Tra una birra e un chinotto, la Torino degli Statuto sotto i portici del centro
La serata ottobrina non pare autunnale: la temperatura consentirà di svolgere la chiacchierata sotto i portici di via Po, seduti ad uno dei tavoli antistanti il Blah Blah, uno dei templi torinesi della musica. Ci arrivo accompagnato da Giordano Armellino, amico e fotografo da questa sera arruolato in We Love Radio Rock, con reciproca soddisfazione. Ed ecco che, puntualissimo, giunge il protagonista di questo incontro.
Giovanni Deidda, meglio noto come Naska e normalmente rintracciabile dietro piatti e tamburi e la scritta “Statuto” sulla grancassa, è una persona di rara cortesia ed estremamente disponibile. Naturalmente, essendo entrambi torinesi, ci si conosce di vista da decenni, abbiamo brevemente chiacchierato più volte in occasione di qualche concerto o incrociandoci nei negozi di dischi e abbiamo avuto qualche simpatico scambio di battute via social. Ordinate un paio di birre e un chinotto, la prima risposta scaturisce dal semplice dialogo introduttivo:
Sembra banale, ma dobbiamo partire dalla fine del 1982 e proprio da Piazza Statuto, il luogo in cui si ritrovavano i Mods torinesi. Il primo nome degli Statuto fu Speed Kills, un nome inglese che avevamo preso da un’immagine presente su ”Mods!” di Richard Barnes, all’epoca una sorta di bibbia iconografica, piena di documenti e foto dell’ondata mod originaria, quella degli anni 60. Ci piaceva il nome, “La velocità uccide”: rientrava nell’immaginario mod, un riferimento all’uso delle anfetamine. Poi, dato che cantavamo in italiano ed eravamo caratterizzati da questa appartenenza ad un mondo che si ritrovava in quella piazza, la denominazione naturale venne da sé e ci accompagna da 38 anni.
Con discreto successo, possiamo dire.
Beh, sì: ci sono state varie fasi, alti e bassi. Lo ska revival degli anni 80 ci permise di esordire dal vivo, nel 1983, ispirandoci ai gruppi inglesi del tempo: i Selecter, gli Specials… Soprattutto i Madness, che avevano suonato a Torino nell’ottobre del 1980 (c’ero, ndi). E i Jam, assolutamente.
I Beat, quelli inglesi, e i Bad Manners…
Sì, certo. Tutta gente che in Italia aveva un seguito, ma inferiore alle apparenze. Poi Torino, come ben sai, era caratterizzata da vari epicentri di fermento culturale, grazie a personaggi che ancora oggi gravitano nel mondo della musica, come Mixo, per esempio, o Giorgio Valletta. Alcuni, purtroppo, non ci son più: penso a Gigi Restagno. Gigi fu per noi, ma direi per tutti, un enorme punto di riferimento: portava dall’Inghilterra tutte queste suggestioni e influenze che diffondeva tramite Radio Flash. All’epoca non c’era internet: quello che ti piaceva te l’eri conquistato, avevi letto di un disco su una fanzine, magari portata da un amico che era stato in vacanza a Londra, e ti toccava aspettare settimane, a volte mesi, per poterlo ascoltare davvero. Quando da Rock & Folk (noto negozio di dischi torinese, ndi), o tramite la cassetta registrata da un altro amico, realizzavi il sogno di conquistare l’oggetto del desiderio, ti sembrava di aver trovato un lingotto d’oro.
