lettura musicale nota peraltro per la sua devozione per il progressive e la west coast, che c’è stato un movimento in Regno Unito che è andato sotto il nome di Rivoluzione Punk e che i suoi alfieri si chiamavano Sex Pistols ma non ha alcuna idea che dietro l’acronimo PIL si celi il temibile Johnny Rotten che aveva incendiato Inghilterra e Stati Uniti fino all’anno prima.
L’oggetto metallico emana un fascino attrattivo simile alla montagna di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, o al monolite di “2001 odissea nello spazio”, è qualcosa di unico, di nuovo, di sfidante. Ma i soldi sono pochi e il disco costa più degli altri, e se poi non piace ? Meglio aspettare per non prendere fregature dato che si va avanti con le mancette genitoriali. Per cui Metal Box resta li, nel negozio lasciando tuttavia una fotografia indelebile di se nella mente del ragazzino, che lo recupererà in seguito da adulto sborsando una cifra ovviamente ben maggiore.
Dopo lo sberleffo finale “avete mai avuto la sensazione di essere stati fregati ?” urlato al pubblico alla fine dell’ultimo concerto dei Sex Pistols al Winterland di San Francisco il gennaio 1978, Johnny Rotten era tornato a Londra e si era trasferito a Gunter Grove, zona Chelsea, in una casa vittoriana acquistata con gli introiti della grande truffa del rock ‘n’ roll. Con lui occupano la magione Dave Crowe amico di lunga data e Keith Levene chitarrista fuoriuscito dai Clash dalle capacità tecniche fuori dal comune (da buon fan del progressive rock e in particolare di Steve Howe) pareggiate tuttavia dall’inventiva e dal desiderio di sfidare le regole.
Il rapporto di Johnny con Richard Branson, boss assoluto della Virgin Records con cui i Sex Pistols avevano pubblicato “Never Mind the Bollocks”, è vivo e vegeto e rinforzato tra le altre cose dalla passione di entrambi per il reggae ed il dub giamaicano. L’appoggio della Virgin spinge Johnny a unire le forze con Levene e con un teppista di Whitechapel che usa il basso elettrico come terapia personale, tale John Wardle aka Jah Wobble. Il trio, con alla batteria Richard Dudanski esordisce con un singolo “Public Image” che nell’ottobre 1978 (quindi nove mesi dopo il funerale ai Sex Pistols) costituisce la data di nascita, se può essercene una, del Post Punk e inventa quella che poi con termine molto fortunato pensato per raccogliere sotto un unico cappello proposte diversissime verrà chiamata New Wave.
Il pezzo entra nella top ten Uk, la critica britannica è generalmente entusiasta, entusiasmi che saranno parzialmente smorzati dall’album che seguirà poco dopo: “Public Image Limited” che darà anche il nome al progetto, un disco ostico, urticante, disturbante che rivolta, a partire dalla copertina (sullo stile di una rivista di moda con i quattro componenti vestiti in abiti di sartoria), tutto ciò che Rotten aveva significato fino a quel momento.
La casa di Gunter Grove diventa una specie di rifugio laboratorio per una miriade di personaggi che lasceranno segni tangibili di se tra questi Don Letts ele Slits. Al piano terra le casse mandano Reggae e Dub a ciclo continuo ed è su questo groove che verranno poste le basi del successore di “Public Image Limited”.
Ma non è solo di ritmi giamaicani che si nutre la bestia Pil, anche il quattro quarti danzabile della disco music, demone assoluto per ogni punk rocker che si rispetti, esercita un fascino potentissimo sul combo in un ottica di distruzione delle gabbie mentali che avevano costituito la lapide del concetto di Punk.