E gli Statuto esordiscono sull’onda di questi fermenti…
Sì: eravamo dei teenager (all’epoca avevamo 15/16 anni) che non avevano altra aspirazione che quella di suonare ai raduni mod, mai più avremmo pensato di farne una carriera professionale. Ma la cosa sorprendente, pensandoci oggi, era che noi, come tutti gli altri gruppi del tempo, avevamo una sorta di consapevolezza comune… I nostri testi, ancora acerbi e con qualche “spigolosità” grammaticale, erano comunque già caratterizzati da tematiche sociali, un certo impegno, denuncia, ribellione, rottura… Tutte cose che non riscontro nella scena giovanile attuale. Non voglio far paragoni, i contesti sono diversissimi, ma la trap veicola messaggi completamente diversi, molto individualisti: un finto machismo, avversione nei confronti dei genitori, lo sfondarsi di canne… Non avverto tensione sociale, ecco. Lasciando stare gli Statuto, che non sta a me giudicare, i primi che mi vengono in mente sono i Rough di Piero Maccarino (prematuramente scomparso nel 1999, a lui viene dedicata la rassegna annuale “Gli Amici Di Piero”, gli Statuto gli dedicheranno il brano “Un Fiore Nel Cemento”, ndi): un brano come Torino È La Mia Città è una cartolina, un fedele dipinto della Torino degli anni 80. E penso che Piero avesse circa 17 anni, quando la scrisse: una maturità che oggi non riscontro non solo nel mainstream, ma neanche a livello “indie”.
Parliamo un po’ di come vi siete conosciuti: vi siete proprio incontrati in Piazza Statuto, oppure avevate conoscenze comuni, di tipo scolastico, o eravate vicini di casa…
Per quanto mi riguarda, ci arrivai tramite un amico fanatico dei Jam. Lui non frequentava la piazza, benché fosse un mod, ma quei dischi mi colpirono a tal punto che mi consigliò di andarci. Io all’epoca ero un fan dei Beatles (e lo sono ancora), quindi ascoltavo già la musica degli anni 60, però fino a quel tempo The Jam mi erano ignoti: fu quell’amico a passarmi quegli album, oltre a quello dei Blind Alley di Restagno, facendomi capire che avrei potuto apprezzare qualcosa di contemporaneo. Non avevo neanche ancora visto “Quadrophenia”. Quando arrivai in piazza riconobbi subito Oscar (Giammarinaro, cantante degli Statuto, ndi) e qualche altra faccia già vista da Rock & Folk, quando era ancora in via Rattazzi. Era la fine del 1982, il gruppo si stava formando e mancava giusto il batterista: avevo 16 anni e studiavo batteria da autodidatta da 2, solo che loro facevano le prove la sera, mia mamma non mi lasciava uscire oltre il circondario, figuriamoci prendere un pullman per andare a Grugliasco, che era piuttosto distante dal quartiere (Santa Rita) in cui abito ancora adesso, solo a due isolati di distanza di dove abitavamo al tempo.
All’inizio eravate già tutti mods?
Sì, le prime formazioni degli Speed Kills erano tutte composte da mods di Piazza Statuto, poi col cambio di nome sono rimasti più o meno gli stessi, fino al ’92, quando siamo andati al Festival di Sanremo e, con l’aumento di serietà del progetto, vi sono state diverse variazioni e sono entrati musicisti esterni. Ma Oscar e io ci siamo da sempre e abbiamo sempre mantenuto questo strettissimo legame con quei mods della piazza, che venivano anche ad assistere alle prove.
Qual era la vostra base? Avevate una sala prove fissa?
No, figuriamoci: provavamo nell’officina del padre di Oscar, che era un saldatore. Non avevamo nulla, nemmeno le aste per i microfoni: li attaccavamo con lo scotch o del nastro isolante ai manici di scopa, tra pezzi di ferro più o meno arrugginiti e odori di olio e grasso. Si provava il sabato pomeriggio, venivano i mods a sentirci, qualcuno provava a suonare, molti proponevano idee: “ qui metterei un sax”, “lì ci starebbe bene un break, una rullata, un assolo”… c’era molta condivisione, era davvero il lavoro di squadra del movimento mod torinese. Un modo molto originale di crescere come musicisti.
Riepilogando: nel 1982 nascono gli Speed Kills, dopo pochissimo cambiate nome quasi in concomitanza con la tragedia del Cinema Statuto. Ha mai creato qualche malinteso, questa omonimia?
No, nonostante la vicinanza temporale (febbraio ‘83, ndi) e fisica (il cinema prendeva il nome proprio dalla vicinissima piazza, ndi), nessuno ci accusò di speculare su un nome che d’un tratto era divenuto tragicamente famoso.