“Death Disco” è il primo frutto a cadere dall’albero e già il titolo che mette insieme la nera mietitrice e il suono da discoteca è una sfida da far tremare i polsi. Il testo poi, ispirato a John, ormai definitivamente “Lydon”, dagli ultimi giorni di agonia della madre morta di cancro è quanto di più lontano si possa immaginare da una potenziale ottica di successo. Eppure il brano, forte di un drive funk danzabile efficacissimo, entra nella top 20 e Top of the Pops è obbligato a proporre la band ed il brano nella propria programmazione. Probabilmente il singolo più estremo ad essere mai penetrato nei piani alti delle charts britanniche.
Il lavoro su quello che diventerà Metal Box procede a spizzichi e a bocconi tra il Townhouse e il Manor, due degli studi più avanzati e costosi del Regno Unito, resi disponibili al gruppo grazie a Branson. Per contenere i costi la band compone e registra quasi in unica soluzione negli orari in cui lo studio non è occupato. Molte della basi del disco vengono registrate alla prima o alla seconda take. Il batterista Dudanski a metà lascia il gruppo e il resto del lavoro sul drum kit viene portato a termine da Levene e Wobble.
Il basso di Wobble è lo scheletro e il cuore pulsante del disco, la chitarra di Levene la carne, i nervi, le vene.
Sui groove ritmici ipnotici costruiti da Jah, Keith mette a frutto la propria tecnica di esplorazione dell’errore: ogni qualvolta registrando commetteva un’imprecisione o un errore lo usava come schema per cambiare prospettiva rispetto a quanto aveva programmato di suonare. La sua chitarra affilata, tutta spigoli e abrasioni circonda la voce di Lydon affiancandosi ad essa spesso in litanie celtiche o arabeggianti, o citando espressamente temi immortali come quello del Lago dei Cigni.
Il lavoro di registrazione messo su nastro con grande rapidità sebbene lungo un periodo di tempo inframmezzato da varie pause, subisce poi uno straordinario trattamento in fase di mixaggio applicando la filosofia tipica del Dub giamaicano, quella per cui lo studio di registrazione è uno strumento a sè e come tale va usato. E’ questo lavoro di post produzione a dare al disco quella organicità che lo rende un monolite imprescindibile nella storia del rock. Ma quello di nuovo che i Pil riescono a fare è applicare al loro suono l’estetica dub della sottrazione, dell’utilizzo degli spazi vuoti senza però utilizzare l’effettistica classica di riverberi e delay impiegata dai produttori giamaicani.
L’idea della confezione per il disco è rivoluzionaria, come del resto la musica che sarà contenuta in quei solchi, e non può essere altrimenti. I Pil chiedono alla Virgin di pubblicare l’album nel formato di tre dodici pollici a 45 giri, il formato più premiante per il suono del basso di Wobble. Ma non basta. I tre dischi devono essere contenuti in un contenitore di metallo simile a quelli utilizzati per le pizze cinematografiche. L’invito sotteso, rivoluzionario anche esso in quel momento storico è quello di ascoltare i brani in qualsiasi ordine, spezzando la dittatura prevista dal formato vinilico a 33 giri. Qualcosa che anticipa di parecchi anni l’ attuale modalità di fruizione diventata frequente prassi con l’invenzione del tasto shuffle sui lettori cd, sugli Ipod, su Spotify. I tre dischi sono alloggiati nella scatola separati da tre fogli circolari di carta. Un solo foglietto in caratteri rossi riporta i titoli e le scarne note di copertina. Aprire la scatola e tirare fuori i dischi è una manovra non facilissima e comportante il rischio di graffiare il vinile, anche questa una scelta deliberata dei Pil, in qualche modo anche questa una sfida. La Virgin mise in chiaro che il costo dell’operazione, sessantaseimila sterline, sarebbe stato a carico dell’anticipo pagato al gruppo che non battè ciglio. L’arte del resto non ha prezzo, i tempi del “filthy lucre” erano ancora da venire. NE furono prodotti 50.000 pezzi esauriti i quali il disco venne riedito in una veste più tradizionale e con il titolo cambiato, mantenendo la logica didascalica sottesa all’intero progetto, in “Second Edition”.