Hai detto di esserti dedicato alla batteria a 14 anni, quando eri un fan dei Beatles: immagino che ti ispirassi a Ringo Starr, ma la scelta era dovuta a un istinto nel tenere il ritmo o a una fascinazione nei confronti del personaggio?
Mah, non me lo sono mai spiegato bene neanch’io: appartenevo ad una famiglia priva di doti espressive pronunciate, mio padre lavorava in banca e non aveva particolari interessi musicali o artistici, aveva una visione ortodossa della vita centrata sulla carriera professionale normalmente concepita. Un giorno, avrò avuto undici anni, mentre ascoltavo i Beatles e avevo davanti il classico fustino del detersivo cilindrico dell’epoca, mi accorsi che era vuoto e lo capovolsi, cominciando a percuoterlo con una paletta e un rastrello da spiaggia, affiancando il secchiello e un coperchio per fare il charleston. Continuai per un bel po’, finché proprio mio papà mi regalò un rullante e due bacchette per il mio compleanno: mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Oltretutto divenni abbastanza popolare, perché mentre tutti imparavano a suonare la chitarra, io passavo per un tipo davvero originale, “quello della batteria”.
Sei autodidatta, giusto?
Sì, assolutamente. Non vorrei apparire saccente, né superficiale, ma ritengo che nel mio caso sia stato importante, perché l’approccio più istintivo mi ha consentito di essere più personale nello stile, meno standardizzato. Una cosa che mi viene detta spesso è che il mio tocco è facilmente riconoscibile. E certi errori possono aiutare, possono diventare una sorta di marchio di fabbrica. Comunque continuo ad imparare: in questo periodo, per esempio, Slep (Franco Sciancalepore, chitarrista e cantante che vanta collaborazioni che vanno da Francesco De Gregori agli Arti & Mestieri, ndi) ha riformato i Red House, chiamando Rudy (Ruzza, bassista degli Statuto dal 1989, ndi) e me. A quel punto gli ho chiesto se fosse sicuro di volere proprio me, dato che il rock-blues in trio non era precisamente la mia mattonella, ma dopo un po’ di studio e qualche “dritta” avuta proprio da lui, oggi mi stupisco di quanto mi siano già familiari certi passaggi, e non vedo l’ora di affrontare il palco. Si impara sempre, si cresce sempre.
Questa scelta fu mai osteggiata in famiglia?
No, anzi: suonare questo strumento, abitando in un condominio, comporta il fatto di doversi esercitare in orari consoni, tipo tra le 17 e le 18, e il fatto che passassi del tempo a casa in ora in cui altri andavano a vagabondare eliminava qualche preoccupazione. Ma quando, intorno ai 19/20 anni, mio padre si rese conto che l’impegno musicale mi stava assorbendo un po’ troppo, cominciò a preoccuparsi per il mio futuro. Ci fu un periodo in cui avemmo qualche “frizione”, ma quando mi vide a Sanremo capì che ero davvero un professionista: quello fu il momento che sancì la definitiva consacrazione, l’accettazione del fatto che suo figlio “ce l’aveva fatta”, e arrivò a dirmi che avevo ragione, avevo fatto bene a seguire la mia strada. Fu molto importante, per me, perché bisogna considerare che noi non eravamo il solito complesso pop melodico italiano: facevamo ska, pop-soul, tutti generi che da noi non erano, e forse ancora non sono, mainstream.
Non devono essere stati anni facili, i primi…
Decisamente no. Diciamo che ci siamo fatti un discreto culo per raggiungere certi livelli, abbiamo investito moltissimo in noi, sia in termini di tempo, che economicamente e sul fronte degli affetti, ma i risultati ci hanno dato ragione e oggi possiamo guardare a questi oltre trentacinque anni di carriera con la consapevolezza di esserci guadagnati ogni traguardo.
E oggi come vivete questo momento? Avete progetti per il futuro?
Oggi stiamo vivendo un momento critico: non come gruppo, si tratta di un problema generale. Venti o trenta anni fa la scena pullulava, c’era fame di musica, era pieno di posti in cui suonare, l’attenzione del pubblico non era polarizzata dai grandi eventi e si era più disponibili verso generi diversi. In più, la realtà torinese era peculiare: ska, new wave, beat, garage, blues, jazz, dance, reggae… tutti generi espressi da gruppi che avevano seminato negli anni 80 e hanno raccolto lusinghieri frutti nel decennio successivo. Oggi posso dire che rifarei tutto. Magari, però, al netto di quegli errori causati dall’ingenuità, quelle fregature dettate dall’urgenza di mettersi in certe mani perché temi di perdere il momento giusto.
Giordano, che come me apprezza molto la piacevolissima chiacchierata, appoggia la fotocamera sul tavolo, prende un sorso di birra e chiede di fare una domanda:
Quale fu la prima radio che si accorse degli Statuto?
Sicuramente Radio Flash, grazie a Gigi Restagno che ci aveva invitati per la nostra prima intervista: l’occasione era data dalla pubblicazione di un nastro, “Rabbia Mod”, che avevamo registrato in uno studio più professionale, il MiniRec . il titolare dello studio era Gigi Guerrieri, che sarebbe poi stato nel ‘92 il direttore dell’orchestra a Sanremo, quasi a chiudere un cerchio. Oggi ha ceduto lo studio e vive in Spagna, se non erro. Questa domanda mi riporta a quell’intervista, in cui veniva descritto un aspetto peculiare: noi cantavamo in italiano, roba che all’epoca, tolti alcuni gruppi punk di minore notorietà, facevano solo i Litfiba e i Diaframma a Firenze. I Four By Art, per esempio, che erano un gruppo mod milanese, cantavano solo in inglese. Eravamo spesso guardati con diffidenza.
Quale fu, invece, il primo concerto?
Nonostante io fossi uno dei fondatori, dato che non ero ancora stato “sdoganato” per le prove da mia mamma, io ero tra il pubblico, ma lo ricordo perfettamente perché da allora rappresenta il compleanno degli Statuto. Gigi Restagno aveva organizzato il Concerto per la Pace (eravamo ancora in periodo di Guerra Fredda e paura per l’atomica) al Parco della Tesoriera di Torino, il Primo maggio del 1983. L’esibizione in trio, gli strumenti li prestò Gigi.
A parte questa nuova collaborazione con Slep e quella con la Soulful Orchestra, non ricordo tuoi progetti “esterni”, o sbaglio?
In effetti non ho collaborato molto con altre realtà, e quando l’ho fatto è stato per un periodo limitato. Statuto è una band che ti assorbe quasi totalmente, siamo sempre in tour e quando non lo siamo prepariamo uscite discografiche da portare poi in tournée. Per alcuni anni ho appunto partecipato al progetto Soulful Orchestra, ma era una sorta di “ricreazione”: eravamo tutti musicisti impegnati in vari gruppi che si prendevano qualche libertà.
C’è in cantiere qualche novità targata Statuto?
Sì. Non anticipo di più, ma saremo in tour a partire dalla prossima primavera con del materiale nuovo. D’altronde, negli ultimi tempi ci siamo dedicati a celebrazioni: nel 2018 i 35 anni di carriera, con un brano nuovo, l’anno prima la ristampa di “Zighidà” per i 25 anni da Sanremo e risale al 2016 l’ultimo album di inediti. Quest’anno abbiamo tirato il fiato, anche perché il mercato discografico è ridottissimo e il livello di attenzione del pubblico potenziale è ai minimi storici. Nel nostro piccolo mondo ska/mod, però, stanno giungendo segnali confortanti dall’inghilterra, grazie anche alle reunion degli Specials e dei Beat che hanno mosso un po’ le acque, che da noi sono ancora abbastanza ferme, impantanate fra trap e reggaeton. Ma spero che siamo giunti a un punto di non ritorno, quello in cui la ruota può solo ricominciare a girare.
Ci vorrebbe un momento di rottura, come fu il punk alla metà degli anni 70?
Sì, qualcosa del genere. Guarda, non sono solo io a dirlo, ma personaggi come Achille Lauro sono molto più vicini a quello spirito punk che ai fenomeni contemporanei. E non mi riferisco solo all’atteggiamento alla Billy Idol. È chiaro che qualcosa deve venir fuori: viviamo in un’epoca talmente “piatta”, decadente… La parola d’ordine sembra essere “omologazione”.