I dieci minuti iniziali di “Albatross” sono il manifesto di quella che sarà l’anima del disco, l’ipnosi della ripetizione ad oltranza del riff di basso è il tappeto per “quella voce”, antitetica ad ogni concetto di bellezza classica, ma in grado di esprimere una gamma di sensazioni molto ampia che è il marchio di fabbrica di Lydon (in seguito spesso copiata in vari ambiti si pensi ai Rapture o ai Planet Funk di “Whosaid”)
Il secondo lato presenta in fila i due singoli, la citata “Death Disco” (rinominata “Swan Lake”) e “Memories” ancora più spinta sul versante hard dance. Lydon abbaia contro un uomo che ha la testa nel passato, un nostalgico cui John dedica tutto il suo livore.
“Poptones” che apre il terzo lato è tra i brani più noti dei PIL per via del testo disturbante in cui viene esposta in maniera frammentata ed ellittica la vicenda di una persona violentata dentro un auto nel bosco mentre l’autoradio manda in onda canzoni pop (Poptones). La voce di Lydon e la chitarra incredibile di Levene si incrociano in un modo vagamente orientale poggiandosi sul consueto memorabile riff di Wobble. Un vero e proprio incubo
Careering poggiata su strutture ritmiche pulsanti estremamente coinvolgenti vede Levene abbandonare la chitarra e lanciarsi nell’esplorazione delle timbriche allora avveniristiche del sintetizzatore Prophet 5 mentre Lydon narra la particolare vicenda di un terrorista nord irlandese che si ricicla come businessman nella City.
“No Birds” apre il quarto lato con andamento quasi marziale su cui Levene stende le sue schegge sonore arpeggiate ricordando in qualche modo il singolo di esordio della band mentre Lydon una volta in più inveisce contro tutto e tutti. “Graveyard”, esclusivamente strumentale segue a ruota, ancora una volta in un territorio dub disco irto di chiodi infilati dalla chitarra nella polpa morbida del basso.
Il quinto lato, forse il più debole del lotto, vede in fila “The Suit” e “Bad Baby” in cui compare per la prima volta alla batteria Martin Atkins che resterà nel gruppo per fino al disco successivo e oltre.
Chiude la danza una “suite” di dodici minuti abbondanti suddivisa in tre parti: “Socialist”, trip psicotico sintetico, “Chant” litania funk con Lydon che pontifica sulla violenza di strada e i progressisti all’acqua di rose che leggono il Guardian, e “Radio 4” unico momento meditativo dell’intera opera anche essa immersa in suoni sintetici e armonici di basso.
Il disco esce il 23 Novembre 1979 raccogliendo consensi unanimi introdotti dal numero di NME uscito il giorno successivo con Lydon in copertina e una recensione dell’album a tutta pagina.
Metal Box è uno degli imprescindibili. Uno di quei dischi senza i quali la storia della musica avrebbe avuto un corso differente. Ed esce in un momento in cui l’attenzione critica e di pubblico è predisposta come non mai per la “nuova onda”. La classifica di fine anno di NME presenta in fila nella top five: “Fear of Music” dei Talking Heads, “Metal Box”, “Unknown Pleasures dei Joy Division, “Setting Sons” dei Jam, “Entertainment” dei Gang of Four. A seguire…Slits, Raincoats, This heat, Swell Maps, Fall, Pere Ubu e Wire.
I PIL erano stati il motorino di accensione di questa nuova rivoluzione sonora.
Paul Morley, una delle penne più blasonate ed ispirate del periodo, scrisse: “ I Pil sono indubbiamente ciò che Miles Davis aveva in mente quando sosteneva di poter mettere insieme il più grande gruppo rock del mondo. Con uno spirito così irrequieto e una attività così intensa il rock dovrà combinare disastri inenarrabili per scomparire di nuovo nel deserto. Ammiriamone la fioritura”.