Possiamo dire che si tratta di un fenomeno che coinvolge vari ambiti, da altre forme di espressione artistica, quali la pittura, il cinema, fino a un’architettura che si concentra maggiormente sul rcupero che sulla creazione?
Sì, bravo: direi che hai centrato il problema: inventarsi qualcosa di nuovo non è facile, quindi ci si concentra sul “restauro” di ciò che si conosce.
Quindi possiamo attenderci delle novità anche sul fronte stilistico?
Posso solo anticiparti che c’è un nuovo progetto, ma l’ambito rimane quello ska in cui ci muoviamo da sempre. Solo un po’ più lento, magari (sorride sornionamente, ndi)
Giordano torna in scena con una domanda da “addetto ai lavori”:
Riprendiamo un attimo il discorso degli esordi, perché le ultime risposte mi hanno ispirato una domanda: parliamo dello stile, ma più che della vostra immagine, sempre curata e in linea coi dettami mod, mi interesserebbe capire fino a che punto dipendesse da voi l’immagine comunicativa, dalle copertine alla grafica.
No, eravamo molto concentrati sul nostro aspetto, dato che amavamo un certo tipo di abbigliamento e volevamo esprimere la nostra appartenenza mediante un preciso look, mentre le copertine, le foto per la stampa, i video erano tutti frutti del lavoro dei grafici messi in campo dalle case discografiche, dai produttori e dai manager. Noi potevamo intervenire fino a un certo punto. Credo che le copertine migliori siano quella di “Vacanze” e quella di “Zighidà”, che è anche la più iconica per come riflette l’estetica mod. È una buona domanda, questa, perché ogni tanto penso alle splendide copertine di certi gruppi, i primi a venirmi in mente i Kraftwerk, che sono praticamente dei quadri, delle opere d’arte, grafiche e concettuali, da ammirare. Noi, non disponendo di un creativo al nostro interno, non ci siamo mai preoccupati più di Tanto di questo aspetto.
Come vi rapportate con la comunità musicale torinese? Avete avuto scambi, reciproche spinte promozionali, con altri gruppi appartenenti alla scena locale?
Mica tanto, sai? Diciamo che la nostra appartenenza a piazza Statuto ci ha isolati, non avevamo grandi rapporti con altre espressioni musicali, anche se bbiamo collaborato con Africa Unite, Funky Lips, Casino Royale… Solo che eravamo avulsi dal “giro” dei Murazzi, per esempio: ci andavamo a titolo personale, anche perché apprezzavamo quei locali e il loro pubblico, ma per una qualche ragione non ci siamo mai inseriti come gruppo.
Avete ricevuto qualche offerta di collaborazione “importante” che avete rifiutato o non vi ha convinto?
No. Piuttosto siamo stati noi a cercare collaborazioni. In fondo, abbiamo lavorato con i Righeira, la Rettore, Ron, Max Giusti: tutta gente che non ricondurresti a noi, da un punto di vista stilistico. Tra l’altro, il nostro produttore è stato a lungo Carlo Rossi, che oltre ad essere un caro amico, era già un produttore di altissimo livello (titolare del Transeuropa Recording Studio, ha prodotto dischi di Ligabue, Jovanotti, Gianna Nannini, Subsonica, prima di scomparire prematuramente nel 2015, ndi), avendo già prodotto i Punkreas, i 99 Posse, gli Africa Unite. Lui è stato il nome torinese più di spicco con cui abbiamo collaborato e col quale avevamo il rapporto più stretto, tanto che ancora oggi siamo sempre presenti nelle occasioni in cui Sandra, la moglie, organizza qualcosa per aiutare la Fondazione “Carlo Rossi”, che favorisce borse di studio per giovani produttori, tipo il concerto al Conservatorio torinese di qualche tempo fa.
Veniamo ora a qualcosa di più personale: cosa ascolta, a casa, Giovanni Deidda? Mi pare di averti incontrato a una convention del disco, qiualche anno fa, e che tu avessi qualche album di Presley che osservavo con avidià, sperando di trovare qualcosa che cercav.
No, lo escludo: probabilmente li vendeva un mio amico. Con tutto il rispetto per il personaggio, Elvis non è in cima alle mie preferenze: credo di avere solo un Greatest Hits e penso mi basti. Il mio mito assoluto sono sempre i Beatles: ascolto un sacco di roba, ma alla fine torno sempre lì, dove mi sento a casa. Diciamo che la mia Triade perfetta è costituita da The Beatles, The Who e The Kinks, e te li ho esposti in ordine cronologico di conoscenza. Ma non posso dimenticare altre passioni, tipo la prima in assoluto: i Kiss, che ancora seguo ed ho visto dal vivo nell’ultima tournée, divertendomi un sacco. E naturalmente i Madness, tutte le varie incarnazioni di Paul Weller (Jam, Style Council, solista). Tra gli italiani apprezzo De Gregori, Dalla, che ho anche avuto il privilegio di conoscere, e soprattutto Battisti, il periodo con Mogol: i due Lucio rappresentano per me lo Zenith della musica italiana (e come darti torto, caro Naska? Ndi). Recentemente ho anche ripreso in mano il periodo “bitt”: i Rokes, ad esempio, mi fanno impazzire, facevano cose non facili, particolari. Scopro anche molte cose che ignoravo, grazie a strumenti come Spotify e altre piattaforme di streaming: ascolto, reputo se mi piace e procedo all’acquisto “fisico”, al quale non posso proprio rinunciare. Se usati bene, questi strumenti sono un grosso aiuto per imparare a muoversi nel mare magnum discografico: il problema è che molti (dicono i giovani, ma in realtà è un fenomeno sempre più trasversale) ascoltano trenta secondi, skippano, ascoltano altro e non approfondiscono nulla.
La penso come te: ho bisogno di un’esperienza sensoriale più ampia, visiva, tattile, olfattiva. Annuso sempre l’odore della stampa delle inner sleeve o dei libretti dei cd. Giordano, vuoi fare ancora una domanda?
Sì: quand’è che vi siete accorti, per la prima volta, che qualcuno stava cantando una vostra canzone?
Credo sia stato all’altezza del nostro secondo singolo, Ghetto, quando andavamo a suonare in locali sconosciuti e la gente arrivava col singolo sottobraccio e conosceva le parole a memoria. E poi quando “Vacanze”, il primo album, finì nelle classifiche dei lettori di fine anno sia di Rockerilla che del Mucchio Selvaggio, due riviste all’epoca molto autorevoli: mi pare che fossimo al terzo posto, dietro CCCP e Litfiba. Roba che a pensarci adesso, mi sembra ancora impossibile. Specie pensando al cachet che prendevamo per suonare: oggi il terzo classificato di un’ipotetica categoria “indie” verrebbe strapagato, mentre noi erano più le volte che ci rimettevamo che quelle in cui recuperavamo le spese. La nostra era una formazione impegnativa non solo logisticamente, ma anche economicamente: pensa anche solo al fatto che la sezione fiati l’abbiamo sempre pagata di tasca nostra, per farti un’idea. Oggi non ci siamo più abituati, ma a quei tempi era del tutto normale fare 700/800 paganti in una serata, si prendeva meno ma lo prendevano tutti: adesso guadagnano solo quelli al top, perché se vendi 800 biglietti sei già considerato un big.
Nel frattempo ci ha raggiunti anche il nostro Stefano Carsen, che ne approfitta per intervenire:
Proprio negli ultimi tempi mi è capitato di andare a vedere qualche concerto di nomi abbastanza affermati: in un caso eravamo in 30, nell’altro un centinaio. Eppure, con la crisi delle vendite discografiche la muisca dovrebbe assumere maggiore importanza nella dimensione live…
Ma è proprio cambiato l’approccio al concerto: oggi conta l’evento, si spendono 100 euro per vedere il concerto sul mega schermo e farsi il selfie dando le spalle al palco e registrandosi sul posto, per far vedere che ci sei, e magari due sere dopo c’è un concerto superfigo qui al Blah Blah, o all’Hiroshima, o dove vuoi tu, a 5 euro, e la stessa persona non ci va. Anche perché uno che spende 100 euro per vedere un mega schermo, secondo me, di musica capisce un cazzo… In più, a Torino c’è già una situazione asfissiante per via degli effetti dei disordini di Piazza San Carlo, sommati ai provvedimenti dovuti alla tragedia della discoteca di Corinaldo in cui doveva esibirsi Sfera Ebbasta, per cui anche la riduzione delle agibilità rende più difficile per i gestori sopportare un impatto inferiore di incasso: dovrebbero dare degli incentivi per compensare la diminuzione degli ingressi. C’è anche una tendenza politica (pensiamo al governo giallo-verde) a limitare le occasioni di espressione culturale: meglio che la gente non sia sollecitata a pensare, perché potrebbe ragionare autonomamente e aprire gli occhi su molte cose…
Visto che stiamo sfiorando la politica: gli Statuto non si sono mai tirati indietro, hanno spesso affrontato tematiche sociali, anche perché inseriti in un tessuto cittadino a carattere prevalentemente industriale, operaio. Erano gli anni in cui finalmente si stava completando il processo di integrazione di un’immigrazione interna che aveva destabilizzato gli equilibri socio-economici, impattando su una crescita repentina della popolazione e l’espansione dei limiti geografici cittadini. Facendo un paragone con la situazione attuale, cosa può offrire, oggi, un musicista “impegnato”?
È difficile a dirsi. Ricordo che quando eravamo bambini noi c’era ancora quel modo di dire: “Chiel lì a l’è ‘n napuli”, ma stava già perdendo ogni accezione negativa e, come dici tu, a fine anni 70 si poteva dire che l’integrazione fosse compiuta. Oggi, contrariamente a quanto si potrebbe temere, non avverto quel genere di difficoltà: Torino è una città inclusiva, i fenomeni razzisti che vediamo altrove qui sono pressoché assenti, o molto sfumati, e sono molto orgoglioso di appartenere a questa città che sa tenere a bada le spinte destrorse. Ti ricordo che noi pubblicammo un disco intitolato “È Tornato Garibaldi”. Era il 1993, stava crescendo fortemente la Lega Nord e la canzone omonima la criticava fortemente: questo ci causò grossi problemi, dall’ostracismo da parte di alcune radio, fino alla perdita del contratto discografico. Siamo gente che ha pagato sulla propria pelle certe scelte, compresa quella di stare dalla parte degli operai in caso di vertenze con la Fiat: a Torino non è facile mettersi contro l’oligarchia industriale, specie quella di casa Agnelli. Abbiamo pagato il fatto di non appartenere al Sistema Torino, rifiutandolo per mantenere una posizione netta, chiara. Oggi sono rimasti in pochi, su questa linea: mi vengono in mente i Gang, ecco, mentre Brunori o Willy Peyote, pur cercando un certo impegno nei testi, non sono mai così espliciti. Oggi è tutto così diverso…
Stiamo concludendo, quindi rimarrei su una questione di “schieramento”: Torino è una città che vive anche una dicotomia calcistica, gli Statuto non fanno mistero della loro fede torinista, con tanto di “posto fisso” in curva allo stadio.
Sarai mica juventino?
Assolutamente no: granata puro (anche Stefano si agita per sottoscrivere).
Ah, bene: temevo la domanda finale sibillina (ridiamo tutti, ndi). Verrebbe da chiedersi come si possa essere torinesi e di sinistra tifando Juve, ma naturalmente la questione non può essere posta in questi termini. Il Toro è una filosofia, un’appartenenza, un’attitudine. Abitavo a breve distanza dal Filadelfia, andavo a vedere gli allenamenti con mio padre. Paolino Pulici abitava proprio dietro casa mia, ma l’avrei scoperto solo dopo, ahimè (altrimenti sarei stato ogni giorno a fargli la posta sotto casa). Recentemente ho rivisto una foto che lo ritrae sulla sua 126 verde oliva, braccio fuori con la sigaretta tra le dita, mentre parla coi ragazzini dopo un allenamento: è quello di cui abbiamo parlato finora, praticamente. È come il mondo della musica: quel mondo non c’è più, semplicemente. Vedremo cosa ci riserverà il futuro.